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Dialogo sul Contemporaneo nell’arte

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2018 @ 00:45 In Cultura,Società | No Comments

copertinadi Giuseppe Modica

Che cosa è il contemporaneo? Ogni epoca e periodo storico è contemporaneo a se stesso. La presenza del tempo che vivi è ineludibile ed inevitabile.

Federico Zeri in un noto libro intitolato Dietro l’immagine ci diceva, a ragione, che la trappola in cui cade il falsario anche più avveduto che realizza un’opera del passato è nella fuga inconsapevole di qualche minima componente stilistica che appartiene al gusto e alla sensibilità del suo tempo. La contemporaneità intesa come gusto diffuso in ogni epoca è sempre nell’aria, senza volerlo si fa avanti e tradisce anche il falsario più attrezzato e sofisticato.

L’universo del contemporaneo, sappiamo, è assai vasto complesso, contraddittorio ed eterogeneo, si articola in una miriade infinita di sfaccettature, sedimentazioni e diversificazioni. Esiste la storia dell’arte contemporanea che forse tutti conosciamo, ma c’è anche una storia contemporanea dell’arte più segreta della precedente.

La prima è quella più diffusa e più conosciuta che troviamo in quasi tutti i manuali che trattano l’argomento, la seconda è una storia contemporanea meno globalizzata, meno conosciuta, oggi si dice più di nicchia, meno prevedibile forse più marginale ed impopolare ma con esiti sorprendenti, necessari a comprendere la fenomenologia complessa e poliedrica della cosiddetta contemporaneità.

Diciamo che le due Storie sono complementari e contengono due specificità diverse e in alcuni casi interagiscono e comunicano e in altri rimangono antitetiche. La prima, più pianificata nel panorama internazionale e ufficializzata a livello globale, la seconda più particolare e differenziata nelle singole personalità. In un contesto planetario globalizzato e governato da pressanti interessi liberisti, la prima sembra essere quella più congrua e funzionale al sistema e sembra avere il sopravvento sulla seconda che, come dicevo, è più marginale, fuori campo, underground, costituita da “figure visionarie” irregolari e non omologabili, navigatori solitari nel variegato arcipelago della scena contemporanea.

La seconda faccia della contemporaneità comunque è quella che, forse più della prima, si trova più in sintonia con l’area della ricerca poetica e letteraria ma anche filosofica. Parlando dell’argomento mi pare opportuno entrare in sintonia col puntuale saggio del 2008 del filosofo Giorgio Agamben, che in diversi punti mi sento di condividere: Che cosa è il Contemporaneo?

Per essere contemporanei, dice il filosofo, è necessario uno sguardo a distanza e non ravvicinato che non combaci e aderisca come un calco delle cose. La distanza spaziale e temporale e uno sfalsamento dello sguardo sono necessari a poter vedere nel buio la luce impercettibile delle galassie che è proiettata verso di noi: «Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità. (…) Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascino di tenebra che proviene dal suo tempo».

Un momento del seminario

Un momento del seminario

Percepire la tenebra che viene dal tuo tempo non è cosa facile, bisogna avere occhi per vedere, sensibilità e predisposizione alla chiaroveggenza necessari a rilevare ciò che sta oltre la consuetudine del guardare e dell’assuefazione dello sguardo.

Percepire la tenebra, secondo Agamben, significa cogliere la luce invisibile del presente che risale e affiora dal buio immemorabile di una arcaica lontananza in una sorta di circolarità dialettica di luce-buio e presente-passato. Ancora: «essere contemporanei non è solo del nostro secolo e dell’ora, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato».

C’è una sorta di corrispondenza fra contemporaneità ed arcaicità, come se ogni cosa realmente contemporanea contenesse il germe originario di una remota archeologia.

Continua Agamben: «Gli storici della letteratura e dell’arte sanno che fra l’arcaico e il moderno c’è un appuntamento segreto e non tanto perché le forme più arcaiche sembrano esercitare sul presente un fascino particolare, quanto perché la chiave del moderno è nascosta nell’immemorabile e nel preistorico.  (…) L’avanguardia che s’è smarrita nel tempo insegue il primitivo l’arcaico».

Claudio Strinati, tra gli invitati alla conversazione, alla mia domanda: “All’inizio del Seicento a Roma incontriamo tre autori che vivono nello stesso periodo storico Cavalier d’Arpino, Baglione e Caravaggio, chi è il più contemporaneo dei tre?, ci fa notare che noi contemporanei siamo condizionati dal concetto di avanguardia che nel 600 non esisteva affatto, anche se era chiara e consapevole una differenziazione delle posizioni e delle scelte linguistiche dei tre autori dell’inizio del 600 e che sono quasi coetanei.

Inventandosi, in maniera estemporanea, una “messa in scena teatrale”, Strinati mette i tre pittori assieme attorno ad un tavolo, provocando una animata conversazione con specifiche rivendicazioni di identità stilistiche e convinzioni ideologiche al limite della lite e della polemica, facendo emergere e confrontare caratteristiche formali specifiche, differenze e divergenze poetiche e finalità espressive dei rispettivi autori.

 I bari, di Michelangelo Merisi o Caravaggio

I bari, di Michelangelo Merisi o Caravaggio

Viene fuori una divertita ed ironica disputa fra i tre che inevitabilmente ci riporta alle rissose controversie ideologiche dell’arte del 900 e dei nostri tempi.

«Allora, il Cavalier D’Arpino – continua Strinati – erede di una classicità antica, rivendica la sua diretta ascendenza nei valori spaziali e formali dell’Alberti e si definisce precursore di una modernità geometrica di ritmo, plasticità e luce che troverà il suo apice due secoli dopo in Cezanne». Caravaggio, invece, rivendica il coraggio di buttare al mare tutti questi “formalismi e residui del passato” e di vedere la modernità nella sapienza e verità popolare che avrà riscontro in tutta Europa in una vasta schiera di seguaci e culminerà nell’Ottocento con l’esempio eccelso di Courbet.

Anche Baglione ha una precisa posizione: è convinto che un’opera è moderna se riuscirà a trasferirci dei valori eterni, la modernità coincide con la perennità e rivendica un magistero tecnico e una scelta di materiali che si propongono di sfidare il tempo. Di fatto nessuno dei tre artisti si poneva il problema dell’avanguardia che per loro non esisteva. Del resto -– aggiunge Strinati – il concetto in sé di avanguardia non vuol dire nulla e se avessero chiesto a Caravaggio se fosse un “avanguardista” egli avrebbe probabilmente detto di no oppure sarebbe rimasto disorientato. Poi, nei tempi successivi, è stato il pubblico dei fruitori che ha stabilito i vari livelli di modernità ed individuato iltasso di contemporaneità.

Strinati ci ha presentato una “piece teatrale”. non dà una risposta, ci fa intendere casomai l’importanza necessaria di posizioni complementari, antitetiche e contrastanti, utili a ricostruire il dibattito artistico che identifica la modernità di quegli anni che era sin da allora animata da visioni dialettiche ed eterogenee.

 Pan di Picasso.

Pan di Pablo Picasso

Marco Di Capua, altro ospite invitato a parlare, alla domanda: Picasso 1907 inizio cubismo o Picasso anni 20-30, quale periodo è più contemporaneo? risponde subito che il termine contemporaneo è condizionato da una pretestuosa arroganza e da un vizio ideologico di fondo alimentato da curatori che spesso hanno un’ignoranza abissale. Picasso alle Scuderie del Quirinale ci appare in perfetta sintonia, sia quando vediamo i quadri che sono legati al periodo del cubismo sintetico che a quello classico degli anni Venti. I quadri neoclassici di Picasso, nel momento in cui il cubismo era diventato fra i tanti seguaci un punto di riferimento consueto e rassicurante della modernità, rappresentano una novità sorprendente.

Continua Di Capua: «oggi, paradossalmente, per contemporaneo si intende il lavoro degli ultimi dieci anni al punto che nelle università e nelle accademie è stato contemplato, nei nuovi corsi di insegnamento, l’accezione di un contemporaneo al quadrato che prende il nome di fenomenologia dell’arte contemporanea». In linea con pensiero del filosofo Agamben ricorda come anche lo scrittore Andrè Malroux nel suo libro Il museo immaginario facesse coincidere il moderno e il contemporaneo con una dimensione mitica e sospesa in un’aura remota e fascinosa.

Oggi, invece, per contemporaneo – continua Di Capua – si intende una vastissima e monotona pianura orizzontale, identica a se stessa, dove esiste tutto e il contrario di tutto, senza variazione alcuna che non sia prevista, e senza alcun elemento verticale. Qui, in questo pianoro amorfo tutto è uguale ed equiparato, dove non è più possibile individuare la qualità. Un contemporaneo dispotico, ideologico e omologato a livello planetario, convinto di essere portatore assoluto dell’essenza del nostro tempo. Una ideologia che ogni volta ha avuto l’impertinenza e l’arroganza di segnare i codici stilistici e comportamentali degli artisti perché fossero congrui e funzionali ai dettami imposti.

Ancora Di Capua, qui cita l’arroganza di Palmiro Togliatti negli anni della politica culturale del PCI, la sua interferenza ed ingerenza politica nel campo dell’art,e dando indicazioni ideologiche e stilistiche ben precise. Ad esempio, lo scrittore Carlo Cassola fu massacrato prima da Togliatti perché non abbastanza comunista e dopo dal Gruppo 63 perché considerato reazionario.

Di Capua si indigna e rigetta questi dettami ideologici che sono sempre presenti dentro ogni idea di contemporaneità, auspicando la presa di coscienza di una ipotesi libera da condizionamenti che contempli i linguaggi contemporanei di sempre, dove per esempio anche Piero della Francesca, autore apparentemente distante da noi, è nostro contemporaneo e noi, liberi da steccati, lo siamo con Il Maestro. Una contemporaneità in sintonia con una libera esigenza individuale e spirituale fatta di differenze, dove la bellezza e la qualità espressiva dell’arte recitino un ruolo fondamentale.

Ora Lorenzo Canova risponde alla mia domanda: Burri si definisce erede della grande tradizione. Che cosa è la Tradizione ed il Tradizionalismo?

Ci dice Canova che Burri, originario di Città di Castello, rintraccia le sue origini lontane nella classicità remota di Piero della Francesca e la divina proporzione di Luca Pacioli. Nella qualità drammatica della sue composizioni di materie eterogenee c’è una misura e strutturazione dello spazio che trova una ascendenza nell’antica classicità quattrocentesca: una continuità e circolarità tra classicità e modernità.

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Mobili nella valle, di de Chirico

La stessa cosa, su un altro binario della ricerca, accadeva a Lucio Fontana: nel suo percorso formativo ed avventura artistica è rintracciabile un confronto con la tradizione classica e barocca in una sorta di continuità e rinnovamento.

Oggi la tradizione è ovunque, anche un semplice neon è il prodotto della tradizione al punto che si può parlare di post post modernismo dell’avanguardia. Duchamp è oggi un classico della tradizione ed è assunto spesso come modello tradizionalista da imitare.

Nelle Accademie – aggiunge Canova – un tempo i giovani si formavano disegnando la statuaria antica, oggi accade spesso di vedere che i giovani si formano lavorando sull’urinatoio di Duchamp, senza capire forse che quell’opera, nella storia dell’arte, è un caso limite e irripetibile. Un giovane che elegge Duchamp come riferimento classico da emulare nel suo percorso artistico, si inscrive, senza saperlo, nell’area di un tradizionalismo dell’avanguardia che forse lo stesso Duchamp non avrebbe gradito.

Parlando di tradizione entra in ballo la figura di de Chirico il cui lavoro ha un forte legame con la storia dell’arte. Si rimane stupiti – dice Canova – come ancora sussista una incomprensione e un pregiudizio sul lavoro del Metafisico, assolto e sdoganato a brandelli nonostante gli studi storici di grande valore scientifico che hanno rivelato la sorprendente valenza poetica degli anni 20 e 30, condotti da Maurizio Fagiolo e Calvesi. È un vecchio pregiudizio creato da Breton – spiega Canova – che trae origine da precisi interessi di mercato. Secondo Breton, de Chirico è valido fino al 1919 e dopo quella data la sua pittura è priva di valore (Breton era collezionista del Metafisico fino a quella data).

Gli artisti presenti al dibattito, Aurelio Bulzatti, Luca Padroni e chi scrive concordano con una idea di contemporaneo libero dai conformismi e condizionamenti delle ideologie che rispecchi le differenze, la verità interiore e spirituale e qualità poetica delle singole personalità.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
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Giuseppe Modica, nativo di Mazara del Vallo, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, nel 1986-87 si è trasferito a Roma, dove attualmente vive e lavora ed è titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti. Autore “metafisicamente nuovo” occupa un posto ben preciso e di primo piano nella cultura pittorica contemporanea. Ha esposto in Italia e all’estero in prestigiose retrospettive e rassegne museali, apprezzato da critici come M. Fagiolo, C. Strinati, Janus, G. Giuffrè, V. Sgarbi e da letterati come L. Sciascia, A.Tabucchi, G. Soavi, M. Onofri, R. Calasso. Una mostra personale dal titolo La Luce di Roma, a cura di Roberto Gramiccia, è stata allestita nel 2015 presso la Galleria La Nuova Pesa di Roma. Sempre nello stesso anno ha esposto una personale sul tema della mediterraneità alla Galleria Sifrein di Parigi: La melancolie onirique de Giuseppe Modica. Ha recentemente partecipato ad una esposizione internazionale organizzata, con il patrocinio dell’Accademia Nazionale Cinese di Pittura, a Fenghuang, nel sud-est della Cina.

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