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È difficile vivere in montagna, per chi vive di montagna!
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 00:04 In Cultura,Società | No Comments
di Settimio Adriani, Riccardo Fornari, Annalisa Lucentini, Elisa Morelli, Dario Santoni
È la storia locale che traccia in modo incontrovertibile il titolo di questo scritto. Una storia, quella delle aree interne e svantaggiate del Cicolano e dell’intero Reatino, fatta di restrizioni e rinunce, di incertezza e poche prospettive, di sudditanza e scarsa considerazione, di tante partenze e pochi ritorni.
La condizione socio economica media della popolazione alla fine del XIX secolo è chiaramente riportata nei documenti, e le descrizioni non danno adito a fraintendimenti:
Una conferma a questo rapporto di Pasquale Piccinini la dà, per la medesima epoca, Pasquale Sigismondi:
Dalle indagini di prima mano condotte da Luciano Sarego emerge che a quell’epoca «Altissima è la percentuale delle morti infantili (38% nel 1812 e 48% nel 1813)» (Sarego, 1985: 101-110). È lo stesso studio a rilevare, ancora una volta, la mancanza di equità sociale che caratterizza quell’epoca. La disuguaglianza, che non si limita alle sole condizioni economiche, si spinge in profondità, fino a dare corpo a preconcetti esclusivi, diffusi e radicati:
Sono questi ultimi che, agli albori del XX secolo, Domenico Lugini chiama in modo sprezzante «popoletto» (Lugini, 1983: 363-364) e «plebaglia» (Lugini, 1983: 365), scavando per quel territorio un solco definitivo tra le classi sociali della modernità. Ma i «più probi e abili cittadini», quelli che appartengono alla classe «principale», tali non avrebbero potuto essere se non ci fossero stati i subalterni del «popoletto» e della «plebaglia»; e sono incredibilmente i funzionari del Re ad accorgersi che:
Comincia così il ridondante turbinio dei “se” che avrebbero dovuto ridare vita a un mondo in forte sofferenza e ormai alle soglie di un flusso emigratorio epocale (Adriani & Adriani, 2008a; Adriani & Adriani, 2008b). E mentre si discute alacremente su cosa fare:
Questa è la traccia storica dell’attaccamento alle radici che rappresenta il non sapersi staccare, di alcuni, da quel mondo di restrizioni e rinunce, di incertezza e poche prospettive, di sudditanza e scarsa considerazione, che perdura fino alla metà del XX secolo e non raramente anche oltre. Fino a quegli anni ancora permane l’amara disponibilità a sottostare ai «più probi e abili cittadini» pur di restare, pur di non fare le valigie:
Si escogitano le strategie che consentono di restare, le più impegnative e meno probabili, che però mantengono saldo il legame col territorio. Si applica in altri settori l’antica strategia della transumanza orizzontale (Gabba, 1985: 386-387), si va ritmicamente per tornare sistematicamente:
Tra coloro che discutono, a fianco dei “se” via via prendono corpo anche i “ma”, con l’individuazione delle cause che hanno generato e mantenuto tale e tanta arretratezza:
Su questo filone, che successivamente si dipana e disperde in mille rivoli, non tarda a entrare in gioco anche il ruolo della mancata cultura:
Intanto, nella complessità delle dinamiche in atto, c’è anche chi ha ceduto al richiamo delle sirene del possibile e facile benessere, recidendo definitivamente il legame con la terra d’origine. Già nei primi decenni del 1900 qualcuno sperimenta un’altra via possibile, lontano da casa, ma con altre e più attraenti prospettive.
Se altrove un’altra via è possibile, perché restare a vivere in condizioni di disagio? La risposta sembrerebbe scontata, eppure l’attaccamento al proprio territorio ostile sembra non essere venuto completamente meno. Ce lo conferma Luigi Adriani, compaesano contemporaneo dell’ormai affermato americano Stefano Troiani. Per tutta la vita pastore, alle dipendenze della più grande famiglia armentiera del Cicolano, e svernante con le greggi in custodia nelle campagne romane, Luigi così descrive le montagne sulle quali passa in condizioni di disagio e quasi totale isolamento intere estati:
Da allora è trascorso quasi un secolo, chi è rimasto costituisce la prova vivente che il legame con le radici ancora c’è. Ma per quanto tempo ancora perdurerà? Perché le nuove generazioni, che sono gli odierni cittadini del mondo, dovrebbero ancora sentirsi legati a quell’irta costa in cui poco è il godere, e assai fugace? Quante discussioni si sono fatte per cambiare lo stato delle cose, e mantenere in montagna il presidio umano? Cosa ha portato, per chi ancora resiste, il fiume di “se” e di “ma” che è scorso nel tempo? Cosa è cambiato per chi ancora non ha fatto le valigie per andare a stare meglio, e garantire un’esistenza più agiata ai propri figli?
Ecco alcune brevi testimonianze di chi, vivendo di montagna, in montagna è rimasto, è tornato, è arrivato.
Una restanza di prima generazione. Giuseppe Santoni, detto Peppino, classe 1946, è un uomo di poche parole ma ha le idee molto chiare sulle questioni riguardanti il restare in montagna vivendo di montagna.
- Quali attività conduci in montagna?
«Conduco l’agricoltura e tutta roba di agricoltura, il bestiame, le legna, tutta roba che si fa in agricoltura».
- Che progetto avevi?
«E niente io c’avevo un bel, cioè, a me sembrava che fosse un buon progetto, e volevo aumentare sempre il capitale, bovini, ovini, caprini… fare una bella azienda, però purtroppo la montagna dove sto io non lo permette».
- Quali aspettative avevi?
«Mi aspettavo, speravo sempre in un miglioramento, che con il passare degli anni la cosa sarebbe migliorata».
- Quali problemi hai incontrato?
«Beh, problemi… un po’ di tutto… diciamo un po’ su tutte le cose, perché… gli animali non sono cresciuti di valore, bensì con il passare degli anni sono diminuiti di valore e quindi… si è creata una situazione con più uscita che entrata, più spese che entrate».
- Ora vivi esclusivamente di montagna?
«Sì. Sì… più qualche soldo di pensione».
- Che prospettive hai per il futuro?
«Mah, ormai io… ormai prospettive… nessuna prospettiva. Vorrei tirare avanti l’azienda, sì, con la speranza che cambi, che cambi in meglio, come prima, sempre con la stessa speranza che cambi qualcosa in meglio».
- Spingerai tuo figlio a fare la tua stessa scelta?
«Beh… sì, se non ha un’alternativa migliore, lo spingerei a fare quello che ho fatto io. Per lo meno… è poco ma sopravvivi. Perché se non hai un lavoro, non hai uno stipendio, è inutile che lavori dieci giorni da una parte, tre mesi stai a spasso, poi rilavori due mesi… e che vita è? Allora tanto vale che tiri avanti così: è poco, ma con quel poco cerchi di sopravvivere».
Una restanza di seconda generazione. Diego Santoni, classe 1983, è molto legato al suo territorio d’origine. Ce la sta mettendo tutta per restare, ma il reddito e le condizioni di lavoro rendono molto faticosa questa scelta.
- Quali attività conduci in montagna?
«Io in montagna allevo bestiame e una parte della giornata la dedico al taglio del bosco. Purtroppo la vita in montagna è dura, per due motivi: il clima che non tutti i giorni ci permette di lavorare, e la fatica che facciamo con gli animali, con il lavoro del bosco, che non viene ripagata abbastanza per quello che diamo noi».
- Che progetto avevi?
«Io già da ragazzo… diciamo, da ragazzino ho fatto questo lavoro perché papà ha fatto solo questo, faceva solo l’allevatore e il commerciante di legna. Dopo con il passare degli anni forse… sfortunatamente o fortunatamente non lo so, ma non era nel mio progetto di vita, miravo ad altre cose, purtroppo non è andata come volevo e ho ripiegato nell’azienda di famiglia. Adesso mi trovo con una bella azienda, molto faticosa ma che porto avanti. Miro in alto, molto in alto, con la speranza di riuscire a farla diventare sempre più grande, di sopravviverci e soprattutto… portare uno stipendio a casa per fare stare bene la mia famiglia».
- Quali aspettative avevi?
«Le mie aspettative erano di far crescere l’azienda con… non con poco tempo, con il tempo che serviva, con il passare dei mesi e degli anni. Purtroppo, non è facile far crescere un’azienda così piccola. Ci vuole tempo, un pizzico di fortuna… soprattutto speravo e spero di non avere disgrazie, mi riferisco a mortalità, incidenti con i selvatici, lupi. Quando gli animali restano fuori in montagna anche se vengono seguiti tutti i giorni, anche più volte al giorno, ci sono dei momenti della giornata in cui restano soli e… la selvaggina attacca il branco, e di questa cosa ne risentono molto i piccoli, tipo agnellini, vitelli, puledri e capretti appena nati. Sono gli animali che vengono più colpiti nel branco».
- Quali problemi hai incontrato?
«I problemi che ho incontrato sono stati… allora, molti problemi li causano le leggi, che ci aiutano ma non so fino a che punto, perché chiedono molto, troppo a noi piccoli allevatori, perché ci paragonano a delle grandi aziende, e invece noi vivendo così in delle situazioni molto piccole abbiamo altre realtà. Non possiamo essere paragonati ad allevatori che hanno mille capi di bestiame, che hanno le attrezzature, le stalle… noi viviamo in montagna con delle baracche fatte da mio nonno e man mano mantenute. Non sono delle strutture che ci permettono di avere… ad esempio, una stalla di nuova generazione ha delle sale parto, delle sale mungitura… tutto questo nelle nostre piccole aziende non può essere fatto, non è cattiva volontà nostra, è impossibile, perché le strutture non ci permettono questa cosa. Non è facile arrivarci, dobbiamo avere o trattori o mezzi idonei, 4×4, jeep e fuoristrada, perché con delle vetture normali non si può arrivare sul posto di lavoro. Per portare la roba, diciamo, foraggio, mangimi per il bestiame, è sempre un sacrificio. Portare della merce per fare migliorie nell’azienda non è facile, perché ci vogliono i mezzi adatti, quindi paragonarci a delle aziende grandi… non trovo il nesso, ecco».
- Ora vivi esclusivamente di montagna?
«Sì. Adesso… vivo con l’allevamento e per una piccola parte con il commercio della legna, di mia proprietà».
- Che prospettive hai per il futuro?
«Mi piacerebbe fare una bella azienda, soprattutto allevamento di vacche allo stato brado e sono molto appassionato di equini, vorrei fare un piccolo allevamento, non dico un grande allevamento, ma un piccolo allevamento anche di cavalli, soprattutto cavalli pesanti da carne e da lavoro».
- Spingerai tuo figlio a fare la tua stessa scelta?
«Ad oggi… sarei un egoista a spingere mia figlia a fare la vita che faccio io, anche perché fare l’allevatore, come ripeto, ai miei livelli di piccola azienda sono solo tanti sacrifici, poche entrate e quindi… se spingessi mia figlia a fare il mio lavoro non farei il suo bene».
Un ritorno. Angelo Biagio Fornari, classe 1965, ha lasciato il paese quando, giovanissimo, si è arruolato nell’Esercito ed è stato destinato a Gorizia. Da qualche anno è tornato nelle sue montagne, dove sta cercando di creare un futuro per i figli.
- Quali attività conduci in montagna?
«Al contrario di mia moglie che si occupa del lavoro intellettuale che c’è dietro l’azienda, io mi concentro sulle attività manuali. Preparo i terreni per la semina e gestisco le colture. Il controllo deve essere assiduo, perché dalle nostre parti vige il pascolo brado. Ma anche per gli eventi climatici, che sono sempre più imprevedibili».
- Che progetto avevi?
«Volevo dare a mia moglie la possibilità di realizzare il progetto di Cooperativa sociale che aveva in mente. L’idea è nata dai nostri interessi e dalla nostra comune esperienza. Io sono nato qui, poi sono andato via rincorrendo il lavoro. Insieme a mia moglie abbiamo deciso di tornare perché riteniamo che questo territorio abbia un alto potenziale. Vorremmo realizzare il progetto utilizzando il nostro vissuto al Nord».
- Quali aspettative avevi?
«Per quanto riguarda le aspettative… beh, riuscire nel nostro progetto nonostante le mille difficoltà che stiamo incontrando».
- Quali problemi hai incontrato?
«Problemi logistici e burocratici. Qui stiamo senza corrente elettrica, senza copertura telefonica, la viabilità è sempre più carente, il pascolo brado e la fauna selvatica ci creano problemi alle colture. La burocrazia ci ruba troppo tempo e le amministrazioni non ci aiutano affatto. I problemi che incontriamo li dobbiamo fronteggiare sempre da soli».
- Ora vivi esclusivamente di montagna?
«No, se dovessi mantenermi solo con quest’attività sarebbe una vita di stenti e continue rinunce, soprattutto nel periodo invernale quando l’agricoltura in queste zone non dà reddito. Ho una famiglia sulle spalle e non me lo posso permettere. Nonostante il grande investimento di tempo e denaro, per ora la montagna rimane un’integrazione al reddito principale, sono un militare e presto servizio nella caserma di Rieti».
- Che prospettive hai per il futuro?
«Spero che qualcosa si muova, soprattutto in ambito comunale. Spero nella sinergia di amministratori e operatori, soltanto in quel modo si potrà avere sviluppo in questo territorio, meraviglioso ma assolutamente svantaggiato. Sarebbe sufficiente imitare le vicine Umbria e Abruzzo. Altrimenti tutti i nostri sforzi rischiano di essere vani, e dovremo andare via».
- Spingerai tuo figlio a fare la tua stessa scelta?
«No, non spingerei nessuno, lascerei la sua libera scelta, però bisogna considerare che questa zona è ancora vergine dal punto di vista delle attività imprenditoriali e soprattutto per le aziende del tipo multifunzionale. Roma, che non è lontana, costituisce un importante bacino di utenza. Riuscire ad avvicinare i romani alla nostra montagna equivarrebbe portare sviluppo, e portare sviluppo qua vorrebbe dire portare nuove opportunità di lavoro. Con quest’azienda vorrei anche dare una possibilità di futuro ai miei figli, ma non sarà facile riuscirci!».
Un nuovo approdo. Valentina Croci, classe 1973, è goriziana di origine e cultura. Da qualche anno è arrivata sulle montagne del Cicolano con la prospettiva di dare un futuro ai sui figli. In montagna ha avviato un’azienda agricola e ha aperto un agriturismo.
«La mia attività principale è la gestione logistica della nostra azienda agricola, scelgo le colture da seminare, soprattutto sulla base delle possibilità che la montagna ci offre. Coltiviamo patate, lenticchie, ceci e cicerchie. Gestisco anche l’attività agrituristica che ho avviato sull’altopiano di Rascino».
- Che progetto avevi?
«L’idea di creare una cooperativa sociale che includesse persone diversamente abili nel mondo dell’agricoltura, per dare loro una prospettiva di futuro, è stata alla base di tutto. Tutto è nato dall’esperienza di contatto che ho avuto con queste persone e dall’aver capito le difficoltà che solo chi queste persone le ha vissute o le vive può capire. Il tutto nasce quindi come un’ambizione, un sogno, soprattutto dopo il 2013 quando mi si è presentata la possibilità di gestire questa azienda».
- Quali aspettative avevi?
«La mia aspettativa era semplicemente quella di riuscire a realizzare il mio sogno, anche se non ho mai dato nulla per scontato e non mi aspettavo affatto fosse facile. Nonostante ciò non ho mai smesso di voler portare a termine questo mio “sogno”, lavorare con le persone diversamente abili presenti nel territorio, soprattutto con quelle che hanno problemi legati alla salute mentale».
- Quali problemi hai incontrato?
«Purtroppo molti, soprattutto logistici. Mancanza di energia elettrica e del telefono, problemi che sembrano giovare per quanto riguarda l’ambito “relax” che il territorio montano offre, ma che limita di molto le attività legate alle persone con quei disturbi. Un problema è rappresentato dalle questioni relative alla sicurezza».
- Ora vivi esclusivamente di montagna?
«No, la brevità della stagione operativa e il reddito che ne traggo non me lo consentirebbero. Quindi, nonostante l’avvio dell’attività agricola e agrituristica, ho dovuto continuare a muovermi nel mio campo lavorativo di laureata in infermieristica».
- Che prospettive hai per il futuro?
«Beh… mi augurerei che il comune e le altre amministrazioni locali si sensibilizzassero e finalmente capissero l’importanza del fornire servizi, anche solo minimi, a un territorio che ha enormi potenzialità, accresciute dalla vicinanza di Roma. C’è da dire che allo stato attuale, però, vedo tantissime difficoltà e resistenze. Sembra che i problemi che gente come noi pone agli enti pubblici preposti vengano ridicolizzati e non presi in considerazione».
- Spingerai tuo figlio a fare la tua stessa scelta?
«Non credo sia eticamente corretto spingere qualcuno a fare scelte riguardanti il suo futuro; ma mentirei se dicessi che non me lo auspico. Il mio auspicio non può prescindere, però, dalla speranza che qualche cosa cambi nelle stanze della politica locale, e non. Riconosco che questa strada ha ostacoli che sono fortemente demotivanti e l’aiuto, per quanto se ne dica, è nullo. Quindi no, non lo spingerei a fare questa scelta soprattutto se le condizioni rimangono quelle di adesso. Consiglierei fortemente ai miei figli questo percorso soltanto se la situazione generale subisse un netto balzo in avanti».
La possibilità di resistere in montagna, vivendo di montagna, sembra essere legata a un filo. Così, mentre la periferia va in secca il centro tracima; e la politica sta ancora a guardare!
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