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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 03:15 In Editoriali | No Comments

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Partinico, località Grisi, gara di traino, 1975 (ph. Gaetano Pagano)

Ancora una volta la voce degli antropologi non ha trovato spazio nel profluvio delle morbose e fameliche apparizioni mediatiche di politici, opinionisti, esperti, imam e rappresentanti di comunità. Mi pare che nessun antropologo abbia preso la parola nel dibattito sul caso Saman Abbas, la giovane pakistana scomparsa nel nulla, vittima di un efferato crimine maturato in famiglia. Ancora una volta l’antropologia italiana sembra quasi del tutto afona a fronte delle questioni che irrompono nelle cronache dell’attualità sociale e culturale. Eppure sono al centro di questi fatti – e non da oggi – temi eminentemente antropologici, parole e concetti che appartengono al lessico e al pensiero antropologico, al discorso euristico sulle culture: identità e alterità, relativismo, multiculturalismo, tolleranza, etnia, genere, tradizioni, usi e costumi. Vocaboli paradossalmente entrati nell’uso generalizzato dei media, nelle retoriche delle demagogie politiche, banalizzati e piegati a torsioni semantiche, a manipolazioni ideologiche.

A leggere e ad ascoltare le tesi prevalenti nei contenuti e nei toni del dibattito collettivo si ha l’impressione di essere rovinosamente ripiombati nella spirale dello “scontro di civiltà”, una prospettiva totalizzante che interpreta il mondo «come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi». Il filosofo indiano Amartya Sen già nel 2006 nel libro Identità e violenza criticava la visione riduzionista che assume la religione «come l’unico sistema rilevante per classificare gli abitanti del pianeta». Se siamo ancora attardati e impigliati nel garbuglio di questi ragionamenti è forse anche a causa dello scarso peso e della trascurabile influenza, nella sfera pubblica, delle scienze sociali e umane che, «almeno in Italia, – scrive Giovanni Cordova in questo numero – non sfondano la soglia di mura accademiche oltre le quali difficilmente vengono udite e riconosciute». Certo è che la drammatica storia di Saman (ma anche di Hina, di Sana e di altre giovani donne) è emblematica di criticità strutturali che sono non solo della società italiana ma anche dello sguardo con cui osserviamo e giudichiamo queste vicende.

La verità è che sfugge per lo più al nostro orizzonte conoscitivo la complessità del mondo che si sta costruendo, la cui lettura chiede nuove categorie e nuove griglie ermeneutiche per comprendere le dinamiche di quanto sta accadendo dentro le famiglie, tra le generazioni, tra i banchi nelle scuole, nel convulso circuito dei social e nell’intensa quotidianità della vita contemporanea. Continuiamo a chiamare immigrati quanti sono residenti da anni in Italia e qui hanno fatto nascere i loro figli e hanno investito i loro destini. «Fino a che punto – si chiede Cordova – il lemma ‘migrante’ e il concetto che lo determina sono tollerabili per descrivere una presenza oramai strutturale nel paesaggio demografico e antropologico nostrano?». Fino a che punto la cosiddetta integrazione è indicizzabile e assimilabile all’abbandono del velo, al ricorso al rossetto o all’uso dei jeans, e fino a che punto la religione, nel nostro caso l’Islam, è la chiave universale di comprensione di ogni pratica, di ogni gesto, di ogni esperienza dei musulmani che abitano le nostre città?

Giovanni Cordova offre un ampio quadro di argomentazioni per orientarci nelle possibili risposte a questi interrogativi. Sbaglia chi crede di spiegare tutto attraverso le sure del Corano, di ricondurre meccanicamente ogni scelta al dettato del Testo sacro. Ma sbaglia pure chi sostiene che quel che accade non c’entri nulla con l’Islam, minimizzando il valore ponderale delle consuetudini popolari, dei costumi tradizionali, di quelle forme pratiche di religiosità in cui si traduce la soggettivazione dei musulmani. E quasi a farsi beffe degli stereotipi e degli assiomi, proprio nel mezzo delle polemiche sull’integralismo islamico, è quanto meno singolare il contrappasso che ha costretto pochi giorni fa il Parlamento a notificare solennemente la sua sovranità e la sua laicità contro puntuali e indebite ingerenze dello Stato del Vaticano nella legislazione del nostro Paese. Un gioco simmetrico e incrociato di cronache che nel loro sottotesto segnalano la persistenza e la pervasività dei dogmatismi impliciti nelle religioni, o almeno in tutti i monoteismi.

Nel percorso migratorio, già arduo e accidentato per le insufficienze del nostro sistema d’inclusione degli stranieri, «la filiazione e la genitorialità sono tasselli irti di sfide», sono i crocicchi fondamentali nell’incerta geografia e nelle ambivalenti traiettorie di queste vite. Se è giusto rivendicare il rispetto delle nostre leggi, dei diritti di cui ci vantiamo, dei doveri che impone il nostro ordinamento democratico, forse dovremmo pure incominciare ad investire su una politica di riconoscimento dei “nuovi italiani”, su capillari progetti culturali che educhino al complicato gioco del pluralismo, alla faticosa e necessaria convivenza con le minoranze, ai princìpi di una concezione più liberale e più giusta di cittadinanza, per cui non si valutano le persone sulla base della loro provenienza ma in base a ciò che sono diventate.

Sull’urgenza di riformare la legge sulla cittadinanza Dialoghi Mediterranei ha aperto un dibattito a cui in questo numero ha dato il suo autorevole contribuito Franco Ferrarotti, il quale dall’altezza e dalla lungimiranza del suo sguardo di umanista cosmopolita, contro ogni funzione regressiva e divisiva di cittadinanza volta a giustificare le ingiustizie e a legittimare le diseguaglianze, esemplarmente scrive: «Qualunque essere in sembianze umane che nasca e passi per una volta su questo pianeta, quali che siano il colore della pelle o la forma degli occhi, è titolare di un diritto di umanità, e in base a questo diritto va riconosciuto, rispettato e accettato da tutti come concittadino». Altri contributi ispirati a diversi punti di vista hanno posto l’accento sul ruolo civico della scuola (Bellucci), sui rapporti tra sistema mafioso e diritti (Cavadi), sulla decostruzione dei nessi identità/alterità (Dell’Orzo), tradizione/cittadinanza (Pioletti), sulle testimonianze dei giovani di Bologna (Di Marco), sulla revisione critica di norme, princìpi e tutele nel contesto dell’Antropocene del futuro (Sorce), sul valore, infine, della dimensione europea della cittadinanza, di cui Lauso Zagato traccia con particolare acume un preciso bilancio storiografico e un ragguagliato esame giuridico.

Su queste questioni di grande rilevanza politica, sociale e culturale continueremo a ragionare, nella convinzione che se da un lato certe ipocrisie di proclamati relativismi a protezione delle “culture altre” non possono autorizzare dispotismi familiari e pratiche contro la libertà, l’autodeterminazione e la vita degli individui, dall’altro, non è tollerabile che le differenze etniche si trasformino in discriminazioni civili, che lo studente innamorato del nostro Paese e della nostra lingua si scopra straniero indesiderato, che altre Saman restino sole e indifese davanti a drammatici conflitti generazionali e profonde crisi identitarie. Su questo fronte, l’intellettuale, specie lo studioso di scienze umane, dentro e più spesso fuori dell’accademia deve ritrovare l’impegno civile perduto, perché – come annota Nicola Martellozzo – «la costruzione di una nuova forma di cittadinanza passa necessariamente attraverso l’uso pubblico dell’antropologia e la partecipazione degli antropologi all’arena pubblica». Luigi Lombardi Satriani nel suo intervento richiama la figura dell’intellettuale ‘periferico’, espressione che aveva coniato negli anni settanta del secolo scorso, oggi forse – nell’ottica ribaltata del “non ricominciare” – quanto mai al centro di una riflessione complessiva sulla ricostruzione postpandemica del nostro Paese: «L’antropologo non può essere profeta – scrive a conclusione – ma forse può mettere in guardia da generiche aspettative o da illusorie prefigurazioni. In questa prospettiva un’antropologia che ambisca a essere, com’è doveroso, critica, non può che dare il suo essenziale contributo».

Francesco Faeta che ha promosso questo dibattito (nel numero 47 di gennaio) ribadisce nella sua replica le ragioni dell’impegno politico dello studioso, invitando a ripensare «la figura sociale di colui che impiega il proprio bagaglio culturale in funzione di una radicale rimessa in discussione degli ordini vigenti, del “dire la verità”, come sinteticamente titolava Edward Said». Nel passare in rassegna le diverse tipologie di intellettuali oggi presenti nella vita pubblica e nel riconsiderare l’ambito concettuale compendiato nel termine cultura, Faeta indica una posizione teorico-metodologica che «comporta di stare tra le cose e le persone con una profonda umiltà e rinunciando, sperimentalmente, all’implicita gerarchia valoriale che finiamo sempre, malgrado i nostri esercizi zen, per portare con noi sul terreno». E a meglio precisare il suo pensiero aggiunge infine: «La cultura è un mero atto mentale, la società invece è ciò che costituisce il concreto scenario esterno, materiale e sociale, in cui i nostri corpi sono immersi e i nostri atti mentali acquistano significato. Partire da una concezione antropologica della cultura, dunque, significa un allargamento a tutte le forme dell’umano, ma significa anche una rigorosa confutazione del piano astratto e idealistico della cultura stessa».

Dell’impegno a «contribuire, anche con lo studio e la ricerca, alla trasformazione dell’attuale stato di cose» scriveva Alberto Maria Cirese nel lontano 1980 in un saggio dal titolo “Analisi scientifica spassionata e impegno politico-morale del ricercatore” (edito su L’uomo, n. 2, 1980). In quelle pagine che vale la pena rileggere, l’antropologo – di cui in questo numero, nella sezione “Il centro in periferia”, si ricordano con ampie testimonianze e considerazioni critiche i cento anni dalla nascita – ha ragionato col consueto rigore logico sulla sottile dialettica tra il conoscere e l’agire, tra i due paradigmi epistemologici: “conoscere è trasformare” e “conoscere per trasformare”, per sostenere l’ineludibilità dell’impegno, poiché  «anche il rigetto dell’impegno si configura come impegno al rigetto, allo stesso modo che il rifiuto di prese di posizioni politiche è anch’esso una presa politica di posizione. (…) Ogni volta che si fa ricerca sul campo (e poi più oltre quando se ne dà conto, o se ne ricavano risultati), oltre al problema dell’azione che si può e si deve compiere sul terreno della battaglia delle idee, si apre con forza il problema dell’azione progressista che si può e si deve compiere sul terreno dell’organizzazione politico-sociale (o economico-sindacale o educativo-culturale ecc.) dei gruppi umani cui si dedica la ricerca».

Parole, quelle di Cirese, quanto mai attuali e consonanti con l’appello di Faeta. Come sembrano pertinenti al nostro dibattito sugli abusi degli anglismi nella lingua italiana i suoi lungimiranti moniti a che «i files dei calcolatori si chiamino filze come suona il nobile suono archiviato nostrano». Continuiamo a raccogliere anche in questo numero significativi contributi di osservazioni e di proposte per contrastare quella che Ugo Iannazzi denuncia come «la passione degli italiani a essere creativamente attivi nell’inventare neologismi, non più con i nostri vocaboli, ma usando, e talora a sproposito, sempre più termini albionici». Ovvero il vezzo di ricorrere a parole che Nino Giaramidaro definisce «incollate con lo sputo». C’è bisogno di una vera e propria “ecologia linguistica”, sostiene Oliver Durand, perché «la lingua e i dialetti fanno parte dell’ambiente e pertanto hanno diritto allo stesso rispetto che tributiamo a mari, fiumi, foreste e paesaggi in generale». E non diversamente Valerio Cappozzo sottolinea l’importanza «di parole oneste, di quei semi che la mano dello scrittore mette nel campo arato della pagina bianca», perché non ci sfugga la ricchezza della lingua «che può anche contemplare la contaminazione di parole straniere solo quando considerate segnali di nuove idee che hanno bisogno di nuove forme per essere espresse».

La pandemia, nella sua complessità fattuale e simbolica, resta ineludibile tema di riflessione di non pochi scritti anche in questo numero di Dialoghi Mediterranei. Il filosofo Coniglione propone una lettura epistemologica e politica del coronavirus, ragiona sui rapporti tra scienza e potere, tra libertà individuale e obblighi collettivi, sul difficile equilibrio che sorregge l’arte della convivenza in una società pluralista e multiculturale. I filologi del mondo antico Guasparri e Li Causi dialogano con i classici del mondo greco e latino per individuare cesure e continuità nel nostro modo di pensare e di combattere il contagio, oggi «letto antropocentricamente come responsabilità degli uomini – e non delle dinamiche evolutive e co-evolutive nelle quali siamo impigliati in termini ecosistemici», mentre in passato era interpretato come offesa contro gli dèi e/o contro la natura. Due giovani studiose hanno condotto ricerche su particolari contesti epidemici. Mentre Veronica Mesina ha indagato sull’impatto che la didattica a distanza ha avuto sugli studenti universitari e sui loro vissuti personali, nonché sui meccanismi di agency che la situazione pandemica ha comunque prodotto, Elisa Vischetti ha analizzato in un ampio quadro di ricognizione le drammatiche difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari sofferte dai migranti su cui si sovrappongono più vulnerabilità e più necessità.

Di migrazione, come di un prisma osservato nei suoi diversi aspetti, scrivono anche Aldo Aledda, Sharon Arce Martinez, Franco Pittau, Fabio Sebastiani e Nabil Zaher. Quest’ultimo, docente universitario di Lingua, Civiltà e Lettere italiane presso l’Università di Monastir, propone un excursus sulla presenza italiana in Egitto tra ‘800 e ‘900. E a dimostrazione dell’interesse per la cultura italiana coltivato negli atenei dei Paesi del Nord Africa, giungono due studi, su Machiavelli e su Petrarca, da due italianisti che insegnano rispettivamente alla Manouba di Tunisi (Kais Ben Salah) e all’Università di Casablanca (Abdelkader Mouloud). Sulla sponda opposta due linguisti italiani, attenti ai legami storici e alla circolazione culturale tra le popolazioni del Mediterraneo, riferiscono delle loro ricerche sulle varietà giudeo-arabe della lingua maghrebina (Luca D’Anna) e sulla genesi ed evoluzione dei dialetti parlati ancora oggi in Tunisia, Algeria e Marocco (Alessia D’Accardio Berlinguer).

Come sempre Dialoghi Mediterranei ospita una particolare pluralità di testi che trasversalmente connettono storie e geografie lontane, discipline, generi e temi diversi, letture, riscoperte, escursioni, divagazioni e fotografie. Tante fotografie di maestri, siciliani e non, che hanno generosamente partecipato con le loro opere alla composizione di questo inedito e incomparabile atlante di immagini, una mirabile tessitura di mondi e di luoghi, di momenti e di documenti, di sguardi e di ritratti. Suggestioni di memorie o incantesimi di visioni, illuminazioni di bellezza o scrutinio del dettaglio rivelatore, piccole narrazioni o dense testimonianze di un passato appena trapassato con un clic: quanto lontane sono queste fotografie dai cliché offerti dai modelli mediatici, dalla fotocrazia in cui siamo immersi! Quella scattata da Gaetano Pagano, per esempio, posta in apertura di questo editoriale, nel cogliere l’uomo impegnato in una gara di traino mentre aiuta il cavallo a tirare il carretto nella faticosa e accidentata salita, non può forse simbolicamente rappresentare la sfida e lo sforzo collettivo cui siamo oggi chiamati per risalire la china, per uscire tutti insieme – uomini, animali e ogni specie vivente, in solidale sinergia – dalle sabbie mobili della pandemia?

A ciascuno dei maestri fotografi – dal decano Melo Minnella al più giovane Salvo Alibrìo – va la nostra viva gratitudine per aver reso ancor più prezioso questo numero 50 di Dialoghi Mediterranei, straordinario anche perché coincide con la ricchezza degli interventi nello Speciale Cirese. Nell’affidarlo alla rete abbiamo la fiduciosa consapevolezza di aver, con pochi mezzi e grande perseveranza, costruito in questi otto anni di puntuali edizioni bimestrali una comunità di affettuosi collaboratori e di attenti lettori. Abbiamo pubblicato più di duemila articoli, che è possibile scaricare singolarmente o nell’insieme dei numeri archiviati in pdf. Contiamo su una vasta rete di autori, più di un centinaio, che scrivono testi inediti con sistematicità e liberalità per la rivista. Registriamo ogni giorno circa tremila visualizzazioni e più di un migliaio di visitatori. I numeri dicono qualcosa dell’ampia circolazione – anche internazionale – del periodico che si è guadagnato nell’affollato spazio online una sua riconoscibile e apprezzata identità. Collettore di idee, di proposte e di dibattiti su questioni sociali e forme ed espressioni diverse delle culture contemporanee, Dialoghi Mediterranei deve la sua crescita anche al prestigioso contributo di studiosi come Pietro Clemente che cura quel “Centro in periferia”, diventato autorevole punto di riferimento scientifico per quanti vogliono sperimentare, studiare e confrontarsi su modi nuovi di rivitalizzare e riabitare i piccoli paesi delle aree interne in profonda crisi demografica.

L’antropologo, impegnato a ragionare «sui temi della ‘coscienza di luogo’, sul valore delle esperienze accumulate dalle generazioni nel costruire paesaggi ed esserne plasmate», non cessa di invitare a ricercare e incentivare la vitalità culturale delle periferie che si fanno centro, rovesciando i ruoli e invertendo lo sguardo, dato che – per riprendere le sue parole pubblicate nel primo numero di “Il centro in periferia” (1 settembre 2017) – «una idea nuova di civiltà complessiva non può che nascere dai luoghi piccoli perché in essi sono visibili e riprogettabili i nessi che fondano la civiltà, le relazioni sociali e quelle con la natura». E a guardar bene, a questo progetto civile e culturale concorre anche l’impegno della nostra stessa rivista che – sono ancora le generose parole di Clemente – «dialoga col mondo ma ha un luogo di riferimento locale Mazara del Vallo, una periferia che si fa centro».  

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Salvatore Costanza a Mazara, Teatro Garibaldi, 14 marzo 2015

Mentre ci preparavamo a chiudere la redazione di questo numero ci ha colto la triste notizia della morte di Salvatore Costanza, storico raffinato, intellettuale di grande umanità, testimone di un rigoroso impegno civile e culturale. La sua attenta e intensa ricognizione storiografica, che aveva i ritmi e le risonanze letterarie di una sorta di investigazione sciasciana, si è lungamente esercitata intorno ai punti di snodo e di intersezione che connettono la dimensione locale a quella globale della storia. Le sue ricerche su Trapani, la Sicilia, il Mediterraneo relazionano uomini e mondi diversi, facendo dialogare il cosmo e il campanile (per richiamarci a Cirese), la storia generale con quella municipale, sguardi incrociati nell’orizzonte di una visione permeata di una profonda sensibilità umanistica. «Dentro la storia – ha scritto – ci stanno gli uomini, agonisti o comprimari che siano, ma ciascuno per proprio conto è centrale nella vicenda che gli appartiene».

Già giornalista e protagonista per lunghi decenni della vita culturale in Sicilia, Salvatore Costanza ha affettuosamente collaborato con Dialoghi Mediterranei. Per festeggiare i suoi novant’anni avevamo progettato una giornata di studi in suo onore, a cui avrebbero partecipato colleghi, amici e allievi. La lunga e interminata pandemia ha fatto naufragare il progetto. A lui dedicheremo nel prossimo numero un ampio spazio per ricordare i diversi aspetti delle sue versatili attività di intellettuale e dei suoi numerosi e rigorosi studi storici.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021

 

 

 

 

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