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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 01:47 In Editoriali | 1 Comment

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Scacco di carretto dipinto da Bruno Caruso, con Sciascia e una scena di Morte dell’Inquisitore
(ph. Giaramidaro)

 In uno saggio del 1993 Amalia Signorelli scriveva: «Per modeste che siano le sue dimensioni attuali e lento il suo sviluppo in Italia, non c’è dubbio che l’immigrazione dai Paesi del Terzo e Quarto Mondo è parte di un processo mondiale di ridefinizione delle dislocazioni e delle collocazioni, di ristrutturazione delle forme delle società, forse persino di modifi- cazione dei rapporti di forza». Amalia Signorelli ci ha lasciato pochi giorni fa, tra gli antropologi l’ultima di una lunga e impressionante sequenza di cui questo annus horribilis ci ha privati. Una delle più attente osservatrici delle dinamiche sociali e culturali del nostro Paese, uno sguardo lungo e precursore nello studio del fenomeno delle migrazioni dagli anni del secondo dopoguerra sulla spinta della cosiddetta modernizzazione fino ai nuovi più potenti flussi prodotti dagli esiti dell’attuale globalizzazione. Ci mancherà certamente la sua voce, che limpida e forte si levava nel mezzo della più accesa e rovente polemica politica, una tra le poche che dava visibilità ad una antropologia per lo più afona o assente nel dibattito pubblico.

Quanto aveva capito e insegnato Amalia Signorelli resta una lezione esemplare nel tempo greve e confuso che viviamo, una guida impareggiabile nella riflessione sui movimenti migratori, sulle loro  traiettorie e prospettive, sulle complesse vicende connesse ai contatti tra comunità e culture diverse. Nel rinnovato impegno su questo stesso fronte di analisi, ricerche e proposte, Dialoghi Mediterranei offre il suo contributo anche in questo fascicolo, pur nella pluralità ed eterogeneità degli scritti sempre più numerosi. I collaboratori del Centro Studi IDOS, Raniero Cramerotti e Franco Pittau, continuano a dispiegare la loro preziosa mappa di tabelle, numeri e percentuali che valgono a  rovesciare i più corrivi pregiudizi e, sulla base della ricognizione dei contesti regionali, fanno chiarezza sul futuro demografico del nostro Paese dove «la presenza dei cittadini stranieri raggiungerà un’incidenza pari ad almeno il 20% sul totale dei residenti». Dati statistici e proiezioni ipotetiche che fanno dire agli autori che «la realtà migratoria, oggi considerata da molti estranea, deve essere recuperata come una realtà intrinseca al nostro Paese: sarà una conquista positiva per l’Italia e per gli immigrati».

Mentre si moltiplicano inquietanti episodi di intolleranza e di razzismo, l’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza si allontana affondando nelle torbide sabbie mobili della propaganda elettorale. Eppure – come scrive Valeria Dell’Orzo in questo numero – «quello della cittadinanza dovrebbe essere non un diritto da discutere, da chiedere, da attuare tra timbri e fascicoli, permessi e domande, non dovrebbe essere l’etichetta di carta e inchiostro da apporre sul documento per riconoscerne l’identità individuale e l’appartenenza sociale. Questa idea la svilisce nella sua intima essenza di civico collettore, di etica obbligazione e di umano legame. La cittadinanza dovrebbe essere, invece, null’altro che la naturale conseguenza del convivere, della condivisione partecipata di spazi, luoghi e tempi tra coloro che ogni giorno percorrono le stesse strade, affrontano i problemi comuni della realtà politico-geografica in cui si svolge la propria quotidianità».

Se è vero che ciò che chiamiamo migrazioni rinvia in realtà  – nel significante e nel significato, nella parola e nella prassi – ad un duplice referente, richiamando in sé la bifocalità di due esperienze, di due azioni diverse, di due movimenti complementari e consustanziali, vale a dire dell’emigrare da un luogo e dell’immigrare in un altro luogo, non si possono capire le forze che muovono i flussi se non si conoscono le ragioni e le regioni delle partenze. Così, per esempio, comprendiamo meglio la genesi della massiccia diaspora bengalese che ha coinvolto tutti gli strati della società dopo aver letto l’analitica descrizione, compiuta da Francesco Della Puppa, della «prolungata instabilità politica ed economica che ha accompagnato lo sviluppo del Paese». Delle profonde radici della mobilità umana e delle drammatiche condizioni dei profughi si occupa invece Annamaria Clemente, incrociando le letture di due libri diversi, I rifugiati dello scrittore vietnamita Viet Thanh Nguyen, ed Esodo del giornalista Domenico Quirico, due opere lontane per genere e stili e tuttavia nel loro involontario dialogo «riescono per vie diverse, a restituire una visione della migrazione totalizzante».

Non meno articolato e ragionato è il quadro – per certi aspetti assimilabile ad un complessivo agile bilancio – che Chiara Pulvirenti ha elaborato delle migrazioni mediter- ranee, il cui tema nel dibattito storiografico risulta sorprendentemente marginale, seppure percorra la storia di lunga durata, essendo riconducibile a «quella irresistibile natura sociale che già un milione di anni fa convinse l’homo erectus a non fermarsi a sud del Mediterraneo». Sulle complesse questioni dell’abitare lo spazio urbano e sull’angoscia territoriale degli immigrati costretti ad una difficile e contraddittoria operazione di appaesamento si intrattiene nel suo articolo Sara Raimondi, che fa tuttavia osservare che la loro presenza finisce coll’arricchire di linfa e stimoli rigeneratori le periferie delle nostre città, plasmate e rimodellate da nuove risorse umane e inediti apporti sociali e culturali. Giuseppe Sorce infine si interroga sulle particolari esperienze di migrazione dei giovani italiani nei diversi Paesi europei e si chiede cosa effettualmente sia il nostro continente: «qualcosa che si percepisce ma che non si sa definire. Una sorta di entità-madre di matrice essenzialmente culturale (…). Come si faccia dell’Europa un luogo, come questo luogo possa essere abitato, è ancora da sperimentare». Dubbi e interrogativi della generazione cosiddetta Erasmus a cui abbiamo insegnato ad amare l’Europa come la propria casa e a cui oggi rischiamo di consegnare un continente sfilacciato, balcanizzato e soffocato da egoismi e sovranismi.

All’Italia guardano invece, con speranza, fiducia e passione conoscitiva, gli studenti dell’università “La Manouba” di Tunisi che Laura Faranda ha incontrato nel suo impegno didattico e scientifico presso quell’Ateneo. Il dialogo culturale esperito nell’ambito di un progetto interuniversitario con l’obiettivo di diffondere e valorizzare la lingua italiana getta un prezioso ponte tra i due Paesi, oggi quanto mai necessario per la reciproca comprensione e collaborazione. Sull’ampio fronte del Mediterraneo, di cui il nostro bimestrale resta osservatorio privilegiato, questo numero continua ad offrire diversi contributi; tra gli altri, uno scritto di Michela Mercuri sulla Libia, sulle sue prospettive e sulle relazioni con la Francia e l’Italia nonché la recensione a cura di Eugenia Parodi del suo ultimo libro appena edito. Nè manca lo sguardo tra storia, politica e cultura sul mondo mediorientale, sull’Islam e sulle derive impazzite del jihadismo.

Sotto il titolo Il centro in periferia il lettore ritroverà in sintesi le esperienze e le ricerche condotte nei piccoli paesi e condivise nella rete progettata e coordinata da Pietro Clemente. Uno spazio che dà conto di quell’Italia minore che è anche molto spesso migliore, di quelle province del mondo globale che resistono non in opposizione alla modernità né rispetto a questa in posizione di passiva subalternità ma con essa in un rapporto di critico dialogo, destinato a produrre una nuova e più matura “coscienza del luogo”. Sciascia ebbe a scrivere che «il provincialismo non è il vivere in provincia e il fare della provincia oggetto di rappresentazione: provincialismo è il serrarsi nella provincia con appagamento, con soddisfazione, considerandone inamovibili e impareggiabili i modi di essere, le regole, i comportamenti; e senza mai guardare a quel che fuori della provincia accade, senza riceverne avvertimenti, stimoli, provocazioni al pensare feconde, alla visione della realtà fermentanti». Muoiono quei paesi che si chiudono nel perimetro angusto della piccola dimensione, della asfittica endogamia, nella malinconica caricatura di se stessi. Si salvano, nonostante tutto, quei piccoli centri che si aprono agli apporti esogeni in fatto di tecnologie, di mercati e di capitale umano e patrimonializzano ciò che possiedono non solo in termini di sviluppo economico ma anche in consonanza con l’identità storica e culturale. È quanto accade a Rascino in provincia di Rieti dove – scrive Alessandra Broccolini – si è assistito in questi ultimi anni ad «un processo di riappropriazione di un prodotto [la lenticchia] che da elemento di sussistenza tutto sommato marginale e familiare è diventato simbolo identitario, nonché risorsa economica, capace di ridefinire il senso di un luogo fino ad allora vissuto dai suoi abitanti come marginale e in progressivo svuotamento, ma oggi con speranza di futuro e capace di immaginazione nel suo rapporto con il passato». Così è stato o potenzialmente può diventare, per altre vie e altre forme, in alcune comunità di montagna dove sperimentazioni teatrali, artistiche e musicali hanno rappresentato un modo per arginare lo spopolamento e opporsi allo sfaldamento della memoria collettiva.

Da qui anche l’importanza dei piccoli musei che – come non cessa di sottolineare Clemente – hanno un ruolo connettivo essenziale nella trama  del territorio e nella vita stessa dei soggetti che lo abitano. Soprattutto laddove, come scrive Magnaghi, «si sente di più la desertificazione prodotta dal movimento di “deportazione”, centralizzazione e concen- trazione metropolitana: per sottrazione di ferrovie minori, di banche e università del territorio, di piccoli esercizi commerciali, di cooperative autentiche, di piccoli presidi ospedalieri, di tribunali, di piccoli comuni, di piccole e medie imprese, di istituti di ricerca e così via, in una inesauribile corsa verso il centro, il grande, l’accorpato, il lontano, l’inarrivabile».

Dialoghi Mediterranei, che in questo numero raccoglie più di cinquanta contributi, tutti in egual misura e diversa prospettiva di estremo interesse, è in tutta evidenza una rassegna ben più ampia di quella che abbiamo fin qui con qualche approssimazione e inevitabili omissioni riassunto. Contiene molte recensioni di libri, come sempre non semplici schede informative sulle novità editoriali bensì occasioni e strumenti di argomentazione e approfondimento di temi e questioni che riguardano letteratura e beni culturali, tradizioni e arti popolari, scienze umane e religiose. Come di altre e non meno importanti materie si occupano i diversi autori dei numerosi articoli, siano essi antropologi, storici, demologi, arabisti e urbanisti. E non meno significativo è lo spazio elettivo dato alle immagini, alle fotografie di Carlotti che sanno cogliere la grazia dei bambini e delle giovani donne del Madagascar, a quelle di Della Puppa che con puntuale attenzione agli aspetti della vita quotidiana illustrano la sua ricerca in Bangladesh, a quelle di Filippi che accompagnano la recensione di Di Maggio e documentano la Street Art in Sicilia, a quelle infine di Curatolo che esplicitano con rigore figurativo il suo racconto etnografico della Semana santa in Andalusia.

Nell’ambito del dibattito Monotesimi e dialogo, aperto giusto un anno fa e mai del tutto chiuso e concluso, si registra l’intervento, davvero esemplare per chiarezza e  incisività, dell’eminente studioso Dionigi Albera che spiega sul piano storico e filosofico il senso profondo del pluralismo religioso, ovvero di quelle «porosità» che hanno segnato nel lungo periodo la regione mediterranea, e hanno mostrato che anche «delle religioni autosufficienti e tendenzialmente intransigenti come quelle monoteiste possono essere attraversate da pratiche transfrontaliere». A quanti s’interrogano sull’incerto futuro del paesaggio religioso del nostro Paese, anche a seguito delle crescenti immigrazioni, sono destinate le parole con le quali l’autore ha concluso il suo articolo: «L’irruzione della differenza sta scompaginando la quieta monocromia religiosa del passato, generando tendenze contrastanti che compongono un vasto ventaglio: dall’arroccamento identitario alla secolarizzazione, dalla violenza fondamentalista a nuove forme di spiritualità e di religiosità svincolate dalle appartenenze tradizionali».

Chi voglia invece recuperare la memoria di un frammento del passato appena declinato, si legga l’articolo di Nino Giaramidaro che racconta di altre e diverse migrazioni: dal carretto alle auto,  dai cavalli veri a quelli a vapore, dalla civiltà del legno a quella del ferro. Negli anni sessanta del secolo scorso anche le scene dei paladini dell’Opera dei pupi dipinte sugli scacchi e istoriate sulle chiavi dei carri sono migrate sulle fiancate delle moto Ape e dei moderni veicoli. E con le scene e le figure rilucenti di colori, il mito di un’arte definitivamente consegnata alla storia. Un mito a cui ha voluto rendere omaggio il pittore Bruno Caruso che in anni recenti ha dipinto sugli scacchi e sul portello di un carretto, uscito dalla bottega dei Ducato di Bagheria, i padri costituenti della letteratura siciliana dell’800 e del 900, da Verga a Pirandello, da Tomasi di Lampedusa a Sciascia. Come dire, la Sicilia  più illustre in cammino sulle ruote della memoria e del mito.

Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
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