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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 01:31 In Editoriali | No Comments

 bambiniNel ripensare alla vile gazzarra che ha recentemente impedito il dibattito politico nell’aula del Senato intorno alla legge di riforma della cittadinanza, sentiamo ancora più forte e incolmabile il vuoto lasciato dalla scomparsa di Stefano Rodotà, l’assenza di una voce libera e lungimirante, dell’interprete più illuminato dei diritti, dello strenuo difensore di tutte le minoranze. Nel suo nome e nel suo ricordo desideriamo affidare alla rete questo nuovo numero di Dialoghi Mediterranei, che ai temi da sempre cari all’attenzione e alla sensibilità dello studioso dedica non pochi contributi. Sull’immigrazione Rodotà ha ragionato nella larga prospettiva di una rinnovata cittadinanza globale e nel contesto di una democrazia dei diritti che travalica gli angusti confini degli Stati nazionali, avendo intuito prima di tanti altri la traiettoria della storia e i travolgenti esiti della globalizzazione.

Attardato a custodire il diritto di stirpe, dissimulato nella ottocentesca retorica del sangue, il nostro Paese riconosce l’italianità ai lontanissimi discendenti degli emigrati in America o in Europa che possono votare senza conoscere la nostra lingua e senza pagare le tasse al nostro erario e contemporaneamente la nega non solo agli immigrati che contribuiscono alla nostra economia e al nostro fisco ma anche ai loro figli, nati, scolarizzati e socializzati in Italia. Paradossi di un Paese che nel suo sentire comune tende a ripiegarsi su se stesso, all’ombra di nostalgici miti nazionalistici e a protezione di false trincee identitarie. Illusioni di un Paese incagliato su procedure amministrative e veti ideologici, nel vano tentativo di governare la cittadinanza come se fosse un attributo ascritto, una concessione da elargire, un privilegio genealogico, ovvero un mero dato burocratico.

La presenza degli immigrati nelle nostre città ci ricorda però che si è cittadini non semplicemente per eredità ma anche e soprattutto per elettività, proprio perché si è volontariamente impegnati ad esercitare quello spirito pubblico che si esprime attraverso il vincolo di appartenenza ad una comunità, il servizio a favore della collettività, la sensibilità a prendersi cura del bene comune. Quel bene comune di cui a lungo ha scritto e discusso Stefano Rodotà.

Non è dunque una astratta questione politica. La cittadinanza è qualcosa di più, dal momento che si costruisce nel vivo delle relazioni, nelle dinamiche della convivenza, nella quotidianità della vita associata. Ha a che fare con l’etica della partecipazione, con la cultura sociale, con la vocazione solidaristica, con quel patrimonio di urbanità e civismo che unitamente ai diritti chiede il rispetto dei doveri, l’assunzione di responsabilità, la condivisione di princìpi e valori: un insieme di virtù laiche e civiche che la maggioranza degli italiani non sempre ha mostrato di praticare con pienezza e sollecitudine.

Se l’educazione alla cittadinanza è una priorità, essa riguarda non soltanto gli immigrati ma, a pensarci bene, anche gli italiani, che dall’esperienza di convivenza con gli stranieri possono ritrovare e rinnovare le ragioni di coesione e di inclusione collettiva. Così che mentre scopriamo la diversità degli altri, allo stesso tempo comprendiamo meglio chi siamo, dal momento che le migrazioni assolvono – come è noto – ad una funzione di rispecchiamento delle articolazioni e delle contraddizioni interne alle nostre comunità.

Una democrazia avanzata e matura non ha paura di estendere la cittadinanza agli immigrati e ancor più ai loro figli che frequentano le nostre scuole, i nostri stadi, i concerti e gli stessi social degli adolescenti e dei giovani italiani. Essi non attentano alla nostra sovranità quando esprimono, anche in forma organizzata, la loro volontà di sentirsi parte costitutiva e attiva della polis che abitano, quando aspirano ad eleggere come patria la nazione in cui sono nati, la nazionale di calcio per la quale tifano, oppure quando rivendicano il loro diritto di interpretare e coniugare senza contraddizioni il modo di essere alla maniera dei padri e il modo di vivere alla maniera dei coetanei. Identificazione e appartenenza possono senza traumi divaricare e differenziarsi quando rappresentano possibili risposte a domande diverse. L’importante è che sia osservato il patto di lealtà, di legalità e di reciprocità su cui si fonda il rapporto di ogni cittadino con la società e con lo Stato.

Non è difficile intuire quanto influisca nella loro esperienza di socializzazione e di acculturazione l’essere adolescente e quanto l’essere straniero, per conoscere quanto si sentano italiani e quanto ancora invece etnicamente diversi, proprio perché non ancora riconosciuti cittadini. Da qui il rischio di incubare disagi e separatezze, frustrazioni e ghettizzazioni, uscite di sicurezza e scelte sciagurate. Lasciare nell’indeterminatezza del proprio status civile i figli degli immigrati significa accentuare i sentimenti di estraneità, produrre crisi, rancori e disaffezioni fino a preparare pericolose vie di fuga. Da qui l’opportunità e la necessità di far corrispondere alle aspettative maturate il riconoscimento elementare del diritto di cittadinanza, poiché nessuna giustapposizione di culture può mimare il dialogo se dietro le culture, le identità e le etnie non ci sono prima di tutto i diritti civili.

Dialoghi Mediterranei conta di aprire su questi temi un ragionamento più ampio, un dibattito che investa una riflessione sui processi di inclusione delle cosiddette seconde generazioni nel tessuto sociale e culturale del nostro Paese, sul ruolo e sulle forme della cittadinanza in una società definitivamente multietnica, sul futuro che i figli delle migrazioni stanno costruendo nella loro vita e nelle nostre città. È tempo di chiedersi quale profilo antropologico si stia disegnando nella evoluzione demografica e nella composizione sociale in corrispondenza della transizione generazionale degli immigrati. Del resto, non si diventa italiani o europei senza conseguenze, senza che si perda o si guadagni qualcosa, nel gioco incessante del dare e dell’avere, nella dialettica che sfuma alcune differenze e altre le conserva o le riplasma. Se è vero che nel contesto transnazionale del nostro tempo le pratiche di ibridazione culturale passano attraverso i linguaggi e le culture giovanili, particolarmente permeabili alle reciproche contaminazioni, c’è da augurarsi che i giovani, i figli degli immigrati e degli italiani, costruiscano  insieme, attraverso l’esperienza del dialogo e della convivenza, un mondo in cui le identità non siano minacciose clave da brandire per escludere ma beni e risorse da dividere o negoziare  per includere o confrontarsi.

È in fondo quello che si augura Rosolino Buccheri in questo numero, quando propone, a conclusione del suo denso contributo sulle commistioni di istinto e ragione, «soluzioni condivise che rafforzino il ‘civico sentire comune’ e il nostro ‘orizzonte di appartenenza’, invece che frantumarlo in tante bolle autoreferenziali permanentemente chiuse in se stesse». E nella sua speciale lettura delle Sacre Scritture Paolo Branca ribadisce l’importanza dell’Altro quale imprescindibile riferimento identitario; già a partire dall’avvento di Eva che sembra volerci suggerire che nessuno basta a se stesso e deve fare spazio all’altro: «non un duplicato autentico, ma un aiuto che ci sia simile. Non un eguale, non un secondo Adamo, ma un essere di pari natura e dignità, ma differente».

Quanto l’altro possa essere lontano da noi, quanto invisibile e incomprensibile, se lo respingiamo al di là del muro, è documentato  nella acuta analisi di Eugenio Giorgianni che, a proposito di  un libro sui confini,  si pone la domanda se possiamo vantare il diritto «di parlare dei mali del mondo se stiamo bene, di raccontare la tragedia epocale della migrazione clandestina stando al di qua del muro, di mostrare le ferite degli sconfitti della terra quando gli spari della polizia di frontiera non sono per noi, noi che viaggiamo con i documenti in tasca». Sull’alterità nelle sue diverse manifestazioni e incarnazioni scrivono molti degli autori in questo fascicolo: dalle minoranze linguistiche ai minori non accompagnati, alle donne che subiscono le mutilazioni genetiche non meno che agli affiliati al jihadismo che è – come scrive con  penetrazione psicologica Silvia Pierantoni Giuia – «l’apoteosi del narcisismo primitivo; esso giunge fino all’annullamento di sè nell’Altro, operazione che, impossibile da realizzare, non può che portare alla morte».

Ancora una volta tra i Paesi del Mediterraneo la Tunisia occupa un posto centrale nell’attenzione dei nostri collaboratori, sia sotto l’aspetto storico-politico, sia per quanto concerne i rapporti tra religione e modernità. Di estremo interesse è lo studio recensito da Giovanni Cordova sull’attualità delle categorie gramsciane applicate agli sviluppi della stagione postrivoluzionaria del Paese maghrebino. In coerenza poi con la concezione trasversale e interdisciplinare dell’antropologia, che tradizionalmente dialoga con la demologia e nei suoi sconfinamenti s’intreccia con la letteratura e con la  semiotica, il lettore troverà in questo numero monologhi interiori tra Proust e Lévi-Strauss, suggestioni autobiografiche sull’esperienza in spiaggia ispirate a Coelho, etnografie di feste e di pratiche simboliche, narrazioni di narrazioni, divagazioni linguistiche, epifanie artistiche ed escursioni musicali.

Tanto altro contiene questo fascicolo estivo che alla ricchezza dei contributi associa interessanti anticipazioni di libri in corso di stampa nonché alcune illustri testimonianze, quelle degli algerini Metref e  Tilmatine, studiosi e custodi delle culture berbere, e dell’islamologo Soravia. In ultimo riprendiamo gli accorati interrogativi lanciati da Nino Giaramidaro intorno ai recenti e inquietanti fatti di cronaca che hanno come protagonisti giovani vittime di comportamenti autolesionistici e perfino di suicidi. «Chi c’è –  si chiede l’autore – dietro il misterioso blogger, moderno untore del male che dalla Russia, senza amore, dà istruzioni a giovani e giovanissimi su come morire dopo essersi danneggiati, seviziati, insanguinati in cinquanta modi diversi? Forse la vita da tastiera indebolisce la mente, oppure molti giovani possono essere catturati nel deperimento della gioia di vivere facilitato da una quotidianità al chiuso, assediati dalle paure, senza più la suggestione dell’avventura sulla strada oramai insidiosa e nemica?»

Sono domande a cui possono aiutarci a rispondere le preziose pagine che Stefano Rodotà ci ha lasciato sulla potenza delle risorse digitali e sui rischi connessi all’uso e all’abuso della Rete, alla «dittatura dell’algoritmo, emblema di una società della spersonalizzazione».  Non sappiamo se il “male di vivere” che oggi aggredisce i nostri giovani sia il frutto nuovo germogliato dal vecchio albero del nichilismo che viene da lontano. O sia piuttosto il mostro partorito dalla malapianta che abbiamo coltivato nell’utopia della tecnologia onnipotente. Ciò che sappiamo è che questo oscuro hacker della morte penetrato nelle fragili esistenze dei giovani non riguarda soltanto i figli dell’Occidente.

Buona estate a tutti!

Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017

 

 

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