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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2016 @ 01:02 In Editoriali | 1 Comment

da Staleless on Lesvos, di G. Smallman

Staleless on Lesvos, di G. Smallman

Le parole giungono stanche alla fine di un anno che ricorderemo per le tante violenze materiali e  verbali, per la efferatezza delle guerre e il ribrezzo delle voci xenofobe, per le infinite stragi consumate in mare, prima fra tutte quella degli innocenti, dei bambini che sfuggiti dall’inferno dei conflitti sono stati inghiottiti dalle acque non meno che dall’oblio e dal silenzio dei potenti della terra, precipitati nel vuoto delle nostre labili ed ipocrite coscienze.

Lo sguardo non regge davanti alle immagini di neonati che affiorano tra le onde o sono sospinti dalla risacca sulla spiaggia. Lo abbiamo distolto – per pudore e per insostenibile vergogna – dal corpo inerte del piccolo Aylan con il viso schiacciato sulla battigia di Bodrum, la maglietta rossa sui pantaloncini blu, le scarpette allacciate. Lo abbiamo già ormai appannato e distratto sulle cronache sempre più laconiche e sulle fotografie censurate di altri bambini morti nell’Egeo, lungo la rotta tra la Turchia e la Grecia. Eppure queste immagini dovrebbero accompagnarci nel passaggio all’anno nuovo come viatico e monito a non voltare altrove lo sguardo, a non piegarci e assuefarci all’orrore e al degrado morale che ci assedia, alle paure artificiosamente incentivate, alla rimozione delle nostre responsabilità. Vengono in mente le parole di Bertold Brecht che ci invitava a non trovare naturale quel che succede ogni giorno: «Di nulla sia detto: “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile».

Da anni assistiamo impotenti se non indifferenti alla terribile sequenza dei naufragi nel Mediterraneo ma non si è probabilmente riflettuto abbastanza sulla tragedia dei soggetti più deboli, sulla esperienza migratoria dei minori che incarnano la speranza di sfuggire al destino collettivo, l’irriducibile desiderio di immaginare un nuovo mondo e nuove vite possibili. Nelle traversate si consuma non una narrazione avventurosa ma una drammatica scommessa, un investimento su una navigazione incerta per scongiurare una condanna a morte certa. Dentro questa inedita e asimmetrica guerra che si combatte non tra l’Islam e l’Occidente ma tra il Nord e il Sud del mondo, i bambini sono sulla trincea più esposta, sono avamposti di frontiera, fragili ponti gettati su un futuro da inventare. Se l’imbarcazione si rovescia,  possono scivolare dalle mani dei genitori, perdersi tra i flutti. Sono oltre 700 i bambini quest’anno morti annegati nel Mediterraneo. Ma i numeri non dicono dello scandalo e dell’insensatezza dell’infanticidio.

Se sopravvivono e giungono a riva, i bambini portano negli occhi il tumulto del mare che non avevano spesso mai visto prima. «Ci sono più rivelazioni nella faccia di un bambino che nel racconto di un intero tg», ha commentato lo scrittore Ferdinando Camon. Cosa sappiamo poi delle migliaia di minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste? Cosa sappiamo dei loro traumi, dei loro disturbi psichici, dei travagliati percorsi di inserimento e di  riconoscimento? Cosa sappiamo dei rischi che corrono, della tratta di cui possono essere vittime se ridotti a merce di scambio nell’agghiacciante  traffico clandestino di organi? La verità è che non abbiamo immagini che documentino l’indicibile e l’inenarrabile. E le storie dell’infanzia negata e violata restano pertanto estranee al nostro sguardo e lontane dall’orizzonte della nostra vergogna.

In realtà, se i bambini hanno salva la vita, cessano di essere bambini e i loro corpi, come  quelli degli altri migranti, sono oggetti da registrare, braccia da tatuare, numeri di identificazione da annotare e archiviare assieme alle impronte digitali. Il nostro Panopticon che sorveglia i confini con pratiche che ricordano odiosi e osceni metodi del passato è la prima crudele immagine di un’Europa che sembra avere paura perfino dei bambini e chiede all’Italia di rafforzare i controlli e di usare anche la forza su quanti oppongono resistenza. Nel frattempo c’è il governo di un Paese – fino a ieri iscritto nel mito delle civiltà scandinave – che progetta di sequestrare il denaro e ogni oggetto di valore ai migranti che si presenteranno alla frontiera. Un’altra pagina oscura nella storia claudicante di questa Unione Europea senza unione.

D’altra parte, nel fronte opposto, sulle terre occupate dai miliziani del Daesh i bambini rischiano una sorte indubbiamente ancora più feroce. Se cadono nelle mani dell’esercito dei tagliagola sono costretti a scendere i gironi dell’inferno, reclutati nelle spire della guerra, addestrati all’odio e alle armi, ammaestrati nella infame dottrina che educa al martirio ovvero all’etica e all’estetica della morte. Accade così che terrificanti fatwe di giudici al servizio dei carnefici dell’Isis condannino neonati malformati e costringano bambini disabili a fare da scudi umani in attentati terroristici. C’è qualcosa che assomiglia alla cultura dei millenarismi medioevali e delle sette para-religiose – suggerisce l’antropologa Dominique Dounia Bouzar – nell’orizzonte apocalittico e paranoico evocato dai seguaci che si credono eletti destinati a redimere l’umanità. Ma nel magma violento dell’universo jihadista coagulano, in realtà, teologie arcaiche e tecnologie d’avanguardia, patologiche pulsioni identitarie, estreme e illusorie forme di resistenza alla globalizzazione, utopie di purificazione contro le impurità del nostro tempo, ma anche la sceneggiatura di un videogioco da incubo ideato da psicologi e scienziati del terrore. Un insieme di schegge che dalla implosione del caos sembra progettare un cosmos rifondato sulla catastrofe e sulla morte.

Non sappiamo se «loro – i jihadisti – sono qui perché noi siamo lì», come ha scritto qualcuno. Certo le fiamme che avvolgono le terre del Medio Oriente lambiscono ormai le nostre città, le nostre case. E in questa estesa e incontrollata conflagrazione precipitano tutti i conti aperti della storia, le cicatrici mai rimarginate, gli odi intestini e gli scismi dell’Islam, gli echi delle colonizzazioni e i prezzi dei neocolonialismi occidentali. Ma fra tutte le guerre che si stanno combattendo su fronti e con mezzi e obiettivi diversi quella contro i migranti è la più insensata, perché trasforma in ostaggi  quanti cercano di sfuggire non solo ai morsi della fame e ai soprusi dei regimi politici ma anche alle bombe a grappolo, agli agenti chimici, alle prepotenze degli organizzatori del racket, alle falangi armate dei terroristi che fanno dello sterminio una missione da compiere in nome del loro stesso Dio.

A questi temi e all’attualità politica, sociale e soprattutto culturale dedica non pochi contributi questo numero di Dialoghi Mediterranei, che chiude l’anno e apre il 2016 con ragionamenti, approfondimenti e letture ad opera di diversi autori, in gran parte affiliati ormai alla comunità elettiva del bimestrale. Una comunità scientifica, certo, ma anche e soprattutto uno spazio di empatie umane e convergenze culturali, un laboratorio di formazione e di valorizzazione di giovani studiosi impegnati nella ricerca antropologica, anche addottorati e troppo spesso – ahimè – disoccupati. Tra questi Alessio, Angelo, Annamaria, Antonella, Chiara, Cinzia, Eugenio, Luca, Mara, Serena, Valentina, Valeria, Virginia, Tommaso, sono i nomi degli autori presenti in questo numero, ai quali si aggiungono le firme dei collaboratori più maturi e fedeli che si riconoscono nella stessa prospettiva di studi e nella medesima linea editoriale della rivista.

Ancora una volta le migrazioni sono crocevia di molte delle riflessioni proposte dagli articoli, se pure applicate su contesti e ambiti diversi di osservazione. La sezione Immagini – a cui Dialoghi dedica sempre particolare attenzione – presenta il contributo di Lorenzo Ingrasciotta che nell’interpretare il tema del Mediterraneo ha attinto alla memoria familiare e ha documentato attraverso le fotografie scattate presso il centro di accoglienza di Castelvetrano analogie e continuità delle esperienze di emigrazione del passato e di oggi. Le storie raccontate e illustrate di John e Vittoria nigeriani e di Jamel bengalese si sovrappongono a quella del nonno Filippo Spina, classe 1895, partito dalla Sicilia per l’America e mai più ritornato. Incrociando gli sguardi si colgono le strutture profonde di fenomeni lontani nel tempo ma eguali nella morfologia e nelle dinamiche che riconducono alle ragioni ultime del destino dell’uomo. In questa lettura della comune  universale storia di diaspore e vicissitudini vale forse la pena ricordare i versi del poemetto Codice siciliano, del 1957 ma appena ristampato da Mesogea, di Stefano d’Arrigo che scrive degli emigranti siciliani in partenza sulle navi:

 «S’imbarcavano per quelle rive / in classe unica, ammucchiati / o clandestini nelle stive / di necropoli come navi olearie (…)/ carne da macello, qui o là, / in Australia, nell’aldilà, / oltremare, dovunque sia / una miniera, un qualsiasi / budello per seppellire / l’enigmatica frenesia / di chi per morte s imbarca / come su di un’ arca / di libertà, coi bisogni / stretti alla vita e i sogni / zavorra viavia / da gettare e alleggerire / i petti di nostalgia».

Generazioni di siciliani spatriati hanno conosciuto le traversie e le sofferenze non diverse da quelle che oggi vivono i migranti che giungono sulle nostre coste dopo aver scampato la ferocia dei trafficanti e la morte nella traversata. La lezione che viene dalla storia insegna a soccorrere, ad accogliere, a ospitare. E non è retorica l’affermazione che la Sicilia è tra le regioni italiane quella che, pur tra mille debolezze, insufficienze e disfunzioni, ha assicurato fin qui una indubbia attenzione umanitaria e uno spirito di tolleranza che corrisponde alla sua storica capacità di ricevere e includere le diversità, di interpretare al più alto livello le vocazioni mediterranee alla convivenza pacifica e al rispetto tra gli uomini e tra le culture.

«Dalle coste dell’Africa dove sono nato – scriveva Albert Camus – si vede meglio il volto dell’Europa. E – aggiungeva – si sa che non è bello». L’Europa vista dal  Mediterraneo è un mito e un tradimento, una speranza e una disillusione. Perduto o sbiadito il senso e il sogno di un Continente libero e unito, così come era stato progettato dai padri fondatori della Comunità, si è via via imposto un amalgama indigesto di egoismi nazionali, un arcipelago di ghetti e una lunga catena di muri alle frontiere, una immensa fortezza Bastiani vuota e sempre più povera nell’assurda difesa di una concezione etnica degli Stati. La gestione dei flussi migratori è l’ultima sfida della politica europea. «Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa», afferma lo stesso presidente della Commissione, Junker. Eppure è questo il paesaggio politico e culturale offerto dal sinedrio di Bruxelles che, nel rarefarsi del sentimento di appartenenza alla comunità di destino, raccoglie le ragioni xenofobe di Orban e non accoglie i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Tanto più che sta tutto in questo snodo il futuro democratico dell’Unione Europea, che può  superare e risolvere la sua crisi demografica e culturale solo se torna a guardare al Mediterraneo, se a fronte della minaccia dei jihadisti non agita lo spettro dei migranti artatamente confusi con i terroristi, non parla cioè la stessa lingua dei noti pusher delle paure scagliate contro quella umanità che arriva ammassata e stremata sui barconi per essere fermata davanti ai fili spinati dell’Occidente.

Sulle complesse questioni connesse alle migrazioni, che è processo di lunga durata destinato a  protrarsi per decenni, Dialoghi Mediterranei continuerà a proporre dati, testimonianze, analisi, ricerche e ragionamenti, nella consapevolezza che questo tumultuoso sommovimento di popoli, di uomini, donne e bambini sopravvissuti alle guerre e alle carestie, finirà col mutare profondamente la mappa geopolitica dell’Europa, la composizione sociale e il profilo antropologico di intere società e città. Da qui l’impegno a documentare, a capire, a distinguere tra immigrati e jihadisti, tra islamici e islamisti, tra la realtà effettuale dei fenomeni e la loro rappresentazione mediatica e politica, restando persuasi che l’unica pratica in grado di salvare le vite umane sia quella di garantire corridoi umanitari e accessi legali, sia in ultima istanza quella di «definire un diritto internazionale dei migranti», come ha scritto l’illustre sociologa Maria Immacolata Macioti che da questo numero ha cominciato la sua collaborazione con Dialoghi Mediterranei.

Salutiamo infine il nuovo anno con l’augurio che il cielo domani sia meno cupo e più aperto e con la speranza – indignata speranza – che mai più altri piccoli Aylan perdano la vita nelle acque limacciose della nostra indifferenza.

 Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
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