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Dell’esistenza della proprietà intellettuale nel mondo del folklore
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 01:22 In Cultura,Società | No Comments
di Mariano Fresta
Nei giorni 25-26-27 gennaio 2018, organizzato dall’Istituto di Musica Com- parata, diretto da Giovanni Giuriati, sezione della Fondazione Cini di Venezia, si è svolto un seminario avente come tema: “Diritto d’autore nelle musiche di tradizione orale: una nuova questione etnografica”. Uno degli scopi di questo seminario [1] è indagare se sia possibile individuare l’esistenza di una qualche forma di proprietà intellettuale nel vasto repertorio dell’espressività popolare che abbiamo conosciuto come “folklore”, pur sapendo che gli autori dei canti, delle musiche, delle fiabe, dei copioni teatrali, ecc. sono avvolti nel buio dell’anonimato. L’altro scopo è quello di vedere, nel caso in cui questa proprietà intellettuale ci sia e ne vengano riconosciute le forme con le quali si manifesta, come sfruttarla e a favore di chi.
Devo confessare la mia ignoranza della problematica giuridica relativa a questo settore, perché, negli anni in cui svolgevo le mie ricerche sul folklore toscano, nessuno, a parte Diego Carpitella e forse qualche altro, dava molta importanza alla questione dei diritti di autore, che adesso, invece, è diventata urgente e bisognosa di una soluzione. Spero che le considerazioni che svolgerò qui, frutto del senno di poi, possano essere utili al dibattito.
Gli studi folklorici italiani, dal Romanticismo in poi, hanno privilegiato della cultura popolare gli aspetti linguistico-espressivi: cioè i canti, chiamati impropriamente “poesie”, i proverbi, i testi del teatro popolare, come Maggi e Bruscelli della Toscana, e in più certi usi e credenze che sono stati catalogati come “superstizioni” o “relitti” di antiche culture nel tempo degradatesi. Era, soprattutto, la “poesia popolare” che coinvolgeva sia ricercatori dilettanti sia studiosi accademici e che ha impegnato i filologi dalla fine dell’Ottocento fino a tutta la prima metà del secolo XX. D’Ancona, Barbi, Santoli sono stati gli studiosi che maggiormente hanno fatto chiarezza sulle forme espressive folkloriche e che hanno illustrato, con analisi rigorose, come esse si propaghino e si trasformino continuamente. Termini ed espressioni come “oralità”, “ascesa” e “discesa”, “varianti”, “circolazione culturale”, “trasmissione di bocca in bocca”, ecc., sono stati gli strumenti teorici usati che hanno permesso loro (soprattutto a Santoli) di arrivare alla conclusione che la «cultura popolare appartiene a tutti e a nessuno» [2].
Anche per i testi che hanno una tradizione doppia, scritta e orale, come quelli teatrali, che il Santoli aveva definito “popolareggianti”, e che hanno bisogno di un copione, è possibile dimostrare che non hanno un autore ben definito (al massimo c’è una specie di “capocomico” che svolge il ruolo di preparatore del testo e di regista) e che si tramandano allo stesso modo dei canti [3], cioè come un patrimonio comune, fruibile da tutti e da nessuno fatto proprio. Identico è il processo con cui si producono le varianti nelle fiabe: Italo Calvino, studiando quelle italiane, arrivò a dire che i prototipi sono al massimo una cinquantina, il resto è costituito dalle loro innumerevoli varianti e combinazioni; addirittura Vladimir Propp ci ha spiegato che esiste una sola fiaba di magia strutturata in trentuno funzioni, combinando diversamente le quali si possono comporre tutte le altre fiabe [4]. Né Calvino, né Propp hanno fatto cenno alla presenza di autori.
Sulla creazione collettiva del folklore sono stati i formalisti russi a offrire i risultati più convincenti: Roman Jakobson e Pëtr Bogatirëv, seguendo le tracce di De Saussure, sono arrivati alla conclusione che l’espressività popolare appartiene alla langue e che la parole si realizza nel momento dell’esecuzione, durante la quale l’esecutore vi aggiunge il proprio stile ed eventuali varianti che ritiene necessarie. Se accettate dalla collettività, queste varianti possono essere considerate come componenti della langue e quindi possono essere riutilizzate successivamente; in genere, però, l’esecuzione, data la sua natura orale, costituisce un unicum che nemmeno l’esecutore riesce a ripetere identicamente. Il praghese Mukařowski, da parte sua, analizzando i processi di creazione folklorica, conferma che i canti appartengono alla langue anche se in origine, ovviamente, un autore dev’esserci stato [5].
Se le cose stanno così, è ovvio che parlare di proprietà intellettuale nel campo del folklore può diventare difficile, oltre che destare qualche perplessità. La cultura popolare è come la lingua che appartiene a tutti, ma non può diventare proprietà di nessuno. Per comunicare con gli altri, di essa noi prendiamo, solo per il tempo necessario, parte del lessico, la grammatica, la sintassi. Possiamo soltanto dare a questo materiale linguistico la nostra impronta personale, il cosiddetto “stile”, ma non possiamo trattenerlo con noi come proprietà individuale, perché anche altri hanno diritto e facoltà di usarlo. Nel folklore la norma è identica: dal suo repertorio un narratore può prendere, beninteso in prestito, una fiaba alla quale dà il suo stile, togliendo dalla trama o aggiungendo ad essa quei segmenti narrativi dettatigli dal tipo di uditorio e dalla sua creatività.
Si può dire, dunque, che caratteristica della cultura popolare è quella di presentare prodotti di cui si ignorano gli autori, ad eccezione di quelli dei cantastorie che, d’altra parte, una volta finita la fiera nella quale erano stati venduti i fogli volanti sottoscritti, tornavano ad essere totalmente anonimi.
La Convenzione dell’Unesco (2003) e la Convenzione FARO (2005), pur parlando di “patrimonio” e di “eredità” culturali, non affrontano il problema della proprietà. Per l’Unesco il patrimonio appartiene a comunità di cui resta anonima la fisionomia; tra l’altro, il concetto di cultura immateriale, (tradotto letteralmente in italiano), non è esente da ambiguità. L’aggettivo “immateriale” è, infatti, poco appropriato, perché non c’è niente di fantasmatico nell’esecuzione di un canto o nei vari elementi che compongono una festa: ci sono, invece, delle persone, ci sono voci, musica, danze, falò, che hanno una loro consistenza, una loro vitalità. Piuttosto che immateriali questi fenomeni, durando solo pochi minuti o poche ore e non lasciando alcuna traccia di sé se non nella memoria di chi li ha agiti e vissuti o di chi li ha semplicemente visti e sentiti, possono essere considerati beni effimeri, volatili; pronti, però, ad esistere ancora, se qualcuno li richiama in vita [6].
La Convenzione Faro del 2005 parla, più correttamente, di eredità intellettuale, che è un insieme «di risorse ereditate dal passato»; ma poi aggiunge che le popolazioni fanno proprie queste eredità «indipendentemente da chi ne detenga la proprietà». Come dire, se non ho capito male, che, a proposito di proprietà intellettuale, tutto rimarrebbe nella situazione caotica odierna.
Dopo questa premessa, della cui stringatezza mi scuso, vorrei raccontare un caso di cui ho avuto esperienza diretta. L’aneddoto ci permetterà di svolgere alcune considerazioni che possono aiutarci a chiarire il rapporto tra folklore e proprietà.
In due paesi della provincia di Caserta, Macerata Campania e Portico di Caserta, riuniti ammini- strativamente nel Comune di Casalba, c’era una tradizione collegata al culto contadino di sant’Antonio Abate. Nell’approssimarsi della ricorrenza festiva, il 17 gennaio, i contadini, in piccoli gruppi o singolarmente, percorrevano le strade del paese, percuotendo con mazze e bacchette falci, mastelli e una botte, posta su un carrettino. In questo modo, producendo del rumore e cantando qualche verso propiziatorio, celebravano il solstizio invernale, ovverosia il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, o più genericamente dall’inverno alla primavera.
La tradizione è andata avanti con alterne vicende fino a quando, tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, proprio quando la società contadina si era del tutto dissolta, un gruppo di persone l’ha ripresa modificandola secondo i gusti del tempo: così il carrettino è diventato un rimorchio trainato da un trattore, su cui stanno decine di persone, chiamati “bottari”, che, percuotendo botti, falci e mastelli, accompagnano con i loro ritmi un moderno complessino di tastiere e chitarre; la vecchia canzone iterativa è stata sostituita da canzoni classiche napoletane oppure da canzoni moderne; da dieci a quindici carri percorrono in corteo le strade del paese, nei giorni dedicati alla festa del santo.
Il revival ha avuto grande successo, tanto che la festa si è raddoppiata, una a Macerata e l’altra a Portico, nel frattempo diventati comuni autonomi, ed è stata imitata in altre cittadine; inoltre, i “bottari” presenti nel territorio si sono moltiplicati fino a raggiungere il cospicuo numero di circa duemila unità.
Il rumore, generato dalle percussioni, prima improvvisato e caotico, ora è organizzato in modo da dar vita a tre tipi di ritmo, che servono ad accompagnare i canti. La riforma ha avuto un enorme successo, come testimonia la grande folla che assiste alla sfilata dei carri, manifestando spesso il suo entusiasmo con urla e grida che ricordano il pubblico dei grandi concerti pop [7].
Il fatto
Nel 2013, il signor Carmine Romano presenta al tribunale di Napoli un ricorso contro alcune associazioni del Casertano colpevoli, a suo dire, di violare i suoi diritti di copyright e di proprietà intellettuale. Egli è titolare di due marchi verbali registrati presso l’UIBM del Ministero dello Sviluppo Economico, costituiti dalle seguenti espressioni: “i bottari di Portico, i bottari”; “i bottari di…”. Poiché, partecipando a feste in cui la percussione di botti e falci è diventata l’aspetto principale, molti gruppi si fanno chiamare “bottari”, il signor Romano, ritenendosi leso nei suoi diritti, chiede sia fatto cessare immediatamente l’uso del nome “bottari” da parte di altri, che sia disposto il sequestro di tutto il materiale discografico e pubblicitario in genere, che sia fissata una somma di denaro da pagare per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento.
Le motivazioni che hanno spinto il signor Romano hanno probabilmente una loro ragione nel fatto che egli, insieme con altre persone, aveva costituito, anni prima, un gruppo di percussionisti, denominato “i bottari di Portico”, che fa parte di un complesso musicale; insomma, il marchio avrebbe potuto essere un elemento di garanzia per un’attività professionistica, che non può accettare una concorrenza molto diffusa e priva di regole.
Il 14/06/2013 il giudice monocratico del Tribunale di Napoli, III sezione civile, emette la seguente ordinanza, favorevole ai resistenti:
A parte qualche forzatura, come quella di “bottaro” definito “termine del campo musicale”, la sentenza si basa essenzialmente sui parametri del linguaggio corrente; è come se il giudice si fosse riferito a quei modelli linguistici e culturali, secondo i quali i sintagmi come “i bottari di Portico” o “i bottari di Macerata” possono equivalere a quelli di “Filarmonici di Vienna” e di “Filarmonici di Berlino”, visto che questi ultimi due sono sufficienti a distinguere un’orchestra sinfonica dall’altra e visto che nessuno ha avuto l’idea di far registrare come marchio il termine “filarmonici” per impedire che altre associazioni ed altri complessi strumentali lo usino. Quindi, partendo da tale presupposto, il giudice ha sentenziato che definirsi “Bottari di Macerata” è lecito perché non danneggia coloro che si fanno chiamare “Bottari di Portico” [8].
Leggendo la sentenza si ha la sensazione che la giurisprudenza non abbia mai sentito parlare né di tradizioni popolari, né di antropologia e che i giudici non sappiano che accanto alla cultura ufficiale, quella dei libri, è esistita ed esiste una cultura orale, “diversa”, diffusa presso le classi popolari, che ad essa si appoggiano e che da essa traggono le indicazioni per interpretare il mondo e vivere la loro vita. Solo facendo riferimento a questa cultura può essere capito il significato di “bottaro” e non ad un generico “campo musicale”. Il “bottaro”, infatti, per tre giorni l’anno è uno degli agenti fondamentali di un antico rito agrario; egli, percuotendo il suo peculiare strumento, produce quel rumore atto a salutare e a rimarcare un importante passaggio del ciclo dell’anno, come il solstizio invernale. La collettività che celebra il rito gli riconosce ampiamente tale ruolo. Ovviamente, quello del bottaro è un ruolo che può essere assunto da chiunque appartenga alla collettività.
Il problema racchiuso nell’episodio dei “bottari” di Portico e Macerata è ben povera cosa, risolvibile con un po’ di buon senso; ben altro è invece quello della appropriazione delle musiche tradizionali che sono i prodotti più volatili del repertorio folklorico. Fino alla prima metà del Novecento circa, c’è stato un continuo interscambio di “ascesa” e “discesa” tra cultura egemonica e cultura popolare. Nessuno si creava problemi, né accampava diritti di proprietà se la dantesca Pia de’ Tolomei diventava un personaggio importante del repertorio dei cantastorie e del teatro popolare; né tanto meno si parlava di plagio se Dante faceva cantare una sua ballata su una melodia già usata per un altro componimento [9]; oppure se un poligrafo come Giulio Cesare della Croce faceva sue le opere dei cantastorie che lo avevano preceduto; o ancora, se compositori come Haydn, Beethoven, Ciaikowski, Mahler (solo per citarne alcuni), riprendevano motivi popolari per i loro quartetti o le loro sinfonie, mentre i personaggi delle opere liriche fornivano, ai ceti popolari, suggerimenti per l’imposizione dei nomi ai bambini. Nell’epoca però in cui tutto diventa merce e questa si trasforma in denaro, ecco che anche la cultura è usata per creare profitto. Non mi riferisco all’uso corretto del copyright, ma al fatto che nell’ultimo mezzo secolo sono diventati “autori” tutti coloro che si sono accaparrati di materiale folklorico e lo hanno spacciato per opera propria, solo perché hanno cambiato le parole dei testi o perché hanno variato o armonizzato diversamente certe melodie [10].
Fino a qui ho cercato di dimostrare, pur se succintamente, che nell’uso della cultura popolare, come nell’uso della lingua, non possono esserci proprietari, ma solo utilizzatori temporanei; non c’è una proprietà individuale, bensì una proprietà collettiva, non ci sono persone che accampano diritti, ma al massimo persone che firmano quaderni in cui hanno copiato e modificato testi propri ed altrui, senza pretendere di esserne gli autori e di ricevere un corrispettivo compenso.
Ciononostante, però, la cultura popolare non è res nullius, come si potrebbe credere a prima vista: l’opinione che “siccome è di tutti, allora è di nessuno” non vale e chiunque si appropri di qualsiasi forma od oggetto della cultura popolare, anche di un termine, per fini di lucro o altro, commette un “furto”, ma nessuno, purtroppo, può denunziarlo ai Carabinieri.
Dagli anni ’60 del secolo scorso in poi, il folk-revival in Italia ha fatto conoscere in maniera diffusa il grande repertorio dell’espressività popolare. In questo modo, molti canti e molte danze, prima conosciuti solo tra gli abitanti di remote zone agricole, hanno avuto un pubblico vastissimo, sono stati valorizzati e probabilmente una gran parte di essi si è salvata dall’oblio. Ciò è stato senza dubbio molto positivo, ma a scapito spesso della living tradition. Altro danno è stato quello riguardante il fatto che molti dei protagonisti del folk-revival quando dovevano compilare i moduli della SIAE si attribuivano, come propria invenzione, musiche e testi tramandati dalle generazioni passate.
Da quanto ho detto, è chiaro che, secondo me, tutto ciò che è prodotto nel campo del folklore, come in quello della langue, non può diventare “proprietà individuale”. È anche vero, però, che questi prodotti, in determinate occasioni, riemergono dalla memoria dei singoli e della collettività, dove erano rimasti latenti per lungo tempo, si materializzano nuovamente in una voce, in un accompagnamento di tamburello, in una figura di danza, in una scena teatrale.
In questo caso, forse, è possibile attribuire la loro temporanea corporalità a chi gliela procura, che, per questa attività, dovrebbe essere ricompensato. Ma qui dovrebbero intervenire gli esperti, cioè gli uomini della giurisprudenza e i legislatori, che ci dovrebbero dire come è possibile impedire ad un singolo o ad un gruppo di appropriarsi di beni che sono di tutti e, nello stesso tempo, ripagare quelli che con il loro lavoro e la loro competenza riescono a ridare ad esse una qualche vitalità.
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