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Diario di un antropologo insonne e bricoleur

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2018 @ 00:39 In Cultura,Società | No Comments

 Passeggiando tra i libri (ph. Montes).

Passeggiando tra i libri (ph. Montes)

di Stefano Montes

Scrivo, scrivo per non dimenticare, scrivo per decentrare il mio punto di vista, scrivo per registrare fatti e interazioni. Scrivo, se capita, anche per mettere in scena un malessere e tentare di superarlo grazie alle virtù terapeutiche della scrittura. A volte, i miei appunti si trasformano in veri e propri testi, molto più lunghi, con citazioni estese e una vera e propria ‘conclusione’; a volte, rimangono nel mio archivio in attesa di una rilettura e completamento. Così ho fatto per anni, così continuerò forse a fare in seguito. Chi può saperlo? Seguo i miei umori. Mi chiedo, tuttavia, già da qualche tempo, cosa vuol dire completare o completamento? Mi chiedo ancora: non dovrei privilegiare maggiormente – nella mia veste di antropologo bricoleur – la contingenza e il flusso degli eventi, più che le forme di netta discontinuità che accompagnano alcuni testi? Mi interrogo perplesso: non vuol forse dire ‘completare’ che qualcosa ha un inizio e una fine, così come una parte e una sua possibile integrazione? E la vita è effettivamente così schematica e stereotipata oppure è altro ancora?

Non so dare una risposta bell’e pronta, preconfezionata e articolata per il lettore, ma ho deciso di cominciare a riflettere in maniera più marcata sulla questione – si potrebbe parlare di aspettualizzazione e indessicalizzazione dell’esistenza – contravvenendo proprio a un principio prestabilito di completamento, a cui purtroppo, negli anni, ci si abitua e ci si adatta per ragioni accademiche. Ho deciso dunque di selezionare dal mio archivio queste cinque note diaristiche con un intento diverso dal solito: accostare questioni e momenti diversi della mia vita il cui fondamento, più che un principio di completamento in sé, separatamente, è piuttosto un fluido rimando dall’uno all’altro, da un frammento di vita all’altra, da uno spunto di scrittura a un rinvio fotografico. I cinque brevi contrappunti sono i seguenti: I. La sospensione; II. Sulla migrazione come diversione; III. Capita di dormire poco a volte; IV. Se solo sapessi chi sono; V. Grattarsi e pensatività. Più che per una linea di coerenza sequenziale prestabilita, con inizio e fine in compartimentazione stagna, i cinque testi sono stati in effetti selezionati per il liquido contrappunto che creano tra loro e il rimando dissonante che fanno scattare.

Amo la musica e ne sono influenzato anche quando dovrei pensare unicamente da antropologo: anche questo, quali che siano le conseguenze, è un contrappunto di cui non posso fare a meno. Perché dovrei, d’altronde? Considero, quindi, questi testi da me assemblati una sorta di contrappunto musicale – un bricolage – su questioni a me concettualmente care, nonché su scrittura e foto necessarie al dire e al fare individuale e collettivo. Li affido al lettore potenziale, sperando in una replica su questioni forse da me fin troppo ibridate, forse fin troppo percorse da antropologia e semiotica, foto e scrittura, scansione temporale e spaziale, pianificazione e casualità, vulnerabilità e migrazione, flussi di pensiero e corporeità. Così però piace a me. Così penso che la vita sia: ibridata. Se dovessi rivelare al lettore uno dei principi di scelta che ha prevalso senza che io me ne rendessi effettivamente conto prima, direi adesso: la notte e il risveglio. Nonostante siano contrappuntistici, i cinque testi hanno infatti a che vedere con questo basso continuo che è talvolta, per me, il malessere notturno e il risveglio irrequieto. Così mi sembra. Così intendo essere: più un bricoleur che un ingegnere.

Scrittura come fuori tempo (ph. Montes)

Scrittura come fuori tempo (ph. Montes)

I. La sospensione (Isola del Principe Edoardo, Canada 2013)

Ringalluzzito dopo un cappuccino, dopo una notte di sonno profondo, dopo una breve visita esplorativa nei dintorni, dopo una bella chiacchierata al bar con i locali, dopo aver capito dove si sarebbe esattamente svolto il powwow dei micmac, dopo aver smaltito la sbornia di un viaggio in auto di ben quindici ore, dopo aver pensato al da farsi, dopo aver piacevolmente cazzeggiato con i bimbi, dopo aver capito che rimane ancora qualcosa sul conto in banca in Italia e non sono del tutto al verde, dopo aver armeggiato con macchine fotografiche e strumenti vari, dopo aver trascritto la giornata di ieri su quel quadernetto verde che mi porto immancabilmente appresso nella tasca posteriore dei jeans, dopo aver pensato al tempo nuer in quanto “relazione tra le attività” (Evans-Pritchard 1975: 149) e irragionevolmente creduto di poterlo vivere anch’io in Canada, a tratti e a scivolo, dopo aver finto sorpresa per la foto di Licia all’uscita del bar, dopo aver assunto una posa nella quale non mi riconosco a distanza di cinque anni, dopo aver detto ‘e dai scatta non ne posso più di trattenere il fiato!’, dopo averlo reiterato con un ‘che aspetti, dai scatta che mi sento appeso a un filo e persino a un’intera ragnatela!’, dopo aver capito con rammarico che forse sarebbe piovuto all’Isola del Principe Edoardo, dopo avere riflettuto sul fatto che posseggo ancora quella maglietta verde acqua alla quale sono così affezionato (e non so nemmeno perché l’amo così tanto), dopo aver capito con dispiacere che ho perso quell’occhialino a cui tenevo tanto, quell’occhialino così bizzarro che tenevo appeso tutto il tempo alla base del collo, che avevo comprato a Tallinn, che mi ricordava la postazione dove andavo a lavorare tutti i pomeriggi, che rievocava le passeggiate mattutine per accompagnare Mattia a scuola sotto la neve che tutto ovatta, persino i sensi, ovatta quel silenzio straniante che impedisce di pensare, che costringe alla resa di ogni presunzione di superiorità sulla natura, dopo aver riportato alla mente che l’uomo è un «animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» (Geertz 1988: 11) e che può districarsi però, persino decentrarsi se vuole e si confronta con l’alterità, dopo aver capito che il tempo passa nonostante gli strenui tentativi di blocco immagine, dopo aver capito che va bene lo stesso, va bene così, va bene ancora oggi, a Palermo, tra attività disseminate nel passato e riconvertite in azione presente grazie a una foto rivista per caso, va bene aver capito che non sempre è essenziale cercare di capire tutto, va bene non imporsi al tempo vissuto, va bene non imporsi alla presenza costante di se stessi nei luoghi che ci accolgono, va bene così, così voglio che sia il presente, così vorrei che fosse a Palermo con un pizzico di passato, così vorrei che fosse mentre invece piove adesso e «avrei preferenza di no» (Melville 1991: 12) e ripenso a tutto questo sussurrando ‘chi se lo aspettava in piena estate!’ tra me e me, concordando sul principio secondo cui «an exploration of anthropology’s ways of seeing opens up the questions concerning knowledge, technique and form at the heart of the anthropological project itself» (Grimshaw 2001: 172), così vorrei che fosse dopo aver ragionato a scivolo sul principio che potremmo essere «finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci» (Wittgenstein 1967: 65), che forse un po’ di attrito non guasta dopotutto, nonostante io mi senta adesso fluido come acqua, leggero come bollicine, che forse quella di Wittgenstein è soltanto una metafora per affermare il bisogno di lavorare sulla quotidianità e la prossimità, sull’ordinario e non ideale, sull’esistenza vissuta e recuperata in testo, dopo essermi soffermato sulle belle simmetrie verticali della foto di Licia, dico che è tardi, dico che è ora di tornare, dico che ha finalmente smesso di piovere, che posso rischiare, tutt’al più posso scivolare, in fondo che ben venga, scivolare ha i suoi vantaggi, che ben venga il caso sotto forma di scivolo, tanto «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147), meglio farsene una ragione, ecco lo sapevo, sono appena uscito e una «nuvola scivola sul disco del sole» (Tranströmer 2008: 88), si metterà a piovere di nuovo a Palermo, poco importa, mi piazzo da qualche altra parte, al riparo, mi rimetto a scrivere, certo, forse è il caso di insistere sui modi di vedere il quotidiano da parte di un antropologo, che arrivi imperativamente la pioggia allora, che venga pure, male che vada mi metterò a scivolare con intento, tanto è risaputo che «lo scivolare via da noi stessi non solo è ciò che rende possibile scrivere ma è lo scrivere» (Taussig 2005: 70).

E allora scivolo, scivolo pure da me stesso, gustando la magia del ‘dopo’, anche a Palermo, anche oggi, riguardando la foto scattata da Licia in Canada, persino in una così brutta giornata di pioggia, nonostante il caldo afoso, nonostante che i progetti riappariranno come sempre, che i piani di vita ritorneranno a farsi presente con forza, a cercare di scalzare l’incantesimo del vivere in magica sospensione, a cercare di opporsi al fluido divenire di cui intendo almeno godere, se non altro in questo stesso momento in cui lo dico, lo scrivo, lo sento.

E altro ancora (ph. Montes).

E altro ancora (ph. Montes)

II. Sulla migrazione come diversione (Palermo, Italia 2018)

Sono sul marciapiede, il Teatro Massimo alle spalle, le gambe allungate, incrociate davanti. È una delle mie solite serate insonni. Sono tuttavia sereno, in lieve osservazione di ciò che succede sotto i miei occhi. Sono qui da un po’. Non partecipo, semmai osservo, in disparte, quasi invisibile, come vorrei essere a me stesso e agli altri. Il flusso di persone che mi scivola davanti mi rende più ricettivo, disteso e incline a scribacchiare qualcosa per rilassarmi, altresì propenso a scattare qualche foto per il piacere. Ho una matita, un quadernetto, una macchina fotografica. Cosa chiedo di meglio? Cosa vorrei di più? Il flusso calmo di persone mi rende ben disposto a pensare senza costrizioni di sorta, senza imposizione alcuna. Che bella fortuna, penso! Posso lasciarmi andare all’arena agentiva e cognitiva che mi compenetra. È tardi, c’è un bel movimento lento di persone per strada, l’atmosfera è favorevole a consentirmi di sgusciare dalla tana solita del mio Ego, per pensare a casaccio, come meglio credono i miei flussi accreditati di coscienza, nel disordine di quello che sento come un altrove nostrano non ingabbiato dalle usuali convenzioni accademiche. I pensieri volano, io li lascio volare. E via! Un pensiero torna e ritorna, da qualche giorno, nella mia mente. Nonostante io lo tenga a bada, si ripresenta di continuo: si ripresenta adesso, nuovamente. Qualche giorno fa sono infatti capitato per caso ai Quattro Canti di Palermo proprio mentre un artista di strada stava per terminare il suo lavoro su uno di quei grandi blocchi di cemento, squadrati e pesanti, che bloccano il passaggio alle auto nel centro di Palermo. In alto, sul blocco di cemento si legge killing tomatoes. Il fucile non è puntato sui pomodori ma su un ragazzo di colore, piegato in avanti, che riceve la pallottola in pieno dorso, alle spalle. Il riferimento è chiaro: un tragico avvenimento di cronaca. Si è formato, in pochi minuti, un denso capannello di spettatori: qualcuno ha espresso in silenzio il suo punto di vista favorevole sulla questione, qualche altro ha pure intervistato l’artista, io ho scattato diverse foto, mi sono tenuto in disparte. Ora, seduto sul marciapiede, ci ripenso ed esito. Ci torno su? La scrittura ha sovente una funzione catartica, può essere utile anche a me stesso, per liberarmene. Potrei scriverci, mostrare la foto scattata mentre l’artista era al lavoro, approfittarne per parlare di una corrente di antropologia che prediligo: quella dialogica. Non soltanto. Potrei parlare del valore dell’arte di strada in quanto forma di comunicazione culturale, resistenza e manifestazione di libertà espressiva; si tratterebbe, nondimeno, di discutere alcune frasi che ho ascoltato per caso, proferite, con mia indispettita sorpresa, da due individui che manifestavano il loro dissenso sul lavoro compiuto dall’artista di strada. Loro confabulavano fittamente, proprio accanto a me, alla mia sinistra; uno ha detto all’altro: «e se succedesse a noi, lui, l’artista di strada, farebbe la stessa cosa?».

Per scivolare via (ph. Montes).

Per scivolare via (ph. Montes)

Mi chiedo adesso a chi si riferiva, questo individuo, con un presupposto Noi? Io non ho nessuna inclinazione a includermi in questo Noi concepito dai due amici come omogeneo e compatto. Mi chiedo, infatti, perché parlare – come succede spesso – in termini di opposizione netta tra un Noi e un Loro ipotetici, idealizzati e scollati dalla più fluida realtà? Io propenderei, piuttosto, per posizionamenti smussati di appartenenza collettiva di individui che dovrebbero comunque sempre mettersi, per comprendere se stessi e gli altri, nella pelle dell’altro, vicino o lontano che sia. La categoria Noi/Loro viene invece utilizzata in molti casi in modo distorto e articolata, ingenuamente, per opposizioni rigide, non smussate da un pensiero sull’Altro che dovrebbe semmai essere fondato su un senso diffuso di solidarietà. Mi piace, qui, ricordare Ricœur. A proposito di traduzione linguistica – ma vale a mio parere per l’alterità e la categoria Noi/Loro nel suo complesso – Ricœur parlava di ospitalità «ove al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero» (Ricœur 2001: 50). Abitare e ricevere, ospitare e accogliere! Io sono seduto sul marciapiede, ho soltanto una matita in mano. Penso ad altri saggi importanti di Ricœur sul valore del dialogo interindividuale che sono stati, per me, forse persino più formativi delle pur belle formulazioni antropologiche. Penso al fatto che la migrazione, quella costretta e disperata, è il risultato di una serie di cause ed effetti sovente poco presenti nelle menti di tutti: la guerra, nella maggior parte dei casi, provoca piccole e grandi diaspore; la guerra è spesso il risultato dell’avidità e menefreghismo di coloro i quali fabbricano e vendono armi; l’Africa, continente da cui provengono molti migranti, è ancora sotto il controllo e l’ingerenza di Paesi occidentali che ne sfruttano le risorse e si trasformano in soggetti produttori di nuove forme di neocolonialismo; la diseguale distribuzione della ricchezza, non ultima, genera una povertà spaventosa che, oltre a essere eticamente ingiusta in sé, è spesso il risultato di manipolazioni mafiose internazionali e decisamente illegali.

In una parola, la migrazione disperata alla quale assistiamo oggi non è che l’ultimo stadio di una serie di cause nefaste e manipolatorie – un vero e proprio sistema di sfruttamento, talvolta supportato dalle multinazionali mondiali – che dovremmo combattere sistematicamente a livello mondiale. Qualcuno ha detto che, più che aprire i porti, si dovrebbero aprire gli aeroporti: chi ha abbastanza soldi, infatti, non affronta certo il viaggio in mare per venire in Europa, su gommoni in cui rischia la vita. Sono del tutto d’accordo: oltre ad aprire gli aeroporti dovremmo però, in parallelo, riaprire – per riconcepirli – i flussi di una più equa distribuzione della ricchezza. Come ho già scritto in passato, non si tratta soltanto di aprire i porti per salvare coloro i quali rischiano la loro vita in mare; si tratta, soprattutto, di porre sotto l’attenzione del pubblico la vita di miseria che fanno i migranti una volta arrivati alla meno peggio in Italia, costretti a raccogliere pomodori per pochi soldi, sfruttati e persino uccisi. E quindi? Che fare? Certo, penso che dovremmo indossare le magliette rosse come forma di protesta. Penso che dovremmo continuare a fare arte di strada per manifestare contro le ingiustizie. Penso che dovremmo salvare quanti più possibili esseri umani in mare e mostrare la nostra solidarietà a chi rischia la vita in fuga da guerre e iniquità. Penso, ancora, che dovremmo smontare gli slogan, inutili e puramente propagandistici, di chi sta al governo adesso e chiude i porti (senza però dimenticare che anche il governo precedente non era da meno, con gli accordi presi per bloccare i ‘disperati’ nei centri di detenzione nordafricani). Insomma, penso che dovremmo essere contro, fermamente contro e protestare contro un sistema di iniquità. Penso tuttavia, più di tutto, che non dovremmo dimenticare che il problema va posto alla radice, quindi non soltanto negli effetti, nella migrazione disperata: la fabbricazione e la vendita di armi, le nuove forme di neocolonialismo, l’egemonia americana e di poche altre grandi nazioni, l’assenza di solidarietà di gran parte della Comunità europea (e non solo dell’attuale governo italiano), etc.

Io penso tutto questo e dico a me stesso che dovrei scriverci: vorrei farlo facendo esteso riferimento all’antropologia dialogica, a Paul Ricœur, alla semiotica della cultura di Lotman, all’esistenzialismo di A. Piette e M. Jackson. Penso che dovrei farlo, ma non me la sento stasera, con una semplice matita in mano e con la voglia di alleggerire il peso dell’essere che mi prende ora come non mai. Mi ripropongo di farlo a breve, magari in un intervento più articolato, meno mosso da emozioni e flussi di coscienza disordinati. E, mentre me lo ripropongo, penso che ero soprattutto venuto qui, in piazza, sul marciapiede antistante il Teatro Massimo, con un proposito di fondo: rilassarmi e riflettere magari sulla scrittura, sulla scrittura come forma di distrazione, come strumento per non pensare a niente in particolare ed essere altro da sé, al di fuori dalle costrizioni e imposizioni. E, così, mi chiedo: si può esserlo veramente? Si può effettivamente essere fuori dalle costrizioni e imposizioni, dall’utilitarismo spinto a oltranza, dall’urgenza di una società consumistica? Mentre i miei pensieri battono in ritirata davanti all’interrogazione, alcuni ragazzi si siedono proprio davanti a me, davanti alla mia mano rivolta in basso, con la matita tra le dita. Si abbracciano. E allora scatto la foto. Forse, rifletto, la scena a cui assisto vuole essere una risposta al mio senso di pesantezza e inadeguatezza, al mio eccesso di ponderazione: i due ragazzi si abbracciano e sono felici. E io penso di esserlo altrettanto, se non altro per un momento: quel momento che mi ha consentito di fissare la scena.

Sul marciapiede (ph. Montes

Sul marciapiede (ph. Montes)

III. Capita di dormire poco a volte (Palermo, Italia 2018)

Mi sono alzato presto stamane, ho dato un’occhiata al notiziario, mi sono angosciato. Sono stato a trovare mia madre che non ci sta più con la testa, ho parlato con lei, sono addolorato, richiuso in me stesso. Mi sono messo al computer, ho cercato di terminare un articolo sul clima, rattristato, ho smesso di tentare, mi sono risolto a fare altro, crucciato e ferito. Va addebitato alla notte, il mio stato, sì proprio alla notte, almeno così vorrei che fosse: il mio malessere insistente, la contingenza dell’amarezza, l’affondo affliggente del presente incalzante sono frutto della nerezza del nero della notte scura. È vero, ho dormito male, ho dormito poco: il caldo premeva incessante sulle mie tempie pulsanti, tant’è che sono tuttora contrariato e non so ancora che fare se non pensare alla notte insonne, desta di pensieri sonnambuli e ballerini. Come comportarsi? Come reagire? Mesto e madido, stanotte ho preso dal mio comodino il primo libro che mi è capitato tra le mani, ho riletto qualche pagina in cui il protagonista – uno studente – dice: «Devi dimenticarti di sperare, di intraprendere, di riuscire, di perseverare» (Perec 2009: 56). Mi sono allora amareggiato, l’ho rimesso al posto, ho rimuginato e rimestato nella corrente di sogni e aspettative in sospensione. Ho riflettuto sulla situazione politica, ho pensato ai miei studenti, alle prospettive di lavoro, non ci ho cavato un ragno dal buco, mi sono ancora più immalinconito, ho arginato il compiersi dell’avvenire.

Per darmi un contegno, più che altro per circoscrivere l’immaginazione ambulante, mi sono messo a passeggiare per casa, finché, nel silenzio della notte, mi sono ritrovato al cospetto di John Lennon, ai libri di Beck sul potere e contropotere; stanco di passeggiare, a quel punto, ho deciso di riprendere il libro di Perec tra le mani. L’ho ripreso, l’ho sfogliato andando a ritroso, poi avanti e indietro, come faccio sempre quando sono amareggiato e vorrei liberarmi della ridondanza della contingenza dell’essere: un essere che non può che trovarsi, nonostante non lo voglia, sempre da qualche parte con la testa greve, col corpo pesante. Mi sono soffermato su una pagina, riletta tante volte, in cui si parla di vita moderna. Si legge: «intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i grandi progetti, l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte, l’uomo che guarda dritto davanti a sé. Sguardo limpido, mento volitivo, andatura sicura, pancia in dentro. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi tracciano il cammino troppo limpido di una vita troppo esemplare» (Perec 2009: 27). Lo studente in questione decide di intraprendere il cammino opposto a quello già delineato per lui: decide di sottrarsi ai grandi progetti sovente inutili, all’orizzonte prospettato come piano d’azione già previsto e ineludibile, alle costrizioni imposte dalla società e automaticamente accettate. Deliberatamente, lo studente decide di azzerare il senso delle proprie azioni, dei propri progetti, persino della propria vita finalizzata a scopi precisi. La storia del libro è la storia di questo tentativo per molti aspetti impossibile, comunque molto difficile se mai propriamente realizzabile. È mai possibile, infatti, azzerare totalmente il senso di alcunché?

Ci penso da molto, leggendo tanta antropologia, tanta semiotica, e non credo sia possibile fare a meno del senso. Quale via di fuga rimane, dunque, se in qualche modo il senso lascia comunque tracce inevitabili sulle nostre vite? Io amo questo testo di Perec, io amo vivere. Amo vivere e azzerarmi allo stesso tempo? Al contrario dello studente, anche quando ho tentato, non sono mai riuscito ad azzerarmi: né con la meditazione in passato, né con il privilegio dell’irruzione del disordine nel presente. Forse non lo voglio veramente. E forse non credo che sia effettivamente possibile – nemmeno per un eremita, in ogni caso alle prese con il proprio tentativo di illuminazione – sottrarsi del tutto a un minimo barlume di socialità condivisa. Da parte mia, se fosse possibile farlo con un colpo di bacchetta magica, se io fossi il leader di un partito politico, mi piacerebbe sottrarmi a un modello di socialità basato sul conflitto e profitto e proporrei, una volta per tutte, l’alternativa fondata sul modello della cooperazione e solidarietà. Mi piacerebbe illustrarne i vantaggi, se fossi il leader di un partito politico, se io avessi comunque un certo ascendente sugli altri. Non sono il leader di un partito politico, non ci tengo ad esserlo per tante ragioni, così come non ci tengo ad avere ascendente su nessuno, nemmeno su me stesso.

Nella rarefazione del momento (ph. Montes).

Nella rarefazione del momento (ph. Montes)

Nel proseguo della notte, da buon antropologo, ho comunque ripensato a Mauss e ho pure cercato il suo testo classico sulla questione del dono; nel disordine dei miei libri, tuttavia, sempre in movimento da una parte e dall’altra della casa, non sono riuscito a trovarlo. Che strano! Il caso ci avrà messo lo zampino, mi sono detto: forse devo concentrarmi – lasciarmi andare – su qualcosa di diverso dal mio solito, qualcosa di diverso dai miei battuti testi di antropologia. Mi sono quindi messo a leggere, per qualche tempo, spizzichi di Autobiografia di uno spaventapasseri di Cyrulnik. Del tutto sveglio, poi, ho deciso di alternare le letture dei testi di Perec e di Cyrulnik, proprio come faccio quando non voglio pensare a niente in particolare, passando da un testo all’altro, a scatti, talvolta accelerando, senza una logica precisa, prestabilita, lasciando – come scrive Cage a proposito della sua musica e composizione – intervenire il caso: di fatto, «non facendo niente, si fa tutto» (Cage 2012: 55). Infine, ancora tutto contrito, ormai abbandonato al caso, mi sono messo ad ascoltare quel fantastico pezzo, Sultans of swing dei Dire Straits, riarrangiato da tre chitarristi che suonano magnificamente insieme pur non potendo essere più diversi l’uno dall’altro: uno suona la chitarra classica con le dita, l’altro fa del finger-picking su una chitarra acustica e il terzo suona una chitarra elettrica con il plettro. Eppure, ascoltandoli, ho pensato: questo è davvero un bel modello della cooperazione, della sintonia e del dialogo. Sono molto diversi, loro, eppure fanno insieme una musica – all’unisono – che meglio di così non si potrebbe. E, mentre pensavo a tutto questo, guardando al contempo i gesti buffi e simpatici che si fanno i tre chitarristi per meglio dialogare tra loro con i loro strumenti, sono arrivato a quella splendida parte del pezzo in cui i musicisti si rimandano l’uno all’altro, da un assolo all’altro. Lì, con la pelle d’oca, mi sono detto: se dovessi scegliere come iniziare la mia giornata domattina, per sentirmi sollevato da ogni fardello e costrizione, vorrei che avvenisse con questi rimandi di assolo al tempo stesso improvvisati e ben congegnati. Che brivido!

Al mattino, come ho già anticipato al principio, ho però dimenticato i buoni propositi e il fardello del vivere ha preso il sopravvento sul resto, finché, per uno strano e quasi inverosimile caso, ho sentito mio figlio Mattia suonare proprio il pezzo dei Dire Straits dalla sua stanza e mi è ritornato il mente il proposito. E i buoni propositi – come forse vuole dire lo stesso Perec con la sua irriverente storia sullo studente in cerca di azzeramento di senso – se non sono costrizioni etero-imposte, bisogna tenerli a mente, assecondarli e seguirli. Ebbene, lo farò, lo farò certamente, magari cercando, nel mio lavoro di antropologo, di spostare la mia prospettiva investigativa sulla forza del caso e su una forma di esistenza non necessariamente programmata. Finisco qui, finisco così, con questo proposito personale e allo stesso tempo antropologico. Ah, dimenticavo qualcosa di importante, prima di chiudere: per chi non lo sapesse, Cirulnik è un sopravvissuto della Shoah e ha costruito la sua psichiatria sul concetto di resilienza, cioè quella capacità che hanno gli individui di affrontare le difficoltà e di superarle, anche grazie all’aiuto degli altri, senza quindi rifiutare la potenza insospettata della fragilità e della convivenza solidale.

Davanti all'altare dell'antropologo (ph. Montes)

Davanti all’altare dell’antropologo (ph. Montes)

IV. Se solo sapessi chi sono (Ascona, Svizzera 2018)

Mi sveglio di colpo, non ci sono con la testa, non ci sono, forse non ci sono mai stato. Sono sveglio eppure è come se il mondo esitasse a manifestarsi, come se non volesse prendersi cura di me come ogni mattina, come sempre, come soltanto lui sa fare: con garbo. Non capisco, dove sono, chi sono? Non mi oriento, non mi do conto, non mi penso essere senziente, cosciente. Mi sforzo e non mi ritrovo. Sono in viaggio? Non più a Palermo? E questo è certo, e questo torna alla mia mente senza tormento, senza angoscia, senza tema di smentita. D’altro, non mi ricordo; d’altro, non potrei parlare. Non soffro, ma non ci sono, non ci sono con la testa e con il resto. Non ci sono ancora, forse? Dovrei fare qualcosa, probabilmente. Mi piego in avanti, mi alzo di botto, piego un po’ le gambe, ricado morbidamente sul letto. È inutile, tutto inutile. Una sensazione mi assale nel frattempo: ho le gambe intorpidite, lo sento. Ma, quel che è peggio, la mia testa non mi obbedisce. Se non altro, credo, non mi obbedisce come al solito: non consente di riportare me stesso di peso al tempo e al luogo che mi accolgono in questo momento di inconsulta dissipazione dell’Ego. La mia testa? Sempre quella?

Nel brusco passaggio dal sonno al risveglio, mi è capitato altre volte di essere proiettato nell’incertezza dell’attribuzione del luogo in cui mi trovavo. Questo lo ricordo. Questa volta lo spaesamento d’inizio non si trasforma però in pronto, liberatorio radicamento. E non capisco! Perché tarda ad accadere il prevedibile? Anche se uno spizzico di sole passa timidamente dalla finestra, senza aggredirmi: manifesta semplicemente la sua presenza innocua. Me ne rallegro. Lo guardo senza timore, divago su altro. Il computer è acceso, la valigia per metà aperta, le tendine scostate fanno da parentesi alla scena intravista. Se non fosse tutto così strano, direi con sollievo: che bel risveglio! Se non fossi privo del mio solito controllo, direi con piacere: la luce del sole ha pizzicato le corde del mio sonno! Suppongo. Non sono certo che lo affermerei con lo stesso tono poetico. Io non sono poeta, né scrittore. Per il resto, vago, vago incerto, soffermando lo sguardo sugli oggetti della stanza: oggetti disseminati dappertutto, come se fossi arrivato ieri in fretta e furia, nella notte. Ci sono altre valigie nella stanza. Chiuse. Non sono da solo, in questo luogo così calmo? Lo sguardo continua la sua ricerca intanto: incontra un paio di ciabatte estive, ma non sono le mie, sono troppo piccole. Mio figlio? Non fa caldo, comunque, io sono nudo. Sembrerebbe primavera. Non è così male, dopotutto: la sensazione è piacevole, se non fosse per le gambe. Le mie gambe pizzicano ancora, ancora intorpidite dalla strana posizione assunta nella notte. Suppongo che sia questo. I piedi, le mani, il torace, per quanto più lesti siano delle gambe, sono anch’essi sottomessi a questa strana sensazione di assenza di un Ego centrale. Intorpidimento corporeo o vacillare della dimensione cognitiva? Magari fosse solo quello: o l’uno o l’altro. E invece? Se dovessi dire in qualche parola ciò che sento, proporrei a me stesso: è un effetto di lieve frustrazione che si coniuga con l’attesa inerte di un qualche avvenimento che mi riporti a una qualche unità, a un soggetto meno passivo, più padrone di sé. Il contatto con le bianche, fresche lenzuola aiuta poco.

Il riflesso del sole attira nuovamente la mia attenzione: vive di vita propria e non chiede altro. Sorprendentemente, pur non avendo idea di cosa stia succedendo o di chi io sia esattamente, mi passano per la mente alcune immagini della Recherche di Proust. Ma è come se qualcosa fosse fuori posto nella sequenza delle immagini il cui incipit sospettavo di conoscere a menadito. Mi ricordo dell’elenco di cui parla il protagonista della Recherche, questo sì: una strategia che ho, io stesso, adottato negli anni, per venire in mio stesso soccorso. Quando succede, quando esito a rinvenirmi soggetto, mi basta fare l’elenco delle cose e, via, la memoria torna immediatamente. Questa volta sento già che una semplice enumerazione non basterà. E non ci provo nemmeno, non mi importa nemmeno. Voglio rimanere in questo limbo: soffrendo un po’ per lo spaesamento, godendo del piacere di non dovere fare niente di preciso, sciabordando nell’assenza di pianificazione. E così rimango per qualche minuto, o forse più, finché qualcosa affiora più nettamente, prende rilievo. Ah, sì, ricordo, sono andato a letto molto tardi stanotte, quando stava già per albeggiare. Non è un buon indizio comunque: certamente non lo è. Mi riporta al passato e solo a quello. A lungo, negli anni, mi sono infatti coricato all’albeggiare. Lo ricordo bene. Ricordo che, appena spenta la luce, ogni notte, alle prime luci dell’alba, gli occhi mi si chiudevano, si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: stai prendendo sonno, Stefano! Il fatto è che, stanotte, le cose sono andate diversamente: il pensiero che stavo prendendo sonno, mi ha insolitamente ridato energia, mi ha spinto a riprendere in mano il libro che stavo leggendo. Allora, sicuro di questo, lo cerco adesso con lo sguardo, lo ritrovo aperto per terra, lo prendo tra le mani, leggo qualche rigo: «Just as human experience is never simply an unfolding from within but rather an outcome of a situation, of a relationship with others, so human understanding is never born of contemplating the world from afar; it is an emergent and perpetually renegotiated outcome of social interaction, dialogue, and engagement. And although something of one’s own experience – of hope or despair, affinity or estrangement, well-being or illness – is always a point of departure, this experience continually undergoes a sea change in the course of one’s encounters and conversations with others» (Jackson 2011: XIII). E proprio mentre sto rimuginando sull’ultimo rigo, bussano alla porta. È la segretaria del Centro Incontri Umani. Mi chiede se voglio un passaggio fino all’albergo in cui si terrà la conferenza. Le dico di sì, le dico di darmi cinque minuti per prepararmi, mentre torno a essere me stesso, mentre la memoria torna di colpo e non ho più incertezze. Forse. Qualcuna è rimasta infatti. Ma fa parte di me ormai, e non me ne voglio più sbarazzare, se non altro così presto, se non altro perché identità e memoria sono strettamente associate e io voglio invece, di tanto in tanto, dissociarmi un po’, prendere le distanze da me stesso. Forse in questo, soltanto in questo, non sono d’accordo con Jackson: nonostante tutto, nonostante l’inevitabile prossimità alle cose del mondo, a volte ho bisogno di avere uno sguardo da lontano per potere vedere più chiaramente cosa mi succede, quale parte giocano gli altri nella mia vita (e io nella loro).

Per pensatività (ph. L. Taverna).

Per pensatività (ph. L. Taverna)

V. Grattarsi e pensatività (Palermo, Italia 2018)

Avverto, dietro il collo, un pizzicare leggero, insistente. Giusto un lieve, fastidioso pizzicare. Niente di più, niente di grave, niente di che. Allungo il braccio, mi gratto, sono sollevato, non più corrucciato. Mi gratto, mi gratto ancora, lo faccio senza pensarci più di tanto. Che liberazione! Niente di più semplice, d’altronde. Basta un gesto, un contrappunto delle dita e tutto passa, tutto è risolto. Grattarsi? Basta sfregarsi, basta farlo. Si tratta di un’azione insignificante che avrò compiuto migliaia di volte senza rifletterci, senza rifletterci più di tanto. Perché proprio oggi mi viene da pensare a questo e a tante altre cose? Che posso saperne io, al momento, sulla spinta della sensazione? Giusto oggi, non so per quale ragione, incominciano a fioccare nella mia mente associazioni varie, disparate. Che sarà mai? Mi potrei in ogni caso opporre e fare altro. Ne avrei la possibilità. Invece, lascio fare, lascio correre i miei pensieri, mi lascio andare, catturare dai miei stessi flussi di coscienza dei quali, come scrive Gell, «noi non sappiamo proprio niente» (Gell 1992: 319). Ragione di più – rifletto – per lasciarmi andare e cercare di capire cosa succede. E poi sono antropologo, un antropologo indisciplinato, un individuo irrequieto, un individuo irrimediabilmente irrequieto. Assecondo i miei pensieri, la loro irrequietezza, la loro azione stimolante. Decido di farlo senza esitare, senza concedere spazio ulteriore all’idea. Perché, come scrive Valéry, «la natura dell’idea è di intervenire» (Valéry 1933: 30). Io intervengo. Io penso. Io mi gratto. Io mi lascio andare.

Sono un antropologo e penso che un antropologo debba occuparsi, tra le tante cose importanti, pure dell’azione di grattarsi il corpo e dei flussi di pensiero. E, ancora, di più, penso che ognuno di noi debba essere percorso da una sorta di irrequietezza fisica e mentale che lo spinge a vivere in maniera intensa, persino audace. Altrimenti a che vale vivere? Stoller, alla ricerca di ciò che vuol dire ‘vivere bene’, dopo una brutta malattia, fa dell’irrequietezza un elemento cardine prendendo in conto proprio «quel pizzicare esistenziale che ci costringe a provare qualcosa di nuovo o a fare una scelta audace» (Stoller 2014: 139). E io? Che ne penso? Il basso continuo del pizzicare che caratterizza la mia esistenza non mi dispiace, anche se, ogni tanto, vorrei scrollarmelo di dosso come un vestito vecchio per indossarne uno nuovo. Perché non ci riesco? Perché non posso? Il pizzicare che caratterizza la mia esistenza è associato inevitabilmente – come tutti, suppongo – al mio corpo, alle mie sensazioni, ai miei flussi disordinati di pensiero: in sostanza alla vita. E ne sono felice! Di fatto, che «si tratti del corpo d’altri o del mio corpo proprio, io non ho altro modo di conoscere il corpo umano se non quello di viverlo, cioè di farmi carico del dramma che lo attraversa e di confondermi con esso. Io sono quindi il mio corpo, se non altro nella misura in cui ne traggo esperienza e, reciprocamente, il mio corpo è come un soggetto naturale, uno schizzo provvisorio del mio essere totale» (Merleau-Ponty 1945: 231).

Contro una visione idealistica del genere umano, Merleau-Ponty prospetta una fenomenologia delle percezioni che aiuta a pensare meglio l’uomo nella sua unità di corpo e mente. Il dramma di cui parla Merleau-Ponty non va inteso come un intreccio di vicende destinato a una qualche rappresentazione statica e circoscritta, ma come un’arena di agentività (e figuratività) di cui il corpo e i pensieri sono parte integrante in quanto enti attraversati e essi stessi elementi operatori attivi, strettamente associati tra loro per ordini di flussi e scomposizioni. Per valorizzare, dunque, questa associazione di corpo vissuto e vita proposta, andando oltre lo stesso Merleau-Ponty, bisognerebbe affiancare – con un neologismo – alla nozione di ‘corpo vissuto’ la nozione di pensatività. Di fatto, la dimensione del pensare in senso processuale (diversa da quella del pensiero come risultato) è effettivamente trascurata. Concentrarsi sui tratti caratterizzanti il pensare e la sua funzione contestuale significa correggere un’impostazione che vede in primo piano il corpo come oggetto di studio in qualche modo slegato dalla dimensione cognitiva vista in chiave paradigmatica e sintagmatica. Ovviamente, il posizionamento di Merleau-Ponty era pienamente giustificato a suo tempo perché reagiva all’idealismo e al mentalismo filosofico, ma un po’ troppo fondato, a mio parere, sulla priorità di una conoscenza attraverso il corpo. Come correggere l’impostazione di Merleau-Ponty? Introducendo la dimensione cognitiva nella sua funzione processuale e associarla al corpo agentivo. Basta quindi riformulare ciò che dice Merleau-Ponty con qualche piccolo aggiustamento. Per esempio: io sono al contempo il mio corpo e i miei pensieri in movimento; io sono unità e, al contempo, composizione e scomposizione disordinata e ordinata di sensazioni e pensieri, azioni ed emozioni; io conosco il mio corpo vivendolo – anche – attraverso i vissuti corporei degli altri soggetti.

 Ma la sensibilità è la via (ph. Montes)

Ma la sensibilità è la via (ph. Montes)

Credo che l’antropologia del corpo debba tenere conto di questi aggiustamenti, dell’introduzione di questi elementi: il disordine, la simultaneità dell’accadere di sensazioni e pensieri, gli atti di pensiero nel loro svolgersi, il vissuto corporeo in associazione col vissuto cognitivo, l’interazione tra corpi e vissuti nella ‘realtà’ e nella loro ‘dimensione virtuale’. Pensiamo sovente che l’‘io’ sia incarnato da un individuo che, al balcone, osserva il mondo che gli passa sotto gli occhi; pensiamo, ingenuamente, che sia così; in realtà, l’‘io’ è anche ciò che sta al di qua del balcone, alle nostre spalle, persino all’interno del corpo che lo incarna, persino la stessa incarnazione in quanto vissuto e idea. Lévi-Strauss, da parte sua, discuteva giustamente di un osservatore preso nel processo della sua osservazione e da essa inseparabile: in «una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). Un po’ più vicino a noi nel tempo, Augé parla addirittura di auto-etno-analisi. Alla ricerca dei modi in cui si ridefiniscono, nella modernità, le condizioni di rappresentatività del fare antropologico e dei suoi oggetti di studio, Augé fa riferimento a una possibile direzione di ricerca: l’auto-etno-analisi. Se gli estimatori (e i detrattori) di Augé hanno costantemente messo l’accento sulla nozione di nonluogo, ritenendola un elemento sostanziale (e non come elemento relazionale), forse le incursioni di Augé negli spazi della modernità andrebbero riviste – meglio – come tentativi diversificati di auto-etno-analisi: «Non si può escludere che, seguendo l’esempio di Freud, l’antropologo si consideri come un indigeno, un informatore privilegiato, e si avventuri in qualche saggio di auto-etno-analisi» (Augé 1993: 40). Diversamente da Freud – credo – l’auto-etno-analisi di cui parla Augé non può fare a meno della diversità di spazi che la riconfigurano contestualmente, nel tempo, nella cultura: quindi, a uno spazio freudiano pensato come una sorta di divanetto generalizzato, fa invece capolino, con Augé, uno spazio produttore di senso e di sperimentazione spazio-temporale, nei diversi contesti d’uso della cultura.

In sostanza, quello che voglio dire è che l’antropologo deve studiare la vita nella sua interezza, ivi compreso il ‘suo fuori’ e il ‘suo dentro’, in quanto processo e risultato, indipendentemente dall’esotismo del luogo o da una prospettata lontananza del sito a questo effetto prevista. L’antropologo deve pure interrogare il corpo o la coscienza, o altro ancora, avvalendosi di tutte le forme possibili di decentramento, possibilmente decostruendo le forme di discontinuità categoriali che si sono create nel tempo (per esempio, corpo/mente) e tenendo conto dei modi possibili di riconvertirle in un intreccio evidenziatore invece di continuità (per esempio, corpo e pensare e sentire e fuori e dentro e scrittura e pizzicare etc.). Dal mio punto di vista, la vita degli individui viene prima di ogni altra nozione ed esperienza, le quali, nel loro insieme, sono semanticamente ritagliate in prima istanza proprio dalla cultura di appartenenza e dall’incontro di culture. Come dire, allora, che nell’anticamera di ogni riflessione antropologica – per quanto focalizzata su un ‘oggetto’ particolare (che sia il corpo o una sua qualsiasi altra parte o un atto di pensiero o altro) – devono figurare il concetto di vita e di cultura. Nessun ‘ritaglio’ semantico particolare dovrebbe godere, secondo me, di un’attenzione particolare in sé che lo innalzi a fondamento od origine di altri ‘ritagli’ semantici.

E mentre penso e ripenso tutto questo e lo scrivo di getto, mi gratto di nuovo e capisco: capisco perché oggi il pizzicare mi portava a pensare alla corporeità e alla pensatività, alla vita e alle logiche del vivere. La scorsa notte ero insonne. Mi ero messo a leggere. Avevo passato buona parte della notte sprofondato nella lettura del libro di Clara Gallini: Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia. Lo avevo letto tutto d’un fiato e volevo in qualche modo dimenticarlo. Perché? Perché mi aveva commosso pensare alla sua vita, al fatto che, persino in caso di grave malattia, alcuni antropologi riescono a mantenersi lucidi e produrre una etnografia delle loro vicissitudini. Clara Gallini non è più tra noi. Le dedico questo mio umile contributo sul pensare e sentire e vivere: con il corpo, con la mente, con la scrittura. Glielo dedico e termino proprio con una citazione, esemplare, tratta dal suo libro: «Verifico che la vecchiaia e una malattia possono anche essere considerate occasioni positive, per un radicale ripensamento di se stessi. Verifico che, in sua occasione, fai un duplice viaggio, nel corpo e nella memoria degli eventi che sono stati fondamentali per la formazione della tua persona. Verifico l’artificialità di ogni costruzione che separi corpo e anima. E infine la verifica per me più decisiva: che la tua persona si viene formando non pensandosi come essere singolo, circoscritto da un orizzonte ‘chiuso’, ma come essere la cui ‘autonomia decisionale’ sia frutto di un processo aperto, rinnovabile sempre nel rapporto con le altre classi di persone» (Gallini 2016: 14). Rileggendo queste righe, penso che avrei voluto conoscerla personalmente, da vicino. Penso pure, però, che i libri rimangono, fortunatamente: rimangono non soltanto come concentrati di nuclei concettuali, ma, anche, come esempi di vita e sensibilità.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Riferimenti bibliografici
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Evans-Pritchard E. E., I Nuer: un’anarchia ordinata, trad. di B. Bernardi, Franco Angeli, Milano, 1975 (1940)
Gallini C., Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia, Nottetempo, Roma, 2016
Geertz C., Interpretazione di culture, trad. di E. Bona, Il Mulino, Bologna, 1988 (1973)
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Rosaldo R., Cultura e verità. Ricostruire l’analisi sociale, trad. di A. Perri, Meltemi, Roma, 2001, (1989)
Stoller P., Yaya’s story. The quest for well-being in the world, The University of Chicago Press, Chicago, 2014
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia  all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu,  Tallinn e al Collège International de  Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore  di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone  con sede nell’Università di Tallinn. Ha  pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive
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