di Pietro Clemente
Beni comuni
Ho usato come titolo un passo del discorso che il Presidente Mattarella ha tenuto a Genova il 25 aprile perché è una forte dichiarazione a difesa della democrazia in Europa. Facendo esplicito riferimento anche alla dichiarazione di Ventotene, – sbeffeggiata dalla Meloni in Parlamento – ha rivendicato che
«Ora, l’eguaglianza, l’affermazione dello Stato di diritto, la cooperazione, la stessa libertà e la stessa democrazia, sono divenuti beni comuni dei popoli europei da tutelare da parte di tutti i contraenti del patto dell’Unione Europea».
Beni che sono diventati comuni grazie alla Resistenza nella lotta contro il nazifascismo. Questa dichiarazione suona come “non consentirò per quanto posso che i beni comuni siano violati e dilapidati”. La sua visita in onore della Resistenza di Genova e dei suoi partigiani è un omaggio non solo al presidente Pertini, ma anche a un’esperienza partigiana particolare di cui in parte non ero a conoscenza
«Fraternità (nella Resistenza ndr). Un’esperienza che ha tratto ispirazione da una figura, quella di Aldo Gastaldi, il partigiano “Bisagno”, comandante della Divisione Garibaldi-Cichero, protagonista di un impegno per la Patria, la giustizia, la libertà, considerato come servizio d’amore, oltre che esercizio di responsabilità. Morto drammaticamente un mese dopo la Liberazione, Medaglia d’oro al valor militare, la Chiesa di Genova ha determinato di dare avvio al processo canonico di beatificazione di questo Servo di Dio».
Una piccola lezione di storia che mi aiuta a collocare con quel termine plurale ormai acquisito di “Resistenze” quella componente cattolica che nella mia formazione laica e di sinistra avevo poco conosciuto, e che ho incontrato in Toscana in specie nella eredità di La Pira e di tanti sacerdoti perseguitati e comunque impegnati a creare spazi di resistenza al fascismo.
Mentre Mattarella teneva il suo discorso, io percorrevo con parte della mia famiglia il centro storico di Siena in un trekking urbano sui luoghi in cui si esprimeva la violenza del fascismo e la resistenza ad esso. Una forma non certo nuova ma sempre più ampiamente usata per il calendario civile e la Resistenza.
La sera, la visione in TV dell’ultima puntata dello sceneggiato Fuochi di artificio [1], mi ha fatto chiudere l’ottantesimo compleanno della Liberazione con qualche speranza. Gli occhi di Marta, Davide, Sara e Marco, quattro giovanissimi che nel film diventano protagonisti della lotta contro i tedeschi e i fascisti in un paese della montagna piemontese, sono gli occhi del presente della Resistenza che guardano in avanti verso il futuro. In genere detesto gli sceneggiati televisivi ma questa volta ho seguito la vicenda con piacere e interesse. Ho constatato che lo sceneggiato non ha avuto un grande successo di pubblico. Ma si tratta sempre di numeri significativi. La prima serata aveva uno share tra l’8 e il 10%, la seconda il 12,4 ovvero circa 2.011.000 di spettatori. Forse ci si può accontentare anche se Fuochi d’artificio non ha vinto la battaglia con Tradimenti, uno sceneggiato più americano e meno storico.
Il 24 aprile alle Stanze della Memoria, museo della storia del fascismo a Siena, abbiamo condiviso una ricerca fatta dagli studenti del Liceo Artistico, che, usando gli atti del processo, tenutosi tra il 1947 e il 1949, contro i fascisti responsabili di una strage di giovanissimi partigiani a Montemaggio, hanno realizzato una mostra di opere pittoriche. La mostra è il risultato di sopraluoghi sul territorio, di interviste a discendenti delle vittime e di consultazione degli atti del processo. Nelle Stanze della memoria – in passato edificio dei torturatori ovvero delle guardie repubblichine – questi studenti hanno portato la loro giovinezza e le idee artistiche con cui hanno interpretato nel presente quel doloroso passato. Si tratta di una ventina di opere in cui l’immagine ricorrente sono i papaveri in fiore, e il tema guida è onorare i morti ed esecrare gli assassini. Si potrebbe dire ‘ri-condannare’ quasi ottanta anni dopo quando oramai su di essi è sceso il silenzio. Hanno ridato voce ai martiri dell’eccidio di Montemaggio. Tracce di gioventù e di speranza.
La Resistenza: Memoria, rinnovamento, continuazione
La Resistenza italiana – così come quella europea – ha avuto origine da interessi e ideologie nefaste, da eventi traumatici e da passioni immense. In questo nodo terribile si sono mescolate morte, lotta, martirio e una continua domanda di libertà. Pur avendo contribuito a dare all’Europa e al mondo un nuovo volto, quei momenti storici lasciano ancora oggi ombre di conflitti, minacce di nuove guerre atomiche e guerre locali. Questi fili storici, almeno in parte irrisolti, si sono riformulati nel tempo, soprattutto dopo il crollo dell’Europa comunista e la caduta della cortina di ferro. Oggi giganteschi nodi di interesse, di violenza, di potere militare e coloniale ed esigenze profonde di liberazione si incrociano di nuovo con un clamore di parole e di immagini che ci lasciano sgomenti. Soprattutto la mia generazione, nata durante la guerra e che mai avrebbe pensato, dopo le lotte degli anni ‘60 e ‘70, che il mondo potesse tornare alla guerra, alla negazione dei trattati internazionali, alla cancellazione delle ONG, è sgomenta e fatica a credere nella possibilità di sperare. Una possibilità che, con grande energia controcorrente, ha visto protagonista Papa Francesco. Il Papa della speranza è l’intellettuale che in questi decenni, più di ogni altro al mondo, ha avuto davanti la mappa politica e sociale del pianeta e lo stato della Terra come casa comune. Nel suo ultimo Angelus ha menzionato Paesi in sofferenza e in conflitto quasi ignorati dall’Occidente e dimenticati dalla stampa e dal senso comune. Francesco è stato una forza morale di speranza.
Come in questa poesia e appello di padre Turoldo, che cerco di ripetere a me stesso:
Voi che credete
voi che sperate
correte su tutte le strade, le piazze
a svelare il grande segreto…
Andate a dire ai quattro venti
che la notte passa
che tutto ha un senso
che le guerre finiscono
che la storia ha uno sbocco
che l’amore alla fine vincerà l’oblio
e la vita sconfiggerà la morte.
Voi che l’avete intuito per grazia
continuate il cammino
spargete la vostra gioia
continuate a dire
che la speranza non ha confini
(David Maria Turoldo)
Sono queste ragioni di lungo periodo che hanno reso la Resistenza un tempo mai del tutto collocato nell’archivio del passato, che è stato anima di impegno e di speranza di molte generazioni e cerca di esserlo ancora.
Proprio per le sue radici profonde e per l’impatto che ebbe sul tessuto sociale, sul cambiamento politico e su un’idea di rinascita, la Resistenza rappresenta un’area di ricerca e comprensione in continua evoluzione, capace di parlare con il presente. Oggi, insieme alla Costituzione, essa funge in Italia e in Europa da indicatore indispensabile per evitare il ritorno a forme autoritarie. La Resistenza non si riduce a un pacchetto storiografico preconfezionato, non è filologia documentaria né mero dibattito tra storici, ma si è sempre caratterizzata per una forza storica e ideale pluri-generazionale e locale, accompagnando lotte sociali e fungendo da animatrice della memoria collettiva. La mia generazione in buona parte non ha avuto dai padri il racconto della Resistenza ma l’ha cercato e scoperto e l’ha portato con sé nelle lotte prima antifasciste e poi per i diritti e la trasformazione sociale lungo gli anni ‘60 e ‘70. Venti-trenta anni dopo la Liberazione si gridava ancora “Ora e sempre Resistenza”. Le storie drammatiche dell’America Latina hanno visto Resistenza e guerriglia intersecarsi. Il Vietnam e altre lotte di indipendenza in Asia e in Africa, anche se i destini dei vari popoli si sono diversificati, hanno fatto sì che questa parola continuasse a circolare nel mondo e venisse comparata con quel che oggi, nel tempo della Terza guerra mondiale a pezzi, ancora succede. Nel lavoro storico e didattico di costruzione pubblica della memoria della Resistenza, che viene fatto dagli Istituti Storici della Resistenza e dalla rete nazionale Parri, la Resistenza è stata studiata, testimoniata, autocriticata e ridiscussa con momenti di riflessione e di cambiamento.
La Resistenza è in continuo mutamento, si rinnova col cambiamento del tempo, dei costumi e dei valori morali. Quest’anno, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione, vi sarà l’“anno della Resistenza delle donne”. Il ruolo delle donne assume oggi una valenza particolare: nuove ricerche, libri, romanzi e racconti stanno ridando vitalità a una memoria liberatoria che, nei primi anni 2000, appariva ridotta a quella di anziani ex militari. È il segno di una nuova primavera per la Resistenza, in cui giovani attori, come quelli delle montagne piemontesi, appaiono anche nelle produzioni televisive. Negli ultimi decenni la Resistenza si è pluralizzata in ‘Resistenze’ accogliendo in specie quella degli IMI (Internati Militari Italiani), il cui rifiuto del fascismo è stato sempre più documentato da diari, memoriali, studi.
Alle donne della Resistenza è stato dedicato questo 80° che ha aperto e documentato l’attenzione ad un universo di attività, iniziative, valori che hanno fatto del ruolo delle donne il vero ‘ceppo’ della pianta fiorita della Resistenza. Attraverso le testimonianze e i racconti delle donne viene sempre più in evidenza la lunga durata del maschilismo esclusivista nella memoria e nella storiografia partigiana, nonostante una lunga e lenta rielaborazione che si connette al femminismo. Ho di recente ascoltato interviste alle donne tratte dal fondo dell’Istituto Storico della Resistenza di Siena e vi ho rilevato una densità, una ricchezza che spesso quelle maschili non posseggono. Le donne mostrano le reti e le relazioni che stanno dietro ai fatti, i sentimenti e le emozioni che li caratterizzano, hanno memorie lunghe e punti di vista straordinariamente ricchi. Le loro narrazioni costituiscono un asse, un binario della memoria che ci connette al passato e il ritrovamento delle loro testimonianze ora, come se fossero freschissime, ci dà il senso di attualità delle Resistenza.
Dagli anni ’70 uno dei temi centrali della politica del femminismo era lo slogan ‘il personale è politico’. Questa frase appariva quasi scandalosa per le associazioni e i testimoni del mondo partigiano, che, a lungo marginalizzati, cercavano la visibilità soprattutto nel riconoscimento pubblico di azioni militari medaglie, monumenti. Quando Guido Quazza, resistente, storico, tra i fondatori e poi presidente dell’INSMLI (Istituto Nazionale di Storia del Movimento di Liberazione in Italia) – oggi Istituto Parri – sollevò questo punto di vista in un cinema senese pieno di militanti non più giovani, lasciò tutti perplessi. Quazza ricordava che la Resistenza era stata fatta da giovanissimi – oramai molti se l’erano dimenticato – che avevano fatto scelte personali e morali, un tema che da allora si è molto sviluppato anche sul piano storiografico.
Il museo di Fosdinovo e il Museo diffuso della Resistenza di Torino mi hanno consentito di porre al centro questo scenario di memorie giovani, di sentimenti, di riflessività dei protagonisti di quel tempo. Mettere in luce nel museo le interviste degli anziani che parlavano di sé giovani o giovanissimi era come illuminare un mondo. Quelli che come me nella guerra erano nati e avevano visto i partigiani sempre come padri, zii o fratelli maggiori, li trovavano ora più simili, più vicini quasi come fratelli. Erano giovani come noi, non antichi soldati forgiati e temprati come ‘fu temprato l’acciaio’ o come, a questo punto, volevano apparire.
La pubblicazione del libro di Pavone [2] sulla moralità della Resistenza fu un altro snodo di dibattiti e di nuove riflessioni. Questo libro creò movimenti e dubbi nel mondo dell’associazionismo e della memoria partigiana tanto che ancora oggi se ne discute. Negli anni ‘90 e oltre con il venir meno delle rigidità interpretative legate ai conflitti politici, si è sviluppata una amplissima memorialistica che ha dato luogo a dibattiti, conflitti di interpretazioni, ma, a mio avviso, ha reso per sempre fertile il terreno della pluralità delle storie evitando così i paradigmi forti e le interpretazioni schematiche. Da allora sono usciti volumi e volumi su questi argomenti e nuovi sguardi si rivolgono alla Resistenza europea. Le nostre ‘Resistenze’ sono state diverse per paesi, passaggi della guerra, durate, ma simili e interconnesse dal sistema mondo in guerra.
All’Istituto Storico della Resistenza di Siena abbiamo voluto dedicare una giornata a Marc Bloch [3], intendendo così dare significato alla storia e alla Resistenza europea, oltre che al ruolo degli ebrei e degli intellettuali in essa. Il 16 giugno del 1944 questo straordinario docente universitario e innovatore del metodo storico, fu trucidato dai nazisti, poco tempo prima della Liberazione. Il 5 giugno era avvenuto lo sbarco in Normandia.
Così come accade a Maurice Halbwachs che morì a Buchenwald, il 16 marzo 1945, esattamente un mese prima che gli americani liberassero il suo campo di prigionia. La morte di questo straordinario intellettuale francese, autore de La memora collettiva’ [4], è stata raccontata da George Semprun, un militante comunista e poi scrittore [5] che condivise il campo di concentramento.
Sono due esempi che ci dimostrano quanto abbiamo ancora da imparare dalla Resistenza europea. Allargando lo sguardo sempre di più. Bloch e Halbwachs collaborarono tra loro e portarono negli studi uno sguardo storico e sociologico ed entrambi scrissero sulla guerra basandosi sull’esperienza da loro vissuta nella Prima Guerra mondiale.
Penso che, diversamente da altri fenomeni storici, forse più circoscritti, la Resistenza europea e italiana mantiene una grande possibilità di essere arricchita e di essere suggeritrice di revisioni dall’interno e di nuovi punti di vista evitando così sia di disseccarsi che di farsi invadere da usi impropri e anacronistici.
Ho conosciuto la Resistenza da giovane, a diciotto anni. Nessuno me ne aveva parlato in famiglia e me la sono cercata da solo. Le tracce che ho trovato facevano parte di un mondo che si era un po’ spento dopo i grandi dibattiti del dopoguerra, ma che avevo visto riaprirsi negli anni ‘60 con la rinascita di movimenti giovanili antifascisti. Ho scoperto la Resistenza attraverso le poesie di Fortini, le testimonianze di Primo Levi e le memorie di Anna Frank, e poi, attraverso le lettere struggenti di giovani contadini di 19 anni, uccisi senza legge né pietà, che scrivevano l’ultima lettera ai loro genitori [6]. Nel 1962, a 20 anni, il primo gesto pubblico culturale della mia vita fu la presentazione con un gruppo di attori del libro di poesie sulla Resistenza spagnola [7], appena uscito. Dal 1962 in poi, la Resistenza ha assunto per me forme differenti: nella militanza politica, nei movimenti, e poi negli studi sulle lotte contadine della Toscana fino alla collaborazione alla rete degli Istituti della Resistenza a partire dall’ISRSEC di Siena. È stata uno dei fili conduttori della mia vita morale, politica e intellettuale. Penso spesso che ho avuto diverse vite: una cagliaritana radicata nella cultura del ceto medio isolano, ma più tardi investita nella militanza politica nei partiti PSI e PSIUP e poi nei movimenti studenteschi e degli insegnanti ed anche nei gruppi extraparlamentari, e infine una vita senese dedicata alla ricerca universitaria ma sempre connessa con i temi culturali e politici della vita collettiva. A Siena sono stato amico e politicamente vicino a Viro Avanzati, comandante della Brigata Spartaco Lavagnini, ho letto i primi studi storici sull’argomento, ho avviato una raccolta di testimonianze orali, ho seguito le attività degli Istituti Storici nei tardi anni 70 e nei primi anni 80, su un fronte molto legato alla didattica della storia nella scuola. Ho partecipato a un avvio di riflessione su Resistenza e museografia. Erano anni di grande apertura interdisciplinare intorno alla didattica oltre che alla natura stessa della storia sociale, economica, evenemenziale, anni in cui lo sguardo dell’antropologo, del sociologo del critico letterario e dello storico erano parte di un comune patrimonio. Negli anni ‘90 a Siena l’Istituto ebbe come direttore l’antropologo Fabio Dei e il Museo “Le stanze della memoria” fu progettato da antropologi museografi. Uno scenario diventato oggi piuttosto raro.
Da principio ho vissuto la Resistenza come impegno militante radicale con la scelta di uno sguardo prevalente ai caratteri politico/culturali di essa. Erano anni in cui molti partigiani erano vicini e condividevano i movimenti, anche se lo sguardo antropologico mi spingeva sempre verso la vita quotidiana. La trasmissione dei valori, il passaggio tra le generazioni erano temi che nel tempo sono diventati prevalenti nella mia ricerca nel tentativo di capire la Resistenza come una forma di vita sui generis. Ma vi è stato un periodo in cui della vitalità di questa memoria si era persa la traccia, essendo a tratti ridotta a mera celebrazione. Nei primi anni 2000 feci con i miei studenti una piccola ricerca sul campo sulla celebrazione del 25 aprile da cui scaturì che la festa poteva essere rappresentata come raduno di maschi anziani intorno a monumenti di rimembranza militare. Spesso lo studente che partecipava e studiava il rito veniva scambiato per un raro giovane che ‘finalmente’ si faceva vivo per raccogliere l’eredità partigiana.
Dopo di allora la crescita dell’ANPI e della rete nazionale degli Istituti della Resistenza hanno rilanciato la Resistenza, l’hanno arricchita sia le forme di manifestazione che le conoscenze attraverso numerosi studi, ricerche e pubblicazioni. Nel lavoro che viene svolto nelle scuole c’è sempre una forte volontà di trasmissione che è un aspetto fondamentale ma spesso ci si domanda come i giovani, che appaiono poco attenti al patrimonio della Resistenza, potranno accogliere e fruire di tale eredità.
Come un antropologo vede la Resistenza?
Mi faccio e mi vien fatta spesso questa domanda. C’è una piccola schiera di antropologi italiani che se ne sono occupati non solo per scelta civile ma anche come tema della loro ricerca. Nell’ambito toscano Fabio Dei e io abbiamo avuto l’onore e l’occasione di fare la più ampia ricerca sulle stragi naziste lungo il passaggio del fronte [8], collaborando con Leonardo Paggi e Giovanni Contini. Dalla ricerca sulla strage di Civitella, Giovanni Contini pubblicò La memoria divisa [9], un libro importante centrato sulla storia orale e il dialogo con la comunità di lutto. Con Fabio Dei ho condiviso il lavoro sui festeggiamenti del 25 aprile [10], ed entrambi abbiamo intervistato Vittorio Meoni, partigiano senese, protagonista della memoria storica della Resistenza senese e fondatore dell’ISRSEC (Istituto Senese della Resistenza e dell’età contemporanea).
Per me, come per Fabio Dei, la Resistenza non è solo la storia degli avvenimenti che l’hanno caratterizzata ma è anche la storia delle rappresentazioni delle stragi, della memoria della Shoah e del grande dibattito che ne è seguito. E per me soprattutto lo studio del rapporto che la Resistenza ebbe con i ceti sociali ‘contigui’ – contadini e boscaioli – nei boschi e nei colli. In queste ricerche abbiamo incontrato gli storici orali, spesso poco riconosciuti, con cui abbiamo condiviso l’appartenenza alla Società internazionale di Storia orale. Nel volume collettivo fatto dall’Istituto Storico della Resistenza senese e della società contemporanea ‘Vittorio Meoni’ [11],mi sono ritagliato il tema del rapporto tra Resistenza e lotte contadine [12], campo di ricerca che ho ampiamente traversato, con l’uso di interviste, fonti orali, memorie della vita collettiva, nel quadro del grande cambiamento della società toscana del dopoguerra. Non è un classico terreno da antropologi ma è il risultato del mio incontro, per me che provenivo dalla Sardegna, col mondo contadino toscano, che ho percepito come un ‘altro’ mondo. Ma i miei primi rapporti da studioso con la Resistenza sono stati legati ai temi della trasmissione dei suoi valori attraverso la didattica e la museografia [13].
Proprio nell’ambito della museografia mi è sembrato importante considerare la memoria storica come un oggetto culturale ‘pesante’ la cui trasmissione ha valore solo se esplicitamente desiderata e scelta. Citando le parole di Vincenzo Padiglione:
«Forse per i giovani l’indifferenza è una difesa dal rischio che le loro sensibilità non siano riconosciute, le loro vite possano essere occupate, che i loro destini orientati, non più neppure da utopie (mondi da costruire insieme e secondo valori) ma da memorie, monumenti al passato, enciclopedie che strutturano saperi ed esperienza di altri, di precedenti, più o meno lontane generazioni» [14].
Ho trovato nelle pagine di Ernesto De Martino questo stesso tema:
«importante è determinare le ragioni storiche di quel ‘sapere’, la razionalità di quella incoerenza, la funzione esistenziale positiva di tanta apparente storditezza o smemoratezza. E in ultima istanza la carica protettiva e la forza mediatrice di ‘stare nella storia’ come se non ci si stesse» [15].
Trovo ancora potentissima questa idea di riconoscere un ’sapere’ in qualcosa che siamo tentati di chiamare ignoranza, di affrontare l’alterità e di essere consapevoli della necessità di incontro e di dialogo per superare il ‘timore’ della storia da parte dei giovani.
Sono temi del presente, della trasmissione, della conoscenza, della varietà delle forme del sapere del passato. Dei modi di vivere di mondi altri. Nella ricerca fatta a Civitella della Chiana – dove il 29 giugno 1944 (era il giorno del secondo onomastico della mia vita) vi fu una strage di 244 civili da parte dell’esercito tedesco – furono intervistati i discendenti delle vittime che per lo più erano orientati verso una memoria che colpevolizzava i partigiani. Se non avessi fatto tesoro dell’indicazione sopra riportata di De Martino, sarei caduto nell’errore fatto da alcuni gruppi politici che avevano attribuito ai discendenti patenti di antiresistenza e di conservatorismo. Senza accorgersi che il tema non era la politica ma il lutto, le forme che aveva preso il dolore e la ferita nella loro storia e il modo di rappresentare e costruire riti intorno ad una identità ferita e negata. È stato in parte merito della ricerca e dei successivi incontri con alti rappresentanti delle istituzioni (il Presidente Scalfaro in primis) a consentire un superamento delle divisioni verso una memoria comune.
Come antropologo penso che si possano affrontare i temi della memoria resistenziale con modalità che erano già presenti nella ricerca sui riti del 25 aprile citata. Anche la Resistenza nel suo lungo e pluricromatico patrimonio si presenta nelle forme che assumono i miti e i riti. Le forme pubbliche di commemorazione hanno assunto una spiccata ripetitività rituale con cortei, depositi di corone, discorsi istituzionali. Negli anni 70 a Siena a questa ritualizzazione della memoria, l’area politica più radicale contrapponeva e organizzava un incontro in campagna nella zona delle operazioni della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini cui partecipavano partigiani ancora attivi nel dibattito sulla Resistenza. I riti fanno parte della vita collettiva, ma sono anch’essi soggetti a cambiamenti, aggiornamenti e trasformazioni a volte profonde e sono interpretabili in termini di valori simbolici. Ed è per questo che nella ricerca fatta in Toscana nei primi anni 2000 i riti della Resistenza apparivano come una sorta di prosciugamento e riduzione della grande memoria a oggetto funerario, che lottava per una dignità nel lutto più che per un poderoso ‘trascendimento di esso nel valore’ per usare ancora le parole di Ernesto De Martino.
La nozione storico-religiosa di mito che i laici tendono a ridurre alla sola sfera religiosa, può essere tranquillamente applicata anche alla Resistenza. Negli anni ‘90, Bruce Lincoln, studioso americano di Storia delle Religioni, visiting professor all’Università di Siena, suggerì un rapporto inconsueto tra storia, leggenda, fiaba e mito. Laddove la fiaba e la leggenda hanno la minore credibilità ed efficacia, la storia ha più credibilità ma minore efficacia mentre il mito ha sia maggiore credibilità che efficacia [16]. E vedeva nella Resistenza in Italia il paradigma esemplare del mito, capace di ispirare movimenti, di chiamare all’azione, di condividere orizzonti collettivi di grande idealità. Religione civile, si è detto talvolta.
Ecco il suo tabulato: intenzione di verità credibilità autorità (capacità di convincere)
Fiaba - - -
Leggenda - + -
Storia + + -
Mito + + +
Non è detto che questo schema debba essere convincente ma certo aiuta a vedere la grande capacità che il racconto della Resistenza ha avuto nel tempo nel suscitare, pur in maniera altalenante, emozioni, condivisioni, nuove interpretazioni e azioni sociali.
Come negli anni ‘70, gli storici specialisti hanno bisogno dell’apporto di altri studi e penso che l’antropologia italiana abbia notevoli esperienze nel mondo della ricerca sulle fonti soggettive, la memorialistica, le fonti orali, e abbia risorse teoriche interessanti per riflettere sull’asse tra il presente e il futuro. Un grande ponte tra i nostri mondi è stato Nuto Revelli, uomo di esperienza e di sofferenza nella guerra di Russia e nel mondo partigiano. Revelli è stato costruttore di memoria – ‘ricordati di non dimenticare’ era il suo motto – ha prodotto fonti e documenti prima sulla guerra e poi sul mondo contadino con un taglio storico-antropologico.
Faccio parte della generazione dei figli o dei fratelli minori dei resistenti, non ho vissuto la Resistenza anche se ho con la storia di quel tempo una piccola intersezione, che mi è sempre servita a collocarmi nella memoria degli eventi. Quando compivo un anno e mezzo – era il 1944 – mio zio Francesco Paulesu, medico condotto di Meana Sardo in Sardegna, cominciava il suo diario dove annotava, oltre ai fatti della vita quotidiana, le notizie che faticosamente riusciva ad avere del figlio, pretore a Milano, e dopo la mancanza totale di notizie fino al 1945, scrisse come un impegno di attesa. Il diario terminò nel 1946 dopo la Liberazione. Quel diario parla anche di me, nel quadro di arrivi e partenze, di inviti a pranzo, di cicli agricoli. Ma ci sono, esso certifica la mia esistenza di bambino e mi include nella storia come l’insetto nell’ambra. Questa mia collocazione, in un luogo lontano dalle rappresaglie fasciste, mi ha fatto sentire fortunato pensando ai miei coetanei che vivevano a Civitella della Chiana, bambini che hanno vissuto e per anni ricordato e testimoniato una strage di padri, nonni, zii buttati già dal letto, di case date alle fiamme. Ricordando per non dimenticare, che il cielo era azzurrissimo, che il nonno stava sulle scale, che il babbo era tornato dalla campagna, che non c’erano telefoni se no l’avrei potuto avvisare…. A sentire queste testimonianze, capisco la sindrome del sopravvissuto di cui così fortemente Primo Levi ha scritto, domandandosi perché era toccato morire a loro e non a lui.
La ricerca, quando è profonda e coinvolgente, tocca le corde più emotive di chi indaga che spesso ne esce, come è logico attendersi, profondamente cambiato
C’è molto di questo sentimento nel finale della poesia Una facile allegoria di Franco Fortini
Legna e carbone, calore futuro, disgregata vivezza!
Inariditi morendo per stagioni e stagioni
diverremo realtà compatte leggere, arderemo
sino al nido dell’ambra, alla fibra del tarlo.
Ogni anno del libro una parola,
ogni sigillo di delusa storia una sillaba luminosa,
in fiamma alito aria
tutta tramuterà questa sostanza;
e quella che ora ti reco quasi opaca eco sarà
lo strido d’un spirito,
un grido acuto e sommesso nel cuore degli altri. (1954).
Cosa posso trasmettere di un’epoca che non ho vissuto ma ho condiviso, interpretato, vissuto di seconda mano ma come sempre nuova. La Resistenza, oggi più che mai, pone a chi l’ha vissuta una domanda pressante: cosa possiamo ancora fare, noi che abbiamo partecipato a movimenti, lotte e speranze, per difendere la democrazia?
Lo sviluppo di nuove gigantesche forze conservatici rende difficile una nuova progettualità in un mondo così cambiato, rende difficile la condizione di chi si è attestato sui temi dei diritti, del rispetto della diversità, della giustizia per tutti, rende complicato dare un giusto spazio nel mondo ai migranti che scappano dalla loro terra per siccità, per paura, per violenza. Non occorre più solo allargare questi spazi, ma in primis difenderli, e rileggerli alla luce dei cambiamenti in atto. È una cosa troppo difficile: occorrono idee che vengono da nativi digitali, da ingegneri informatici alleati con storici e politologi. Possiamo denunciare, segnalare raccontare qualche aspetto che può ancora essere interessante.
Sono in atto, anche in Italia, conflitti molto forti che rischiano di alterare la democrazia nata dalla Costituzione. I conflitti più evidenti riguardano la riforma della giustizia e della pubblica sicurezza: ne sappiamo qualcosa avendo vissuto a lungo col codice Rocco, assistendo nel presente al ritorno di un uso eccessivo della repressione nelle manifestazioni dei giovani, e vedendo il tentativo di stabilire stretti confini con il ricorso alla pubblica sicurezza. Un fronte che interessa la scuola è quello del Ministero per l’Istruzione e il merito, il cui il Ministro Valditara sta cercando da un lato di chiudere con accentuazioni repressive le libertà di iniziativa dentro la scuola e dall’altro di favorire nei programmi scolastici la centralità della storia dei bianchi occidentali manifestando così tracce di suprematismo in una scuola che forse vuole basata su esclusivismo destinato a pochi eletti. Ho seguito il caso della persecuzione, anche processuale, di un insegnante toscano che aveva scritto nella sua pagina facebook nella forma di una interiezione blasfema la sua critica al Ministero dell’Istruzione per l’aggiunta della parola ‘merito’. È stato accusato di dare un cattivo esempio morale e di avere offeso le istituzioni. Personalmente anche io ho sentito come una offesa alla storia della scuola italiana l’aggiunta della parola ‘merito’. I lineamenti di storia espressi dal Ministro sono stati i oggetto di un dibattito critico molto forte.
Ecco un terreno di Resistenza. Forse dobbiamo chiedere agli insegnanti, ai genitori, ai giovani di resistere alla cancellazione di 50 anni di nuova didattica, e di avere una funzione di sollecitazione e di risonanza. In tutti i luoghi dove si manifestano le chiusure è importante costruire movimenti. zone che le contrastino, spazi di potere critico che consentano anche al Presidente della Repubblica di difendere il senso della Resistenza. Oggi, il campo della scuola, per tante ragioni, è un settore più debole e più esposto all’attacco conservatore, ed ha bisogno di essere difeso non solo dall’interno. Ogni tanto penso che dovrei farmi promotore di un movimento dei nonni per difendere le libertà e le conquiste.
La Costituzione ci ha visti bambini ma le conquiste degli anni ‘60 e ‘70 le abbiamo sollecitate e vinte noi giovani di allora. Ma più spesso sono sopraffatto dal pessimismo della ragione più che dall’ottimismo della volontà. Per questo analizzo, forse per confortarmi, anche alcuni ‘contropoteri’ insiti nella storia recente, ad esempio la dimensione della canzone e della musica. Alcune voci che accompagnavano i movimenti sono state ereditate, almeno in parte, dalle generazioni successive. Non sono passati i testi e le musiche della prima generazione come quelli di Calvino e di Fortini, di Liberovici e di Amidei, ma sono passate molte canzoni politiche e di cantautore con spirito ribelle come quelle di Fabrizio De André e con espliciti riferimenti alla Resistenza, come le canzoni di Guccini, De Gregori, che hanno forte risonanza anche oggi.
Vi sono poi nuovi temi che possono creare tracce morali ed emotive come quelli segnalati dal libro di Chiara Colombini sulle ‘passioni’ della/nella Resistenza [17]. dove sono messi al centro i sentimenti, le ragioni morali, i dubbi, la costruzione delle certezze, i temi della violenza e della morte. Temi che colpiscono molto e che chiamano in causa il presente, i bombardamenti, le uccisioni, oggi come allora. Ci pongono la domanda se quella dei palestinesi può essere definita “Resistenza”. Se Hamas sia anch’essa una organizzazione di Resistenza. Chi distrugge città dall’alto e ammazza migliaia di civili è terrorista più o meno di chi trucida e cattura nemici dal basso? Cosa è Resistenza, cosa è terrorismo? Nei primi anni ‘60 incontrai la guerra d’Algeria che divenne uno dei miei principali temi di presa di coscienza. Allora fu per me doloroso accettare che le donne del FLN mettessero bombe nei bar facendo stragi indiscriminate, ma allo stesso tempo non potevo accettare la violenta arroganza del dominio francese che catturava in modo indiscriminato, incarcerava, torturava e pretendeva che l’Algeria fosse un pezzo di Francia. La grande intellettualità francese lottando contro il potere parigino si schierò con la lotta di liberazione algerina. La rivoluzione non è un pranzo di gala. Il colonialismo e l’imperialismo hanno fatto stragi per impedire la Liberazione, la Resistenza li ha sconfitti in quasi tutto il mondo, combattendo, come scelsero di fare i giovani partigiani, spesso freschi di studi, che non avevano mai sparato e che dovettero uccidere.
Aprire la ricerca a nuovi aspetti ci aiuta a pensare, a rivivere, e a soppesare la complessità. D’altra parte gli strumenti di narrazione – penso ora al fumetto realizzato a Siena sulla storia partigiana [18] – e di comunicazione, come la campagna su Instagram e altri social che gli Istituti Storici stanno facendo per promuovere la ‘Resistenza delle donne’, cercano di creare zone di contatto tra le generazioni, di favorire inneschi e fioriture nella coscienza. Ma ci sono anche altre Resistenze. 80 anni fa proprio in questi giorni il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) diede l’avvio alla fase finale della guerra contro i nazifascisti con la parola d’ordine ‘Insorgere’ [19]. rivolta a tutti e soprattutto ai Gap, ai Sap, alle formazioni partigiane. Oggi, gli operai licenziati della GKN di Campi Bisenzio hanno rilanciato la parola d’ordine ‘insorgere’ e stanno cercando di creare un movimento intorno alla loro battaglia per ricreare uno spazio produttivo condiviso dagli operai licenziati, oltre che un movimento intellettuale con festival, incontri e rivendicazioni. Per loro la Resistenza è un punto di riferimento, la loro è una ‘nuova Resistenza’ come si usava dire molti anni fa.
Vale lo stesso per la grande rete di volontariato che opera in Italia verso le nuove povertà e le migrazioni e che ha una forte base nella Caritas e in grandi agenzie come Emergency, Medici senza frontiere e tante altre forti associazioni di resistenza alla discriminazione e alla condanna a morte in mare. Sono presìdi, alcuni già globali, per contrastare il volto più cupo e duro del mondo contemporaneo, volto a difendere la fortezza Europa. Sono tracce sufficienti di una Resistenza attiva? No di certo se confrontate con lo schieramento mondiale delle potenze che vogliono la guerra, il predominio, la produzione di armi,.
Sono povere tracce. Forse consolatorie. Ma certo sono solo delle tracce quelle che la generazione dei nonni può lasciare a quella dei nipoti, nella speranza che anche essi possano cercare e trovare la Resistenza e adattarla e adottarla alle loro coscienze di nuovi cittadini e possano rileggere quelle tracce per tenere aperto il futuro alla democrazia.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] da un romanzo omonimo del 2015 di Andrea Bouchard
[2] C. Pavone, La guerra civile .Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991
[3] È stato realizzato un piccolo volume illustrato sulla sua storia di professore ricercatore ebreo e partigiano. Si tratta di R. Bardotti, Marc Bloch., Betti editore, 2023
[4] M. Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli 2007
[5] G. Semprun, La scrittura o la vita, Guanda, 1994
[6] A cura di Pirelli e Malvezzi e a Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Torino, Einaudi 1952.
[7] Dario Puccini, Romancero della Resistenza Spagnola (1936-1959), Feltrinelli, 1960., Lo presentai in una casa del popolo di Porta Vittoria a Milano dove allora ero studente.
[8] Poetiche e politiche del ricordo: memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, a cura di Pietro Clemente e Fabio Dei, Carocci, 2005
[9] G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli 1997
[10] P. Clemente Sulla perdita di valore dei riti e dei simboli: generazioni, eventi pubblici e memoria storica, con Savina Tessitore, in Fabio Dei (cura), Riti e simboli del 25 aprile .Immagini della festa della Liberazione a Siena, Roma, Istituto Storico della Resistenza Senese, Meltemi,2004: 85-92.
[11] A. Orlandini et al., Storia della Resistenza senese, Betti, 2021
[12] Ivi Circondati dalla guerra: i contadini fra distruzioni, renitenze e resistenze: 169-189
[13] P. Clemente, La storia, la mente, la scuola. Note di dibattito, «Italia contemporanea», 157: 215-246 1984 e Id. I musei: appunti su musei e mostre a partire dalle esperienze degli studi demologici, in La storia. Fonti orali nella scuola, Marsilio 1982: 141-157.
[14] Sam Pezza Riflessivo; Sam Pezza è un pseudonimo scelto da Vincenzo Padiglione, il testo è Riflessivo, nota finale al volume di “Antropologia Museale”, n.14, 2006, dedicato alle Culture Visive: parole chiave degli antropologi.
[15] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 1977 a cura di Clara Gallini: 225
[16] Bruce Lincoln, Discourse and the Construction of Society, Oxford University Press, 1989
[17] C. Colombini, Storia passionale della guerra partigiana, Laterza, 2023
[18] R. Bardotti e R. Manganelli, Il ritorno di Giovanni. Una storia illustrata della Resistenza senese
[19] Vedi il sito Risorgiamo.
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.
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