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Donne pastore. “In questo mondo” di Anna Kauber

1di Pietro Clemente

Questo film mi ha colpito. È un lungo documentario, di un’ora e mezzo, genere difficile, durata rischiosa, eppure, anche rivedendolo, lo guardo con stupore. Mi perdo nei paesaggi, nella fonosfera naturale dove i suoni sono belati e di campanelle, nei volti di agnelli appena nati, nei tramonti e nelle albe delle donne pastore, il cui ciclo vitale e produttivo è legato alla vita degli animali in modo vincolante, ma al tempo stesso vissuto con un senso di libertà.

Il film è fatto di tante storie che vanno dal Piemonte, dal Trentino e dal Veneto all’Italia centrale e meridionale fino alla Sardegna. Sono tutte storie di donne, di diverse età, che dedicano la loro vita alla pastorizia, soprattutto di pecore e capre, ma senza escludere bovini, maiali, galline, gatti, con la presenza di asini e muli, e con la compresenza complementare dei cani. Il film propone brevi racconti di pascolo, immagini del parto, della vita e della morte degli animali, alcune protagoniste ritornano più volte, altre hanno veloci apparizioni, portano un volto, una battuta che resta in mente, un corpo nella costellazione di questi racconti. Senza mai una voce fuori campo se non quelle dei testimoni, senza nessuna funzione didascalica o narrativa d’autore, se non, breve  e in tono minore, nei ringraziamenti e nei titoli di coda (“in nome di tante donne pastore”), senza nessuna colonna sonora se non lievissima nel finale, quasi per annunciarlo, questo insieme di mondi messo in sequenza è come l’evidenza di una polifonia, di un soggetto plurale (anche se non collettivo) fatto di volti diversi, e di animali diversi, di paesaggi che scorrono tra nord e sud, ma di storie accomunate da un investimento che prima assai che produttivo è di amore e di passione per un tipo di vita che viene vissuto come esperienza di libertà primaria, elementare.

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da In questo mondo di Anna Kauber

Ma per arrivare a questa polifonia era necessario che Anna Kauber passasse due anni della sua vita a girare per l’Italia, a vivere delle giornate con le donne pastore, tante donne, che non sarebbero mai riuscite tutte ad entrare nel film. Che sono ringraziate in una lunga lista finale. Ma era anche necessario che lo sguardo di Anna, la sua telecamera, riuscissero a dare il senso di quei mondi, della vita dentro i paesaggi, i ritmi del tempo atmosferico, quelli delle nascite e degli svezzamenti. È la sapienza nell’inquadrare i paesaggi, le nebbie, le rocce, i cieli, i tramonti, le erbe al vento, l’arrivo della pioggia e della neve, lo sguardo interrogativo di una pecora in primo piano verso la telecamera, che costruisce il film e si fa narrazione.

Per ogni immagine lo sguardo dello spettatore è attratto da piccoli eventi: il salto di un capretto, l’allattamento col biberon di un agnello, la comparsa di asino sull’uscio di una casa di montagna in pietra, di un vitello che vorrebbe mangiare più del giusto. Frammenti di vite vissute che fanno affollare alla memoria gli aspetti elementari della vita, lo stupore (forse Kant avrebbe detto “il sublime”, forse Croce “l’elementarmente umano”, concetti opposti ma che riusciamo a percepire insieme nel dialogo tra donne, animali e paesaggio) per la nascita, la tragedia della morte, la transustanziazione dell’animale amato che diventa cibo e che si dona attraverso il sacrificio.

Ho rivisto nelle immagini la pittura dell’800, da Courbet agli impressionisti, ho pensato a Leopardi e al suo Pastore errante per l’Asia, ho ripercorso ricordi di infanzia, come se Anna Kauber avesse saputo nella scelta delle inquadrature e del montaggio portare alla scena delle donne pastore il tributo della storia delle cultura e dell’arte che si è fermata a raccontare le donne e a raccontare il paesaggio. L’Angelus di Millet, sbeffeggiato dai surrealisti, porta il tributo del senso sacro che aleggia su queste vite elementari, L’Ave Maria a trasbordo di Serantini fa intuire la potenza suggestiva del colore bianco che Anna Kauber ci fa partecipare in straordinarie scene di grandi greggi in transito. Forse il sacro è piuttosto un’epica minore, l’epica delle piccole cose della vita. Quella che infine mi faceva pensare alle inquadratura di Eisenstein. Anna inquadra le donne protagoniste leggermente dal basso, talora in controluce, con frequenti primi piani, in posizioni plastiche, in cima ai rilievi. Sono loro attrici ed eroine di questa storia.

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da In questo mondo di Anna Kauber

La cultura di architetto del paesaggio e artista di Anna Kauber diventa cinema quasi spontaneamente. Così il racconto si connette ai tempi lunghi della storia umana, e al tempo stesso evoca delle nuove Giovanne d’Arco alla guida di eserciti di pecore e capre a perdita d’occhio, in moto verso il tramonto. Ma insieme sottolinea che queste donne pastore – poche nel mondo della statistica, tante da sorprendere in quello delle immagini consuete della società moderna – sono un fenomeno del tutto moderno, in cui c’è da un lato l’emancipazione dalla sudditanza maschile e familiare, che voleva la pastorizia mestiere da uomini, dall’altro la motorizzazione, i frigoriferi, la plastica, che abbonda nelle immagini della vita quotidiana in ovili spesso prodotti da una cultura del rattoppo.

Sono donne moderne, che fanno queste scelte antiche, che prima erano negate. Due pastore straniere in Umbria riflettono sulla vita e la morte, sui liquidi primordiali, sul sangue e il latte che si mescolano, e raccontano colpite dal fascino straordinario che possono vivere e rivivere. E che lo spettatore riconosce. Così nel moto costante e assiduo dei cani nella vita del gregge, nel loro collocarsi in posizione di guardia, nel loro correre e rispondere ai richiami, si sente la storia ripercorrere la storia dell’ominazione, segnata da questo rapporto mutuo e inseparabile di cooperazione vitale.

Quando ho visto il film la prima volta (dicembre 2019) ho scritto ad Anna:

 «Cara Anna,
il tuo film mi ha sorpreso, mi ha anche affascinato. Mi ha sorpreso perché mi aspettavo qualche cosa sulla pastorizia fatta dalle donne, ma comunque sulla pastorizia. A mio avviso questo tema per te è in un certo senso subordinato a quello che a me è apparso il tema dominante: il nesso donne e allevamento, donne e cura, donne e gestione della vita. Credo che questo nesso sia l’universale che tu dicevi. La pastorizia è una forma storica di produzione, in molti contesti conflittuale e invasiva. Ovunque i pastori sono stati in guerra con gli agricoltori. Nella Sardegna del 900 la pastorizia era cosa da maschi, comportava tutta l’etica dell’onore e della vendetta. Ora la pastorizia sarda non è più così, ma è in crisi di sovraproduzione, ci sono milioni di capi.
Niente di questo nel film. Il mercato non appare, il formaggio solo in una scena. Da subito ci si abitua a vedere paesaggi, animali, e donne che raccontano la loro vita (più che la loro pastorizia). In questo senso il film non è etnografico (anche se l’uso del video è piuttosto etnografico) ma antropologico in senso generale: sulla fondazione della vita, sul sacro della vita, sulla nascita e sulla morte, sulle donne e il loro ruolo nel gestire la vita……
Certo le storie sono storie attuali, controcorrente, ma il loro intreccio nelle tue immagini configura un backstage della modernità, minoritario ma consistente nel quale appare un’altra modalità della vita, del tempo, dei sessi, delle generazioni.
Una delle cose che mi hanno colpito è che in un contesto ripetitivo di pratiche di allevamento sei riuscita a trasformare in evento tanti piccoli dettagli, il belato di un agnello, la comparsa di un cinghiale, i salti dei piccoli capretti, un parto volante e una morte nascosta ma presente. Qui tra i colori dei paesaggi e la presenza forte della vita degli animali hai saputo collocare delle figure femminili straordinarie, capaci di narrare emozioni, sentimenti, di usare l’ironia, figure al confine del mito: narratrici, donne quasi mascoline, esperte e forti, streghe, fate, pastorelle, storie che per lo più vengono dai margini e vanno verso nuovi centri possibili. L’alleanza dei viventi, come utopia che passa però per una fase in cui sono le donne a gestire la vita della natura.
Nella tua ricerca avrai trovato tante storie che non sono confluite nel film, ma solo nella sua poetica. Io sono impegnato da un pò sui temi delle zone interne, del ‘Riabitare l’Italia’. Seguo una sezione della rivista Dialoghi mediterranei, dedicata al tema “Il centro in periferia”. Mi piacerebbe scrivere qualcosa su questa rivista, potrei anche mettere qualche breve biografia di donne pastore, e anche tu potresti scrivere e raccontare…..»
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da In questo mondo di Anna Kauber

E quel che sto scrivendo è una specie di attuazione di questa idea. Cosa posso aggiungere alla lettera di allora? Forse che il film è girato con una tecnica che è quella della scuola francese dell’antropologia visiva. In cui si lascia parlare col suo linguaggio il mondo documentato, si mostrano dal davanti gli arrivi delle greggi, si seguono le loro partenze dalla spalle, si inquadrano gli spazi in cui si muovono le protagoniste, se sono loro ad avere la parola.

In un certo senso in alcune frasi delle donne pastore è riposta una possibile filosofia di questo lungometraggio che Anna Kauber ha voluto chiamare anche qui con un titolo sotto tono In questo mondo, quasi in contrasto con la sorpresa di un mondo così eccentrico dalla nostre vite e così imbricato nelle nostre memorie singolari e di genere umano («Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, /di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia», Amleto).

Una che dice che gli uomini fanno diventare nervose le pecore, e che gli animali vogliono essere amati, ed è così, in cambio di amore, che danno il latte e si fanno accudire, per il bene e la vita di entrambi. E che questo è proprio delle donne.

Un’altra dice che la sua vocazione profonda e negata nell’infanzia era quella di vivere senza stare fissa in un luogo, traversando i campi e le valli, e che questa vita era negata alle donne.

Qualche donna racconta di essere arrivata alla campagna solo dopo avere sperimentato la vita del lavoro contemporaneo in città, in qualche centrale telefonica, nel precariato. Di avere ritrovato così il senso della vita perduto.

Qualcuna di non avere interesse al denaro, ai soldi, che condizionano la vita, e di volere una vita bella anche se faticosa e lontana.

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da In questo mondo di Anna Kauber

Molte donne raccontano di avere combattuto contro padri, mariti e figli, per poter avere la libertà di dedicarsi alla vita con gli animali, alla vita della pastorizia.

Una violinista turbata dall’esperienza del professionismo e della competizione nel mondo della musica racconta di essere stata salvata dal suo gregge, e suona brani classici tra le pecore che si fermano stupite.

Il silenzio governa lo spazio sonoro del film, dal silenzio emergono i suoni, i richiami agli animali, le voci delle protagoniste, il silenzio del paesaggio dove – come ci vien detto – la parola più importante la dice il vento.

Grandi greggi di centinaia di pecore bianche governate da una donna, da poche persone, con i cani e i richiami, capre, oche, un lama, un cinghiale che compare come un evento nello spazio silenzioso del pascolo subito attaccato e cacciato via dai cani, uno spazio marginale, che sentiamo importante. Tutto questo si è iscritto nella telecamera di Anna Kauber e ha colpito lo spettatore, o almeno, me, spettatore.

Si può parlare di resistenza del mondo agro-pastorale, di spirito non produttivistico, di sviluppo sostenibile, ma fondamentalmente c’è il messaggio più profondo che dice «In questo mondo ci sono queste donne, che mostrano un’altra vita».

Se c’è un messaggio risposto è quello di una sorta di Arca di Noè, conquistata dalle donne, che cerca di portarci verso una salvezza difficile, un nuovo approdo forse solo intuibile.

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da In questo mondo di Anna Kauber

Gli altri scritti

È a partire da questo film di Anna Kauber che ho chiesto a Sandro Pieroni, che si è occupato di sviluppo e anche della pastorizia in Garfagnana, di scrivere il suo contributo, e ho chiesto a Claudio Rosati di scrivere sull’esperienza pistoiese di Gabriella e Stefania Michelotti, ed ho chiesto ad Angela Saba, il cui racconto di vita avevo ascoltato alla presentazione fiorentina del film di Anna Kauber di raccontarsi sottraendo un po’ di tempo alla sua intensa attività nell’azienda pastorale di origine sarda in provincia di Grosseto.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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