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EDITORIALE

Al confine tra Serbia e Ungheria,  foto di Warren Richardson

Al confine tra Serbia e Ungheria, foto di Warren Richardson

«La cosa più importante è che i libri si parlino tra di loro», diceva l’incomparabile Umberto Eco, nella convinzione che far dialogare i libri contribuisce a fare dialogare gli uomini e le loro diverse visioni del mondo, le culture apparen- temente più lontane. La lezione destinata a durare più a lungo è forse proprio esemplificata e riepilogata in queste brevi parole che alludono al lungo e intenso impegno dello studioso a intrecciare e ibridare saperi e generi letterari, discipline scientifiche e   materie artistiche, frontiere mentali e categorie concettuali. Maestro del nomadismo intellettuale, artefice di solitari vagabondaggi su territori inesplorati, Eco – come un’opera aperta – può essere anche letto come uno speciale esperto di migrazioni, avendo assiduamente praticato attraversamenti e sconfinamenti e avendo insegnato a rimuovere ogni separazione aprioristica tra i diversi nomi e le diverse forme che gli uomini danno alla cultura, alta o bassa che sia, d’elite o di massa, abitata da apocalittici o da integrati, da nichilisti o da ottimisti.

Dialoghi Mediterranei lo ricorda con le parole di Stefano Montes che nei suoi “contrappunti” sottolinea il rigore logico del semiologo, il quale, «capace di passare da un pensare all’altro», amava consigliare l’uso delle strategie antropologiche dello straniamento per incrementare le potenzialità conoscitive e le facoltà intellettive. In questo numero, che inaugura il quarto anno di vita della rivista, riprendiamo e irrobustiamo il filo dei nostri ragionamenti intorno al fenomeno delle migrazioni che sempre più s’incrocia fino a confondersi con quello delle guerre divampate in più punti nodali del Mediterraneo. Mentre le fiamme avvolgono ciò che resta della Siria, la popolazione, intrappolata tra fronti militari diversi, in mezzo alle truppe di Assad, dei ribelli e dei jihadisti, cerca disperatamente un varco di fuga per passare attraverso la Turchia nell’isola greca di Lesbo. Migliaia di uomini, donne e bambini in marcia non possono più tornare indietro ma, lungo la traversata del breve braccio di mare, rischiano di andare incontro alla morte. Lesbo come Lampedusa, frontiera che accoglie l’umanità che arriva dal mare, e come Lampedusa soccorre i vivi e raccoglie i morti – tanti, tantissimi, una ecatombe – con l’antica e familiare pietà che risale alla civiltà ellenica.

Ci giungono dall’isola le immagini degli sbarchi e dei naufragi e perfino dei giubbotti di salvataggio dei migranti destinati a diventare macabre icone di istallazioni artistiche. La cronaca ci accompagna con il viatico di fotografie che sono documenti straordinari, di strazio, di emozioni, di compassione ma anche di indignazione. Riproducono impervi scavalcamenti di fili spinati, mani e braccia che stringono figli e neonati, rocamboleschi approdi nelle notti, sguardi attoniti di bimbi, ritratti di famiglie in campi profughi, tanti sacchi neri di cadaveri allineati sui moli. Alcuni di questi scatti sono stati premiati dal più prestigioso riconoscimento mondiale del fotogiornalismo, il Word Press Photo Award, che ha selezionato come fotografia dell’anno quella di Warren Richardson, collocata in alto a questo Editoriale: il corpo di un neonato che passa tra le maglie del reticolato dalle braccia di un uomo ad altre braccia come pegno di una vita e di una speranza strappate alla morte e affidate a un qualche riparo.

Quando tutto tracimerà dalla cronaca alla storia e sarà consegnato alla memoria collettiva delle generazioni che verranno, l’esodo biblico che sta sconvolgendo i continenti resterà nelle immagini scattate da chi ha visto e documentato per noi quell’inferno e quella umanità disperata. Eppure oggi la loro potenza, la loro forza – anche etica, estetica, epifanica – di impatto, di penetrazione, di disvelamento critico e di fascinazione emotiva sembra non riuscire ad andare al di là dell’effimero turbamento o del pur importante apprezzamento culturale. Non hanno abbastanza carica performativa, non producono alcuna effettiva e duratura reazione politica, non rompono silenzi inquietanti e omissioni scellerate, non introducono alcun elemento di discontinuità nel discorso pubblico sulle migrazioni. Le immagini scorrono rapide sugli schermi e sui monitor ma scivolano e si dissolvono come inghiottite nelle spire di una vita parallela, virtuale, impalpabile, liquida. Lontane in ogni caso dal tavolo di Bruxelles, dai sacerdoti del sinedrio ove si decidono le sorti degli uomini e delle donne che migrano, dei profughi che scappano, dei bambini che annegano. C’è qualcosa di schizofrenico nella scissione che divide in Europa la politica dalla cultura. Si premia con l’Orso d’oro al festival di Berlino il docufilm di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, su Lampedusa e la tragedia dei naufragi, si candida l’isola siciliana assieme a quella greca di Lesbo al Premio Nobel per la pace, si portano a teatro testi ispirati alle storie di vita dei sopravvissuti, si allestiscono mostre e si progettano musei con i relitti delle imbarcazioni e frammenti materiali di memorie. Ma questa realtà rappresentata sul set cinenatografico o sulle immagini fotografiche sembra non incontrare e nemmeno sfiorare la realtà vissuta, la verità effettuale di ciò che accade sotto i nostri occhi, così che nessuno riesce a fermare i muri che si innalzano nel cuore del vecchio continente, le deportazioni degli sfollati, le spoliazioni violente, il genocidio che si sta consumando. Nessuna denuncia riesce a dare un senso al quotidiano nonsense.  

«Un fantasma di svastica si aggira occhiuto lungo le frontiere», scrive Nino Giaramidaro, e la lezione della storia che ammonisce degli esiti mostruosi della xenofobia rischia di cadere nel vuoto della nostra smemoratezza, nell’abisso del nostro collettivo e redivivo analfabetismo. Per capire la realtà di ciò che accade Umberto Eco ci sollecitava a leggerla come fosse un testo da smontare per decostruirne il senso nascosto, i significati e i tortuosi percorsi delle inferenze. Decostruire è un verbo inventato dal filosofo francese Derrida e caro agli antropologi. E, in questo numero di Dialoghi Mediterranei, straordinariamente ricco di contributi –  ben 39 articoli, in pratica un numero doppio – molti degli autori fanno ricorso a questa pratica metodologica, al faticoso esercizio di togliere il velo alle contraddizioni e alle retoriche radicate nelle pieghe della nostra cultura e del nostro linguaggio. Tanto più che, in particolar modo nella proposizione mediatica del fenomeno delle migrazioni, si addensa, come è noto, un ginepraio di equivoci concettuali, di narrazioni strumentali e di faziosità politiche. Da qui la necessità di proporre riflessioni, analisi, dati inediti di ricerche etnografiche e di approfondimenti teorici, letture, ragionamenti e interpretazioni per capire la genesi e gli sviluppi dei flussi, le diverse espressioni dei neorazzismi e dell’islamofobia diffusa, le criticità nei processi di riconoscimento dei diritti, le storie di vita di uomini e donne che abitano le nostre città, l’emersione di nuove soggettività e di nuove esperienze di marginalizzazione e d’integrazione sociale.

Questi e altri aspetti del complesso mondo delle migrazioni, osservato da uno sguardo olistico e eminentemente antropologico, sono al centro di molti degli articoli presenti in questo numero, che è cresciuto non soltanto nella quantità dei contributi ma anche nel novero dei collaboratori, alcuni anche stranieri (la francese Bouchama, lo spagnolo Modrego Navarra, il marocchino Redouan). L’altezza dei contenuti, il prestigio di quanti vi scrivono, l’ampiezza dei riscontri positivi da parte dei lettori ci incoraggiano e ci spingono a dare alla rivista una veste grafica più adeguata e coerente alla sua struttura editoriale e ai suoi obiettivi scientifici. È quello che ci proponiamo di realizzare entro quest’anno: un profondo restyling della testata, un rinnovamento nella impaginazione e nello stile redazionale orientato a  meglio definire l’identità del nostro bimestrale nel panorama assai affollato e frastagliato dei periodici online.

Dialoghi Mediterranei in questi tre anni di pubblicazioni – durante i quali ha messo in rete quasi 500 articoli – ha senza dubbio ampliato gli orizzonti della diffusione, la rete dei contatti – una media di 250 visitatori al giorno –, il circuito dei referenti scientifici che con il loro appoggio garantiscono e sostengono l’impegno dei giovani ricercatori che scrivono per la rivista. Nel sommario di questo numero si sono aggiunte altre nuove firme e tra queste almeno due assai autorevoli: quella di Maurizio Bettini, che ha voluto mandarci in anteprima uno stralcio del suo libro prossimamente in stampa, e quella di Pietro Clemente, che ha scritto per noi una riflessione sugli studi italiani intorno alle storie di vita, un campo di indagini che lui stesso ha promosso e magistralmente coltivato. Consideriamo la loro collaborazione, che si accompagna a quella degli altri studiosi da tempo appartenenti alla comunità ideale di Dialoghi, un affettuoso segno di amicizia ma anche di attenzione e di apprezzamento per il lavoro che svolgiamo. Altri – giovani e meno giovani (D’Amato, Di Marco, Inglese, Lutri, Mallardo, Pasquazzi, Soddu) – hanno avviato a partire da questo numero la loro partecipazione alla nostra piccola impresa editoriale. Infine, nel continuare a ospitare i contributi dei fotografi, invitati a illustrare il loro Mediterraneo attraverso un breve testo corredato da una selezione di dieci fotogrammi –  dopo Giaramidaro, Pitrone, Minnella, Cuttitta, Sinatra, Grippi, Zummo, Siracusa, Ingrasciotta – è la volta di Salvatore Clemente, autore di un reportage su Palmira, prima che fosse distrutta dal furore oscurantista e insensato degli uomini del Califfato. Le sue immagini e il suo racconto sono ora documenti preziosi di un paesaggio artistico e monumentale, sottratto per sempre allo sguardo dei visitatori e trapassato nella memoria delle antiche civiltà e della bellezza perduta.

Dialogano ormai attraverso la nostra rivista quasi un centinaio di studiosi che, pur declinando categorie e parole di una grammatica in gran parte riconducibile alla disciplina antropologica, si confrontano su temi di riflessione riguardanti i vari aspetti e le diverse forme delle culture contemporanee. Messi insieme i diciotto numeri che sono stati fin qui prodotti, costituiscono un corpus di idee e progetti capace di misurarsi in una prospettiva multidisciplinare con le complesse e  molteplici connessioni fra passato e presente, fra locale e globale. Aperto ai più diversi orientamenti  teorici e metodologici, lo spazio che abbiamo creato – come era negli obiettivi dichiarati fin dal primo numero – si conferma destinato a dare sopratutto un valore e un senso agli sforzi dei giovani ricercatori che in questo nostro Paese soffrono una grave e inaccettabile condizione di minorità sociale. Le tragiche sorti di Valeria Solesin e Giulio Regeni, tutti e due sotto i trent’anni, entrambi animati da passione civile e da amore per la conoscenza del mondo e delle sue periferie, curiosi e rispettosi delle differenze e delle specificità culturali, ci dicono delle grandi potenzialità umane e intellettive che sono nelle nuove generazioni e dei mille ostacoli che si frappongono alla liberazione delle loro energie e alla costruzione del loro futuro. Le loro vicende sembrano essere drammaticamente e simbolicamente rappresentative dei faticosi – e a volte perfino pericolosi – percorsi cui sono costretti i nostri giovani laureati che vogliono fare ricerca scientifica. Essi hanno diritto a migrare per l’Europa non in stato di dura necessità o di permanente precarietà ma sulla base di una loro libera e precisa scelta di vita.

Alla memoria di Valeria e di Giulio, e a tutti i nostri figli che hanno desiderio e interesse per gli studi e coniugano questo impegno con il progetto di rendere il mondo migliore e più giusto, dedichiamo questo numero di Dialoghi Mediterranei, che continua ad  intrecciare i fili di un ragionamento su antinomie apparentemente inconciliabili, su ossimori di verità e dissimulazione. Nella consapevolezza che  – come Eco ci ha insegnato – l’uso della parola nella sua  multiforme possibilità di significare è esercizio dialettico di un colloquio aperto e mai concluso, di una sfida ininterrotta a rovesciare i luoghi comuni e gli stereotipi, a vincere le pigrizie mentali, prime fra tutte quelle del linguaggio.

giulio-regeni

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016

 

 

 

 

 

 

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Una risposta a EDITORIALE

  1. Dino Levi scrive:

    Che progresso!

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