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EDITORIALE

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Campo profughi palestinesi di Ghaza nella periferia di Gerasa (ph. F. Corrao)

È noto che le catastrofi hanno il potere epifanico di mettere a nudo il corpo vivo di un Paese, la carne e il cuore dei suoi abitanti, i nervi e gli istinti dei suoi governanti. Dicono dello stato di salute dei luoghi e dello spirito delle collettività che vi sono insediate. Aprono squarci e traumi, scatenano fibrillazioni e implosioni, liberano energie e utopie, disvelano verità nascoste, a lungo negate, taciute. I terremoti, per esempio, segnalano i movimenti della terra e i sommovimenti degli uomini, producono caos e spaesamenti, dolore e attonito sgomento, ma, a volte, anche potenziali catarsi, rinascite e rinascimenti.

Il crollo di un ponte è già in sé evento carico di significati connessi al simbolismo di questo manufatto edilizio che consente il passaggio, il viaggio, l’attraversamento. Un simbolo culturale tra i più universali che investito di sacralità – come ha acutamente dimostrato Anita Seppilli in uno studio edito nel 1977 – spiega il titolo di pontefice, ovvero di costruttore di ponti, attribuito un tempo all’imperatore romano e poi al Papa, mediatore tra cielo e terra, tra mondi e orizzonti diversi. Il ponte è sacro ma è anche pericoloso, «sottile come un  capello» o come «una lama di coltello». Da qui la sua fragilità, come ogni opera umana, la sua caducità affidata all’ingegno e all’arte della sospensione: la necessità di una prova da sormontare, la bellezza di una sfida da affrontare.

Il crollo del Ponte Morandi di Genova sembra però rappresentare, nell’Italia di oggi, nel Paese plaudente alla costruzione di muri e bastioni, qualcosa di più, di più profondo. Sembra essere metafora di una cesura, di una frattura, del collasso di una idea, di un progetto culturale, di una concezione della vita e del mondo. Denuncia la crisi della cura, dell’attenzione e della custodia di un bene comune, la mancanza di una manutenzione tecnica ma più ampiamente e indirettamente di una manutenzione politica e culturale, rappresentando l’immagine di una ferita aperta e non più sanabile, per effetto  della forza cieca di un potere che negando il diritto al dialogo adopera sempre più la violenza bellica di parole e gesti, ispirati alla chiusura, all’isolamento, alla preclusione, alla contrapposizione.

Invece di ricucire la trama debole e slabbrata dell’identità di questo nostro Paese, invece di esercitarsi nell’opera di paziente e delicato rammendo del paesaggio fisico e culturale delle nostre città, progetto a cui da anni si dedica l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, siamo impegnati a produrre dolorosi strappi e gravi lacerazioni nel tessuto connettivo del nostro sistema di convivenza, discriminando, separando, segregando, deportando. Il  bullismo al posto della politica, la posa statuaria militare e l’incestuoso selfie assunti a icone, il rapporto erotico con i tweet come linguaggio totalizzante, il dileggio e il disprezzo per gli altri, nemici perché stranieri e diversi da noi, quali moventi che giustificano la caccia, gli agguati, gli spari con fucili a pallini di piombo, le vessazioni e perfino gli omicidi consumati sui campi dei braccianti. Dove solo la morte ci fa conoscere i nomi dei migranti, certificandone paradossalmente l’esistenza solo dopo che essi cessano di esistere.

Anche in Sicilia è ormai caduto l’ultimo diaframma di una diga che aveva fin qui tenuto, un patrimonio di tolleranza, di rispetto e di accoglienza che viene da lontano, dalle esperienze storiche maturate a partire dall’età arabo-normanna, la stagione più feconda e felice dell’Isola. In quel trattino c’è il ponte che abbiamo fatto saltare, il prezioso trait d’union in cui coagulano secoli di civiltà del diritto e della democrazia, la fondamentale lezione del pluralismo che insegna che non esistono culture incompatibili ma se mai politiche scientificamente orientate a teorizzare e a praticare la loro assoluta incompatibilità. L’escalation di episodi di razzismo registrati dalla cronaca ha suscitato l’indignazione e la reazione di numerose associazioni palermitane che hanno promosso la sottoscrizione di un manifesto contro le discriminazioni xenofobe cui hanno aderito anche l’Istituto Euroarabo e la nostra rivista. «Se alzi un muro – ha scritto Italo Calvino – pensa a ciò che resta fuori». E a restare fuori è spesso la parte migliore di noi, la nostra umana identità, la nostra memoria, il nostro futuro. Se Visegrad migra nel Mediterraneo, se i sovranismi prevarranno sugli ideali costituenti dell’Unione, se la dilagante psicosi antiprofughi non sarà arginata e disarmata, il Vecchio Continente armato e disgregato è destinato a perdere se stesso.

A ripensare alle rovinose vicende di questa estate che declina, sembra infatti essere crollata assieme al Ponte di Genova ogni forma di comunicazione e di relazione del nostro Paese con l’Europa, con la storia della diplomazia politica, con il nostro passato di Stato membro fondatore dell’Unione. Si è appena conclusa la vergognosa operazione di sequestro della nave militare italiana Diciotti che ha trasformato in ostaggio i migranti usati come scudi per negoziare con le autorità europee smistamenti e ridistribuzioni di quote di naufraghi. Numeri da amministrare e non persone da rispettare. Per più di dieci giorni abbiamo assistito ad un degradante mercimonio condotto con un linguaggio inquinato da minacce, ricatti, intimidazioni e ritorsioni, uno squallido spettacolo della deriva sovranista che segna la regressione ad un modello di rapporti conflittuali fra Stati, la torsione e il rovesciamento di princìpi costituzionali e di convenzioni internazionali. Il caso della Diciotti segue quello delle navi Aquarius e Lifeline ed è destinato ad essere seguito da altre inutili spacconate, da altre dispotiche prove di  forza.

Bene ha scritto in questo numero di Dialoghi Mediterranei Fabiola Di Maggio che paragona la chiusura dei porti e il blocco navale ai disastrosi effetti di una nuova Guernica: «Le scellerate manovre politiche relative al fenomeno migratorio hanno esattamente lo stesso peso che avrebbero delle bombe se venissero lanciate a mare su un barcone carico di vite umane. Bombardare, siglare e/o appoggiare politiche antidemocratiche e razziste (magari anche solo con un like, un post o un tweet) sono atti di guerra e possibili morti in atto. Nessuno creda di esserne al riparo». Atti di guerra, dunque, contro migranti inermi e disarmati che salvati dal naufragio conoscono all’approdo esperienze di angoscia e frustrazione, imbattendosi – annota Valeria Dell’Orzo – in una sorta di «gorgoneion ferino e mostruoso che sbarra il passaggio verso un luogo e un futuro finalmente sicuro e dignitoso». Se e quando sbarcano, entrano in un sistema istituzionale di accoglienza che produce paradossalmente marginalità e clandestinità.

Quanto più spettacolare ed emozionale è l’attenzione politica e mediatica per lo sbarco tanto più invisibile, opaco e ambiguo è l’iter burocratico dell’asilo, della macchina perennemente emergenziale cui è affidata la gestione del post-approdo, di quanto cioè accade all’interno e all’esterno delle strutture e dei centri, siano essi, secondo il fantastico florilegio delle sigle, CARA, CAS, CIE, CDA, CPSA, CPR, SPRAR. All’ombra di questi contesti, in cui appare oscurato all’opinione pubblica il destino dei migranti appena dopo il loro arrivo, si tende a isolare i soggetti dal corpo sociale nazionale così da lasciarli precipitare nelle reti perverse del lavoro nero e dello sfruttamento più servile ovvero negli abissi della clandestinità più umiliante. Ne scrive Dario Inglese, recensendo un volume a cura di Barbara Pinelli e Luca Ciabarri, una indagine che fa dialogare etnografia, inchiesta giornalistica e fotografia sociale e porta alla luce «ciò che solitamente è nascosto all’osservazione: la violenza istituzionale cui i migranti incorrono una volta entrati nelle maglie dell’accoglienza; l’emergere paradossale delle soggettività sotto l’azione coercitiva degli apparati burocratici». D’altra parte, inadeguatezze e insufficienze sono evidenziate nelle legislazioni riguardo la politica dell’immigrazione condotta dai Paesi europei che Shkelzen Hasanay ripropone nel suo studio: dopo aver preso in esame la situazione italiana, in questo numero  passa in rassegna  le esperienze della Francia e della Spagna.

Che i beneficiari di protezione siano spesso le prime vittime delle malversazioni è documentato dalla storia di Ahmad, protagonista dell’articolo di Silvia Pierantoni Giua nonché dalla  testimonianza di Mohammad raccolta da Lella Di Marco, entrambi siriani, entrambi laureati all’università degli studi di Damasco, perseguitati dalla dittatura di Assad, sopravvissuti a stento alle stragi familiari e alle persecuzioni militari, rifugiati politici in Italia. Un bel documento, meditato e appassionato, della vita quotidiana all’interno di un campo profughi palestinese in Giordania è quello che offre ai lettori Francesca Corrao, uno sguardo esperto che descrive e indaga dall’interno un mondo umano e culturale pressoché ignoto dagli occidentali. Qui, tra mille difficoltà, giovani dell’ONG finlandese si occupano di insegnare un mestiere ai giovani, di intrattenere nel tempo libero i bambini che, «nati nei campi, sono abituati alla polvere e al duro clima delle baracche nel deserto, bruciante d’estate e gelido in inverno». E soprattutto ai bambini la studiosa dedica la sua attenzione di fotografa.

In questo numero di Dialoghi Mediterranei c’è spazio anche per illustrare e rappresentare altre realtà geografiche: il Marocco osservato “da un pullman in corsa” dal “turista” Mariano Fresta; la Tunisia rievocata da Alfonso Campisi negli anni del protettorato francese, quando gli italiani che arrivavano numerosi erano dai coloni considerati “invasori”; la Libia studiata con profondità di analisi da Michela Mercuri quale «teatro delle guerre per procura di molti attori regionali e internazionali, e tra questi la Russia»; e Cipro – la bella e tormentata isola che del Mediterraneo sembra incarnare suggestioni e contraddizioni – raccontata da Fabrizia Vazzana anche attraverso le parole della poetessa turco-cipriota Neşe Yaşın che ha incontrato a Nicosia. Non manca perfino la Cina con il contributo di valenti artisti che guardano all’Occidente pur conservandosi fedeli all’antica tradizione millenaria della pittura-scrittura ad inchiostro e pennello che ben «si coniuga – commenta Giuseppe Modica – con la visione artistica acquisita dall’Italia e dall’Europa del Quattrocento e Cinquecento». Echi del Maghreb sono infine presenti nella lingua parlata dai marinai siciliani, come spiega con ampia documentazione il linguista Giovanni Ruffino, a conferma della circolarità delle culture mediterranee.

Molti come sempre sono in questo numero  i libri recensiti, di antropologia, di storia, di folklore, di  narrativa e poesia. Assieme a tanti altri contributi Dialoghi Mediterranei è orgogliosa di continuare ad ospitare la sezione “Il centro in periferia”, uno spazio inventato da Pietro Clemente giusto un anno fa per ragionare e riflettere sul destino dei piccoli paesi, sulla coscienza dei luoghi che a stento va maturando tra gli abitanti, sulle esperienze delle microcomunità che soffrono la crisi demografica e  «lottano per i servizi, la scuola, l’ospedale, la farmacia, il presidio medico, l’ufficio postale, per i mezzi pubblici di trasporto». Nel dibattito aperto studiosi di diverse discipline e giovani ricercatori hanno fatto conoscere realtà periferiche di montagna e di valle, per lo più borghi appartati dell’entroterra, con i loro piccoli ma preziosi musei etnografici, significative attività teatrali, rinnovate aziende agricole, partecipate feste patronali. Nel numero di un anno fa (n. 27) che inaugurava la sezione, Pietro Clemente scriveva che  «Porre il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro è esattamente l’idea che ci tiene in rete e che capovolge la tendenza della modernità, in cui i centri trascinano le periferie nella uniformità. Oggi invece è tempo che siano le periferie a definire nuove centralità basate sulle differenze e si facciano carico dell’immenso e titanico impegno di far voltare indietro lo sguardo delle grandi città. In altre parole una idea nuova di civiltà complessiva non può che nascere dai luoghi piccoli perché in essi sono visibili e riprogettabili i nessi che fondano la civiltà, le relazioni sociali e quelle con la natura».

Un progetto culturale che gravita attorno a parole chiave come memoria, sviluppo, democrazia. «Una battaglia di generazione» l’ha definita Clemente. Nella rete dei piccoli paesi che dialogano attraverso la rivista si incrociano locale e globale, le piccole patrie e l’orizzonte cosmopolita, il sentimento del luogo abitato e l’appartenenza al mondo comunque vissuto. In tempi di preoccupante sfilacciamento dell’ordine democratico decentrare i punti di vista – dal centro alla periferia, dalla città ai paesi – può aiutare a ritrovare lo spirito di coesione sociale e territoriale oggi in gran parte evaporato. Che in questo percorso e in questo primo positivo bilancio Dialoghi Mediterranei sia stato e sia ancora compagno e sostegno ci motiva e ci incoraggia ad andare avanti.

Nella parabola di questa stagione estiva così torrida e balorda nel suo clima tropicale e così drammatica nei suoi accadimenti non possiamo infine fare a meno di ricordare la perdita dell’amico e membro dell’Istituto Euroarabo, Dino Levi, socio fondatore tra i più illustri, scomparso tra le acque del mare che amava e mai più ritrovato. È stato per lunghi anni direttore del CNR di Mazara e alla filosofia scientifica aveva ispirato lo stile della sua vita. Ci mancheranno la sottile ironia con cui guardava il mondo, la raffinata intelligenza che sosteneva i suoi pensieri, la saggezza ebraica che veniva da lontano. Ciao Dino.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018

 

 

 

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