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Dove i motori battono alla pesca. Ricordando Luigi Fiorentino

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2014 @ 00:20 In Città,Cultura | No Comments

Luigi Fiorentino

Luigi Fiorentino

di   G. Maria Pia Sammartano

Tre le tappe di una vita, tre i soggiorni dell’anima, la triade geografica che compendia simbolicamente la patria: Mazara, Siena, Trieste. Ma non meno dell’Italia hanno avuto significato la Grecia e la Spagna, quella misurata, intimistica, evocativa di Becquer e, la Galizia, in particolare, cara al suo cuore nostalgico di siciliano.Villaroel così lo descrisse: «…Mi soffermai a lungo a studiarlo per cogliere quel senso misterioso che rivela gli artisti e lo colsi nei suoi occhi: stranissimi occhi, grandi, di un castano ambrato, occhi di fanciullesca ingenuità e di maliziosa scaltrezza, sinceri e guardinghi, sognatori e freddi di volta in volta…Effusivo e abulico, volitivo e impetuoso a tratti…Pronto a confidare, prontissimo a diffidare. La sua bonomia è in rapporto alla bonomia altrui…».

home Lo stesso poeta sancì la sua identità geografica e umana in una delle più calde sue poesie: Dove i motori battono alla pesca/ insidiosa e il Mazaro ha la foce/ là io nacqui il 13 del ‘13 in Acquario e i contrasti amai/ e quanto scorre; aria, acqua, verde,/ il bianco che svapora nell’azzurro,/ i segni della razza; e ne conservo/ una palla di piombo stretta al piede;/ onore,orgoglio,orgoglio dell’onore./Con questo fuoco antico sono un uomo,/e nella moltitudine cammino.

Spirito indomito, fervente, appassionato, tenace a cui mai rinunciò e che rappresenta la cifra distintiva dell’uomo, dell’intellettuale a tutto tondo che fu saggista, critico letterario, docente, ma sopratutto poeta. Quando ho intervistato alcuni testimoni sulla figura di Fiorentino, essi mi interrogavano a loro volta chiedendomi: “Chi, il poeta?” Sì, perché egli veniva percepito tale, la fama era quello del poeta, nell’immaginario collettivo quest’aspetto rappresentava la straordinarietà, la eccezionalità nella vita di un uomo. Perché egli amò profondamente fin da giovanissimo la poesia, l’illusione suprema e superstite di fronte alla caduta delle altre, di foscoliana memoria. A quegli anni si ascrivono Italia Rinnovellata del ‘31, Giovinezza in fiore del ‘32, Fiamme dell’anima del ‘34, e un’antologia in quattro volumi Gli angoli della vita del ‘38, tutte stampate per i tipi di Grillo di Mazara. Si sente in quelle sillogi una versificazione encomiastico-patriottica, dell’ammiratore di D’Annunzio, della classicità formale e dell’era che viveva, eccessivamente legata alla tradizione e alle reminiscenze scolastiche. Colpisce, tuttavia, una presago manifesto poetico e umano nella premessa di Giovinezza in fiore nella quale si legge: «…dico che a costo di umiliazioni, di sacrifici, cercherò di ascendere, aggrappandomi disperatamente, la radiosa vetta del Parnaso, che è il sogno, la meta, la vita…».

In quegli anni frequentava il liceo classico a Trapani e successivamente la facoltà di Lettere classiche a Napoli dove conseguì la laurea all’età di 22 anni a pieni voti. Questo ordinario, ma non troppo per quei tempi, percorso scolastico fu attraversato per quasi tre anni non consecutivi da un’esperienza di insegnamento a Pantelleria che gli permise una certa indipendenza economica e un primaticcio apprendistato didattico.

Invece, a Molini di Triora, in provincia di Imperia, fu di stanza durante il secondo conflitto mondiale, come ufficiale di artiglieria meritevole anche di due croci di guerra. E lì, pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, fu catturato dai tedeschi e rischiò di essere fucilato con l’accusa di sabotaggio; rifiutandosi di collaborare venne deportato in diversi campi di concentramento di Polonia e di Germania: Przemysl (‘43), Alexidorf (‘43), Sandbostel (‘44), Posen (‘44), Demblin (‘44), Wietzendorf (‘45). La dolorosa e tragica marcia da lager a lager attraverso interminabili distese di neve, sotto l’incalzare dei sorveglianti tedeschi è rievocata nella “Ballata della neve” (dalla raccolta Cielo e pietra del ’57)

La neve.

          La fatica.

                           Lo sgomento.

La colonna già in marcia nella neve.

Il passo dentro la neve. La frusta

degli aguzzini: Los! Avanti, presto.

La landa senza termine, echeggiante.

E la fame di mesi sopra mesi.

Chi crollava era pietra sulla neve.

E los. Ancora los. E sempre los.

Andava la colonna nella neve.

Soldati a reggimenti, spettri squallidi

con la bocca cucita, nella neve,

e la fame, la fame, la stanchezza.

(“Addio, capitano”. “Madre, addio,

o argine fiorito alla mie pene”.

“Amata, amore, dolce amore, anima,

non m’attendere più. Ritorno a Dio,

e ho pugnali d’odio dentro gli occhi.

Ma se non posso, tu perdona il male.

La vita è nell’amore. Amore, addio”)

Andava la colonna, nella neve:

soldati a reggimenti, nella neve.

E la fame, la fame, il passo rotto,

il vento sulla neve, un’ala immensa,

il cielo solo neve. Los!

                                              In coda

lento avanzava il carro dei morenti.

Ma uomo di carattere non si piegò alla spietata oppressione nazista e si può dire che dominò la morte. Sarebbe bastato un cenno di adesione, anche insincera, per evitare la deportazione, ma non volle scendere a vili compromessi e preferì mettere a repentaglio la sua vita pur di non fare torto alla sua coscienza. Nei lugubri lager F., affamato, scarno, dolorante, pur respirando fango scriveva di avere l’anima tra le stelle:senza toccarmi passano procelle/ come la nube rapide; versi che culminano nella poderosa esclamazione: Uomini, ecco, io credo sempre in me! Il potere di concentrarsi dentro di sé, nel suo mondo ideale, di vivere dentro di sé e fuori del tempo esteriore è salvezza nei duri momenti della prigionia e della schiavitù.

E resistette fino all’estate del ’45, anno in cui venne rilasciato. Tornò in Italia e con la famiglia prese residenza a Siena, sua seconda patria. Qui nel ‘46, come per una volontà esorcistica dei fantasmi del passato, ripercorse elaborandola quella terribile e disumanizzante esperienza attraverso la pubblicazione di uno dei pochi suoi lavori in prosa Cavalli 8, uomini…, cronologicamente il primo e più vivo documento del dramma dei deportati nei campi di concentramento.

Appena due anni dopo, nel 1948, pubblicò la raccolta di poesie Scalata al cielo, quasi unanimemente considerata la svolta matura della sua poetica, la cui lettura ci permette di ricostruire le tappe di quel viaggio doloroso e della non-vita nei lager, quasi come fosse un diario. Aldo Capasso nella prefazione riconosce un buon livello di novità, ovvero di fedeltà al principio di «sintesi di modernità e di classicità», e la individua  nel gusto della lirica breve (che si rifà agli haiku giapponesi), nell’adozione di forme metriche aperte, nel verso-libero da pause e da rime forzate e nella predilezione dell’endecasillabo sciolto concedente fluidità espositiva al verso. Ma già nel 1946 il nostro Autore aveva fondato la rivista di Lettere e Arti “Ausonia” definita «aperta e succosa rivista italiana dei nostri tempi», la cui direzione, all’insegna della tenacia e della determinazione, terrà per 35 anni fino alla vigilia della morte. Da quelle pagine, nel primo numero del 1947, con piglio polemico e combattivo espose una propria poetica presentando un programma letterario, ovvero il manifesto dell’ausonismo e aprendo così un dibattito sulla letteratura contemporanea in Italia: tale corrente avrebbe voluto dare al Novecento un’arte intimamente italiana, espressione della nostra tradizione; si proponeva di essere «moderatrice e creatrice» e di fungere da «tessuto connettivo tra le varie scuole», propugnando un’attività artistica che assolvesse una funzione di elevazione e consolazione.

Da queste dichiarazioni di intenti si svilupperà un vivace confronto proprio in un momento cruciale per la rinascita non solo culturale del Paese; la stampa nazionale dell’epoca registrò interventi, adesioni e critiche che  Fiorentino lesse in chiave politico-sociale: «(…) la destra ci guarda un po’ esitante e tuttavia plaude; il centro non sa se convenga schierarsi apertamente con noi o osservare prudentemente come si mettono le cose; la sinistra, dove si sono trincerati gli ermetici o poeti dell’ “arzigogolo meschino” è decisamente contro di noi e finge di ignorarci». In una nota, intitolata “Chiarificazione”, Fiorentino puntualizzò la posizione non radicale della sua rivista, rivalutando i Montale, gli Ungaretti, «quando cessano di essere astratti».

Luigi Fiorentino con Salvatore Quasimodo-anni -'50

Luigi Fiorentino con Salvatore Quasimodo-anni -’50

Egli si collocava in una posizione post-ermetica più che antiermetica, cultore com’era della parola chiara, distesa, descrittiva; era decisamente contro il «trobar clou» contro «l’oscura parladura» contro l’inintellegibile, il cerebrale, l’astratto, l’inafferrabile volto della poesia; riaffermava la necessità di ritornare all’antico secondo il canone di A. Chenier  «su dei pensieri nuovi facciamo versi antichi». Ovvero «Ritornare all’antico non per ripetere vecchi e stantii schemi, ma per interpretare idee, fremiti, aneliti e sensibilità del nostro tempo». L’ausonismo dunque auspicava e propugnava un neoclassicismo adeguato ai tempi, una armoniosa sintesi di classicità e di moderno. Emerge dalle pagine di Ausonia un Fiorentino arguto, coraggioso, intellettualmente coriaceo, letterato a tutto tondo, appassionato conoscitore della letteratura italiana e straniera, traduttore sensibile e critico di notevole acume.

Contemporaneamente all’impegno della Rivista egli fondò, curò e diresse a Siena la casa editrice “Maia” che pubblicò opere di poesia, saggistica, teatro, critica letteraria, di artisti e intellettuali italiani e non.  Il periodo senese fu certamente il più fervido della multiforme attività di Fiorentino che intanto insegnava in quella città Storia della letteratura italiana alla Scuola di lingue e cultura italiana per stranieri, successivamente insegnerà lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana nelle università di Siena, Arezzo e Trieste.

Un’attività davvero frenetica e generosa se si pensa che all’impegno della docenza e di tutto ciò che già conosciamo, egli trovò il tempo anche per viaggi di studio e di conferenze in vari Paesi dell’ Europa e del Medio Oriente acquistando una fama anche oltre confine. Critici di vaglia come Falqui, Flora, Lipparini, Mayer, Biondolillo, Juan Jimenez, e tanti altri hanno scritto sulla sua produzione letteraria.

Gli furono conferiti diversi premi: Isola d’Elba, San Pellegrino, Chianciano, David, Sileno d’oro (per la sua produzione critica e storica) nel ‘64 insieme a S. Quasimodo che lo ricevette per la poesia, il diploma della Zagara d’Argento, che premiava i migliori nel più importante certame poetico della Sicilia, come riconoscimento dell’attività dell’artista eclettico,  e specificamente per la complessità umana del “contenuto”, per la tecnica moderna misurata e sobria. La quale gli permetteva di dare chiara voce a sentimenti che sono di tutti e che un po’ tutti vorrebbero esprimere, come dice il critico Patrasso.

È stata quasi certamente l’esperienza del dolore, della sofferenza, dell’ingiustizia, della lontananza, dell’impotenza a suggerire le sue poesie. Dopo Scalata al cielo pubblicherà Basalto del tuo corpo del ‘51, Basalto del ‘53, Cielo e pietra del ‘57, Sentimento di Grecia del ‘60 e Un fiume, un amore del ‘62 che è l’opera della piena maturità artistica. Nel ‘69 si chiude la sua esperienza poetica con la pubblicazione di Occhio rosso, occhio verde, ma non la sua attività di critico e studioso tant’è che tra il ‘64 e il ‘73 curò una Storia della letteratura italiana edita da Mursia in 7 volumi; e molte antologie anche per le scuole medie tra cui “La Sirenetta” e le “Nereidi” su cui molti giovani hanno studiato.

Si dedicò con successo ad appezzate traduzioni di poeti stranieri come Mallarmè, A. Chenier, Mistral, Gongora, Becquer, per citarne alcuni, ma da ricordare la sensibile e ben apprezzata traduzione degli undici idilli tra i più famosi del poeta siculo-greco, Teocrito. Moltissime sue opere sono state tradotte e divulgate in quasi tutti i Paesi d’Europa ed anche dell’Asia.

Trascorse gli ultimi anni della sua vita così interessante, ricca e impegnata a Trieste dove si era trasferito già dal 1979. La morte lo colse nel pieno del suo vigore fisico e intellettuale il 2 agosto dell’81, lasciando sì un vuoto e un rammarico per l’impulso che avrebbe potuto ancora dare alla vita culturale non solo italiana, ma, grama consolazione, una notorietà, un riconoscimento unanime per l’uomo, l’artista, lo studioso che era stato.

Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014

 

 

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