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Diari di una quarantena per schizzi d’immagini
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 01:19 In Attualità,Immagini | No Comments
dialoghi intorno al virus
14 aprile
di Gianluca Ceccarini, Nahid Rezashateri
Vìrus s. m. [dal lat.Virus «veleno»], invar. –1.In biologia, termine con cui si designa un gruppo di organismi, di natura non cellulare e di dimensioni submicroscopiche, incapaci di un metabolismo autonomo e perciò caratterizzati dalla vita parassitaria endocellulare obbligata. Quando un virus riesce a penetrare all’interno di una cellula con la quale è venuto in contatto, il suo genoma si integra nel materiale genetico della cellula ospite alterandone così il patrimonio genetico e obbligandola a sintetizzare acidi nucleici e proteine virali e quindi alla replicazione del virus.
Lo spazio che occupiamo è uno stato mentale dove ogni fenomeno, compresa la percezione di noi e della nostra identità, è un prodotto storico, mutante nel tempo, comunicante infiniti e metamorfici significati. La quarantena innesca modalità del vivere che, nonostante l’obbligata staticità, aprono all’esperienza del mutevole.
I giorni uguali agli altri, sospesi e monolitici, la realtà che si fa indecifrabile, la perdita di sicurezza, tutto concorre a farci sentire sulla pelle quanto tutto, nonostante i nostri sforzi, sia incontrollabile e mutevole. Abbiamo imparato che anche un virus può diventare mutevole e con esso le nostre paure e visioni distopiche. Abbiamo imparato che qualcosa di invisibile e infinitamente piccolo può fermare il mondo.
Questa condizione mentale durante la quarantena Covid 19 si è innescata paradossalmente a causa di qualcosa di estremamente intangibile, invisibile, dalla forma seducente: una sfera, un piccolo pianeta grigio da cui si innalzano alberelli dalla chioma rossa. Le forme e le rappresentazioni dei virus hanno sempre qualcosa di attraente.
Il virus conserva e protegge il proprio materiale genetico nel capside che può variare in dimensioni e complessità della struttura, poliedri che devono garantire efficienza e stabilità. Strutture geometriche complesse visibili all’occhio umano solo attraverso l’uso del microscopio elettronico.
Abbiamo imparato quanto a causa di una Pandemia le dimensioni del micro e del macro siano così drammaticamente collegate, quanto il battito d’ali di una farfalla o il contatto con un’ entità biologica invisibile possano cambiare drasticamente le nostre vite e la nostra percezione.
Come molti fotografi, in questo strano e surreale momento storico, stiamo sentendo il bisogno di raccontare quello che ci sta accadendo. Chi ama la fotografia sa bene cosa intendiamo.
Siamo fortemente convinti che tra la Fotografia e l’Antroplogia ci siano dei legami profondi. Entrambe raccontano l’uomo e la realtà, ed entrambe costituiscono, per chi le pratica costantemente, un metodo, un filtro di analisi, osservazione e lettura del reale, e infine un’esigenza costante. Trovarsi improvvisamente catapultati in un periodo surreale e sentire sulla propria pelle che si sta vivendo un momento storico unico non può che innescare in noi un bisogno irresistibile di raccontare.
Ma come raccontare una pandemia in corso che ha stravolto le nostre vite e la percezione di tutto ciò che ci circonda? Nell’ambiente della Fotografia è già attivo un forte dibattito su cosa sia opportuno o meno fare: è giusto scendere in strada, nonostante i divieti, per fotografare le nostre città, le nostre strade deserte? É giusto entrare nelle corsie degli ospedali e puntare gli obbiettivi sui malati morenti e sugli infermieri stremati dal lavoro?
C’è chi pensa che non ce ne sia bisogno, che in alcuni casi la fotografia debba fare un passo indietro e che si possa comunque raccontare attraverso linguaggi altri, non necessariamente legati al reportage classico. Si può raccontare un fenomeno attraverso mille angolature, si può entrare nel cuore di un evento anche puntando l’attenzione su una parte del tutto, su una microstoria. E questo l’Antropologia lo sa bene.
Le scienze sociali, e in particolare l’Antropologia contemporanea, per loro natura hanno la caratteristica di essere autoriflessive: gli studiosi si domandano e riflettono sul loro operato, sul rapporto tra l’osservato e l’osservatore, sulle categorie del “noi” e dell’ “altro”, inoltre le storie locali e di vita e l’autobiografia sono generi ben consolidati all’interno degli studi demoetnoantropologici. L’Antropologia ha fatto della “ricerca sul campo” e dell’ “osservazione partecipante’’ il suo metodo privilegiato e, come diceva il noto antropologo polacco Bronisław Kasper Malinowski, il ricercatore per fare ciò deve “piantare la propria tenda nel centro del villaggio”, un pò come quando il fotogiornalista si pone al centro della scena per testimoniare con le immagini il presente.
Le fotografie di reportage sono per noi delle forme efficaci di ricerca socio-antropologica, un potente metodo d’osservazione capace di raccontare la complessità del reale. Ma pensiamo anche che a volte “la propria tenda” possa essere piazzata anche in luoghi periferici dal centro della scena, negli interstizi antropologici, in spazi apparentemente marginali o privati che in quanto parte del tutto possono avere la capacità di raccontare sorprendentemente molto.
Sin dai primi giorni dell’emergenza Covid 19 abbiamo cominciato a scattare foto e “scavare” nel nostro archivio di immagini, assecondando un bisogno di raccontare e raccontarci che cresce esponenzialmente con lo scorrere dei giorni.
Senza progettare molto, quasi istintivamente, si stanno pian piano concretizzando così due “diari di bordo” personali ongoing, costituiti perlopiù da foto scattate giornalmente e immagini recuperate dai nostri rispettivi archivi. Condividiamo gli scatti in tempo reale sui social con dei progetti open call dedicati alla quarantena, in particolare con il progetto #creativiinquarantena curato dalla fotografa Giulia Haraidon.
Sin dai primi giorni della quarantena viviamo in casa Nahid, io e mia madre. La reclusione forzata per me è stata un’occasione per ri-scoprire un rapporto di convivenza e intimità con mia madre che si era interrotto molti anni fa, quando decisi di lasciare la casa dei miei genitori. Per Nahid, nata in Iran e residente da 7 anni in Italia, la reclusione significa naturalmente disagio e preoccupazione costante per i propri cari lontani migliaia di chilometri e residenti in uno dei Paesi più colpiti dal virus.
Due microstorie personali che prendono vita all’interno delle stesse mura domestiche, due modi di percepire la Pandemia in corso, due linguaggi fotografici, due piccole testimonianze di un femomeno grande e complesso che sta sconvolgendo la vita di milioni di persone.
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