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Dèi del crepuscolo. Di Tomasi e altro
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 01:35 In Cultura,Letture | No Comments
Alla distanza il valore di uno scrittore viene inevitabilmente sempre misurato dalla qualità delle sue opere. Al di là delle risposte più o meno persuasive che esse possono dare alle domande poste dai diversi contesti, determinandone la diversa valutazione, il lavoro intellettuale in quelle oggettivato permane infatti come un dato prima o poi riconoscibile. Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, essendo tra l’altro trascorsi non pochi anni dalla sua prima pubblicazione, può essere oggi giudicato come uno di quei prodotti letterari il cui apprezzamento può essere riferito alla sua indubbia qualità.
Non sempre la fortuna di un’opera letteraria è data dal suo effettivo valore. Nel caso del romanzo di Tomasi non va dubbio che fattori estrinseci ne hanno favorito il successo. Fra questi sicuramente decisivo il fascino esercitato dall’appartenenza a un ceto le cui vicende ancora oggi sono suggestivamente percepite. Suggestione ancora più forte se l’opera viene percepita come autobiografica. Era appunto il suggerimento di Giorgio Bassani nel proporre Il Gattopardo ai lettori: «Accentrato quasi interamente attorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, in cui è da vedere un ritratto del bisnonno paterno, certo, ma forse ancor più un autoritratto, lirico e critico insieme, il suo romanzo concede assai poco, e questo poco non senza sorriso, alla trama, all’intreccio, al romanzesco, così cari a tutta la narrativa europea dell’Ottocento» (Bassani 1958:12). In questo modo si annunciava la nube mitica che ancora si addensa sull’opera di Tomasi e sulla sua rappresentazione della Sicilia.
La presentazione del protagonista del romanzo come autoritratto di Tomasi, opinione dai più condivisa, è argomento che merita più meditato discorso. Non solo ai fini della individuazione del reale valore antropologico e sociologico del Gattopardo, ma anche e soprattutto per una sua più pertinente valutazione come prodotto letterario. Il riconoscimento delle identità individuali (non meno che collettive) è operazione sempre molto complessa, segnatamente se si tratta di personalità di singolare spessore. Il caso appunto di Tomasi come uomo e come scrittore. La ragione di fondo consiste nella evidenza che tutte le identità, sia pure in successione dinamica diversa, non sono un fatto ma un farsi, si vengono cioè definendo nella progressione dei soggetti interessati. Come è stato lucidamente intravisto: in un flusso continuo attraverso molteplici canali che creano molteplici versioni, «migliaia di memi, nella maggior parte trasportati dal linguaggio, ma anche da ‘immagini’ o altre strutture di dati, stabiliscono la loro residenza in un cervello individuale, forgiando le sue tendenze e trasformandolo quindi in una mente» (Dennet 1993: 284).
Nel teatro della vita come nelle fiabe e nei miti le qualificazioni delle personae non determinano ma sono determinate dalle loro azioni, in particolare quando ‘funzionali’ al corso delle vicende, reali o immaginarie. Anche a volere in ipotesi considerare le identità come costanti e non come variabili, si hanno, come già detto, in ciascun individuo quanto meno quattro identità più o meno coincidenti o distanti: come egli è, come si rappresenta, come è rappresentato dagli altri, come vorrebbe essere. Dato ancora più complesso quando si voglia individuare la personalità di uno scrittore dai caratteri dei suoi personaggi tanto più se ritenuti autobiografici.
Bachtin, ponendosi il problema del rapporto tra autori e personaggi in opere nelle quali gli elementi autobiografici sono evidenti, ha avvertito l’errore in cui incorrono i critici letterari.
Seguendo Bachtin e tenuto conto di quanto detto prima, alle altre articolazioni identificative di Tomasi bisogna aggiungere il Tomasi autore. La rappresentazione di questo intreccio, nel Principe di Salina, risulta conseguenzialmente assai problematica, considerando anche che la personalità di Tomasi uomo e scrittore era duplice come testimoniato da Gioacchino Lanza Tomasi:
A questo doppio essere dell’uomo si accompagnava, continua Lanza Tomasi, quello del letterato:
A questo punto solo semplicisticamente la complessa personalità di Tomasi può essere considerata omologa a quella di Don Fabrizio. Tomasi apparteneva a un ceto che era stato emarginato: di fatto economicamente e politicamente cancel- lato, dall’affermarsi di una borghesia, in prevalenza commerciale e impiegatizia. Il Principe di Salina, al contrario, aveva scelto di emarginarsi pur conservando il suo status. Tomasi testimoniava nella scrittura, dunque in un fare, una certa rappresentazione di se stesso come di un disincantato cercatore di miti. La sirena ne è una evidente metafora: come oltremodo illuminante è l’abbandono dei primitivi interessi storiografici per quelli letterari (Orlando 1996: 16). Salina è il mito che si celebra e che si realizza negandosi come soggetto storico sottomesso al tempo e affermandosi come simbolo, dunque ponendosi fuori dal tempo.
In via pregiudiziale Bachtin non giudica scientificamente improduttivo il confronto tra la biografia dell’eroe e quella dell’autore. Egli respinge drasticamente la confusione tra l’autore-creatore (momento dell’opera) e l’autore-uomo (momento etico), nella convinzione che questo percorso metodologico porti soltanto alla incomprensione e al travisamento della personalità etica e biografica dell’autore e nello stesso tempo dell’opera e dell’eroe. La ragione è evidente:
L’omologazione Tomasi-Principe di Salina non appare utile ai fini dell’analisi del Gattopardo come costruzione letteraria. D’altra parte, si può osservare che elementi autobiografici si rintracciano anche in altri personaggi. Francesco Orlando, a proposito di alcuni giudizi di Tomasi, ha opportunamente osservato:
In Giovanni, in sostanza, riverberava un Tomasi sconosciuto: quello che avrebbe voluto essere e non era. Quella di Tomasi era una personalità articolata che emerge con maggiore o minore coerenza in diversi personaggi dell’opera. Un rispecchiamento delle idee politiche di Tomasi si può cogliere perfino in Chevalley, nel lapsus in cui egli incorre all’inizio della sua conversazione con don Fabrizio: «Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna». D’altra parte sono da distinguere, relativamente alla sostanza del contenuto e allo spessore ideologico quale si dissimula nei comportamenti dei personaggi, i livelli dello schema, della norma, dell’uso, della parole. La rappresentazione mitica che Salina dà della Sicilia e dei Siciliani è una delle strutture portanti della assiologia di gran parte della società intellettuale dell’Isola, quantomeno dal XIX secolo in poi (Vitello 1987: 357 ss.; Buttitta 1995). Si tratta sicuramente di un aspetto significativo del Gattopardo. La sua coerenza, pertanto, con l’orizzonte culturale della collettività ne esclude la assunzione a tratto caratterizzante l’opera. Riconoscerlo come specifico non è di grande utilità per la identificazione dei connotati ideologici e artistici del romanzo. Di quale opera si potrebbe negare lo stretto rapporto, anche quando trasgressivo, con la società del suo tempo? Di quale si potrebbero ignorare i momenti autobiografici? Un romanzo però, se è un romanzo, non può essere solo questo.
Ecco perché, a dispetto dello stesso Tomasi che ne era un convinto assertore (Orlando 1996: 49-50, 84 ss.), la critica biografica, esitando sempre nell’ovvio, finisce con il precludere la comprensione delle opere letterarie e artistiche in quanto tali.
In definitiva falsificano tanto l’uomo quanto l’autore.
Quello che Tomasi avrebbe detto non lo sapremo mai. La risposta possiamo tuttavia trovarla in analoghe esperienze. La nobel sudafricana Nadine Gordimer, il cui realismo politico in narrativa è noto, a proposito di chi vuole vedere a ogni costo nei romanzi un resoconto di fatti e personaggi reali, si è polemicamente chiesta:
La stessa Gordimer, raccontando della sua giovanile curiosità per la corrispondenza tra i personaggi di Lawrence e persone reali, individuando i limiti di questo tipo di interesse, scrive:
Nel Principe di Salina, come rappresentato da Tomasi, scompaiono il Salina storico e l’uomo Tomasi. L’identità dei personaggi letterari, anche quando ispirati da intenti autobiografici, è sempre il risultato della sommatoria di una molteplicità di esperienze non solo concrete, ma anche letterarie. È una concettualizzazione espressa in figure alla cui base sta sempre un processo di selezione che mette insieme ‘differenze’. È un discretum rispetto al continuum della realtà le cui coordinate spaziali e temporali, il sistema dei valori, i modelli culturali in genere che lo determinano, come è ovvio, appartengono esclusivamente agli autori. In questo senso tutti i personaggi da loro creati ne testimoniano la biografia intellettuale.
Per intenderla bisogna risalire alle tecniche della sua elaborazione, percorso «possibile […] soltanto se prima si capisce il principio esteticamente produttivo del rapporto dell’autore con l’eroe» (ibidem). L’indicazione di Bachtin non deve tuttavia essere scolasticamente assunta. È ovvio infatti che il criterio da lui suggerito ai fini della corretta analisi del rapporto autore-eroe non può prescindere dal rapporto, non meno concreto, dell’autore con il suo mondo sociale. Anche se autore-uomo/autore-eroe non coincidono, il loro, sebbene conflittuale, è pur sempre un rapporto attivo. Sicuramente questa è materia per antropologi e sociologi della letteratura. Il punto di vista dello studioso del Gattopardo, come di qualsiasi altro romanzo in quanto prodotto letterario, non può comunque ignorarne le radici culturali anche se è chiamato a illuminarne la fattura e la qualità artistica.
Autori come Tomasi, Piccolo, Fulco di Verdura, Corrado Fatta, se considerati sotto il profilo documentario sono solo testimoni improbabili di una società sconfitta, prima che dagli altri, dal loro rifiuto della storia, dal loro volontario esiliarsi nel mito. Sono dèi del crepuscolo, quantomeno così sono stati vissuti da chi ha avuto la fortuna di avvicinarli. Solo gli scrittori – come pensava Tomasi – «più correnti e modesti danno una giusta idea della mentalità di un’epoca» (Orlando 1996: 19). Ciò che al critico di Tomasi deve stare a cuore, se vuole intenderne l’opera, è la diversità rispetto alla cultura della società in essa rappresentata. Non a caso, dal suo migliore allievo considerata frivola e analfabeta (ivi, 10). Nel romanzo di Tomasi, valutato nella sua realtà di prodotto letterario, si riflette significativamente la struttura formale più raffinata della tradizione narrativa dell’Occidente. È rispetto a questa che esso va misurato, in questa vanno ricercati gli intrami e gli stami del suo ordito costruttivo e dei suoi esiti stilistici. Al suo interno sono da individuare quindi i percorsi attraverso i quali i singoli personaggi, a partire da Don Fabrizio, indiziano la propria identità.
È del tutto improprio qualsiasi diretto rapporto diretto dell’opera di Tomasi con la letteratura siciliana o italiana. La sua ‘sicilianità’, che è solo nel tema, è da un punto di vista storico-letterario irrilevante (Orlando 1996: 87). È significativo che a Tomasi fosse estraneo un autore come Ariosto (ivi: 17) nelle cui immagini tra il mitico e l’ironico avrebbe potuto trovare talune consonanze. Fulco di Verdura – scrittore meno conosciuto ma non meno raffinato di Tomasi, duca e nipote di Maria Favara, principessa di Niscemi, l’Angelica Sedàra di Tomasi – testimonia le letture fin dalla prima formazione, riviste e libri per la più parte in francese e in inglese, della ristretta cerchia aristocratica cui Tomasi apparteneva (di Verdura 1977: passim). Non a caso i suoi autori preferiti, come ha ricordato Orlando, rimasero sempre Montaigne, Shakespeare, Pascal, Racine, Swift, Saint-Simon, Goethe, Stendhal, Dickens, Dostoevskij, Proust. La storia della letteratura italiana invece, da Tasso alla prima guerra mondiale, «gli appariva come quella di un progressivo improvincialimento» (Orlando 1996: 38).
Il potere di uno scrittore, ha giustamente affermato Toni Morrison, sta nella sua abilità «di immaginare ciò che è diverso da sé» (Morrison 1994: 17). Don Fabrizio per fortuna non era il ritratto di Tomasi uomo. Ne era una trasfigurazione operata da Tomasi autore. Qui dunque bisogna cercare i connotati della sua identità. Le lezioni di letteratura inglese «costituiscono il documento di gran lunga più ampio e significativo» dell’uomo e del mondo di Lampedusa; non Il Gattopardo (Lanza Tomasi 1990: XXXIII). È lì che vanno ricercati i fondamenti del suo mestiere narrativo, della
Gli dèi si consegnano al crepuscolo quando si lasciano irretire dalle ombre del passato. Tomasi, innegabilmente, come uomo, in questa pallida luce respirava, perché, non molto diversamente da Don Fabrizio, scolpito in «un’alba di stagno». Eppure, se gli dèi del crepuscolo sono, come Tomasi, perdenti eroi di miti, può loro accadere, nel gioco agostiniano del tempo, di anticiparlo. Probabilmente, la percezione di questo fatto è l’unico canale per intenderne l’identità. Il loro preteso attardamento è in realtà una lezione di modernità scandita con voce antica: voce sempre attuale dunque ‘classica’; una testimonianza di civiltà intellettuale che il nostro tempo liquiderebbe, se non lo ha già fatto, come post-moderna. Ma tra noi c’è ancora chi, come Gioacchino Lanza Tomasi, riesce a indovinare la luce nelle ombre del crepuscolo.
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