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Dazi commerciali e poli del Mondo globale

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 01:28 In Attualità,Letture | No Comments

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Franz Borghese, Giocatori di dadi, 1980

di Valeria Dell’Orzo

Tra le grandi questioni capaci di modellare la quotidianità internazionale vi è di certo il capitalismo globalizzato, un fenomeno che, come è facilmente comprensibile, non investe il mero e semplice spettro economico delle società, ma che invece ne travolge la totalità delle interconnessioni culturali, socio-relazionali, rappresentative e auto-rappresentative; plasma la storia, il pensiero concreto e quello astratto. L’economia del capitalismo globalizzato è parte integrante della realtà umana e antropologica, sociologica e ambientale dei nostri tempi, porta con sé la diffusione di modelli di vita genericamente e impersonalmente dettati e regge la credibilità internazionale delle potenze mondiali in campo.

È in questa complessità che lega l’economia globalizzata alle espressioni di relazione socio-internazionali, nella forza del suo impatto e delle sue espressioni di resilienza che, seguendo le riflessioni di Chris Hann e Keith Hart (2011) occorre osservare gli smottamenti odierni per leggere insieme la doppia trama che li tesse, sul piano monetario e su quello sociologico, avvinti in un legame carsico, serratosi sempre più nel corso della frenetica e mercificata era contemporanea.

Le recenti tensioni che intercorrono tra la Cina e gli Stati Uniti sono molto di più di meri accordi e di un braccio di ferro tra due grandi economie, sono il riverbero di nuovi assetti o della ricerca di questi, sul piano della globalizzazione. Iniziato durante la campagna elettorale di Donald Trump, il piano degli attacchi economici è volto a minare l’impero commerciale della Cina basato, secondo l’accusa degli Stati Uniti, su un sistema di compravendita iniquo, capace di debilitare i Paesi coinvolti negli scambi introducendo nei mercati esteri merci dal bassissimo costo, eccessivamente competitive rispetto a quelle prodotte nei Paesi compratori. La Cina è accusata anche di essere responsabile di cyber spionaggio e del trasferimento di informazioni riservate in campo tecnologico, esulanti dagli scambi e dalla cooperazione proposta.

Layout 1Nel settembre del 2018, imponendo dazi del 10% [1] su molti dei prodotti che dalla Cina affluiscono abitualmente sul mercato americano, Trump ha di fatto sferrato il primo colpo di una battaglia di ultima generazione, capace di scatenare dissesti e disastri sociali, di flettere i Paesi in gioco piegandoli dall’interno del loro sistema economico, senza ricorrere all’utilizzo di armi, mezzi e militari, ma scatenando la violenza interna dell’impoverimento.

Se l’attuale governo americano palesa un ostentato machismo, quello cinese, a differenza di altri Paesi, quali il Messico e il Canada [2], non ha potuto fingere una resa, e si è trovato costretto a rispondere colpo su colpo, a costo di rasentare il crollo economico e rischiare la svalutazione monetaria per consentire il proseguire delle esportazioni su cui poggia l’economia nazionale, pur di non mostrare ai propri cittadini una debolezza capace di sovvertire un equilibrio interno già fragile e di dar forza agli avversari politici, svilendo la propria potenza agli occhi di una popolazione culturalmente propensa a vedere nella sconfitta una vergogna avvilente.

«Separare l’economia dalla politica e sottrarre la prima agli interventi regolatori della seconda comporta la totale perdita di potere della politica, e fa prevedere ben altro che una semplice ridistribuzione del potere nella società» sottolineava Bauman (2005: 77), e il governo del presidente cinese Xi Jinping questo potere non intende perderlo, ancor meno col disonore di una sconfitta concessa senza lottare.

23All’attacco partito dagli USA, come era prevedibile, ha fatto così seguito la controffensiva cinese che a sua volta ha tassato i principali prodotti commerciali statunitensi che abitualmente affluiscono nel mercato del grande Paese asiatico. Bloccare la diffusione delle merci straniere, sovraccaricandole di dazi doganali per renderne proibitivo l’acquisto da parte degli acquirenti locali, è stato però solo il primo passo di uno scontro commerciale che porta in sé conseguenze molto più profonde.

Compensare le perdite economiche causate dall’aumento delle imposte di accesso al mercato comporta la necessità di aumentare il prezzo dei propri prodotti anche in patria, riducendo la possibilità di acquisto, innescando la diminuzione delle vendite e della diffusione mediatica del prodotto che smette così di rappresentare la società di appartenenza.

I colossi dell’economia del mondo globalizzato, veri e propri status symbol dell’era 4.0, vedono sgretolarsi colpo su colpo il proprio potere di traino socio-culturale. I feticci contemporanei, prodotti dall’industria alimentare come da quella tecnologica rischiano di perdere terreno e con loro i Paesi di provenienza vedono ridursi la capacità attrattiva esercitata sul Secondo, Terzo e Quarto Mondo, indotti dal desiderio, non delle merci ma del modello di vita che da queste viene proposto, a ambire a far parte di quel primo, ricco e opulento mondo che sulla frenesia produttiva e sulla diffusione dei propri modelli culturali ha basato la sua leadership globale.

Se si sofferma l’attenzione non sulle specifiche mosse monetarie, ma sulla loro capacità di riverberarsi sul piano internazionale, appare evidente che il braccio di ferro che vede impegnati gli Stati Uniti e la Cina ha di fatto avviato una tensione al vertice della globalizzazione. Da sempre capitanata dalla potenza americana, la capacità di offrirsi e mostrarsi quale punto di riferimento all’interno del villaggio globale ha fatto sì che non solo sulla necessità di una fuga o sulla speranza di una vita sicura e dignitosa si basassero le migrazioni contemporanee, ma anche sul tentativo di raggiungere quello stile di vita stereotipato, cresciuto lungo i nodi di un esoscheletro mediatico.

2Se i marchi di punta dell’economia degli Stati Uniti, feticci del sogno americano nel mondo, non raggiungono più la grande Cina, o diventano inaccessibili, possono trasformarsi in un oggetto del desiderio che ha in nuce molto più dell’iconica bevanda zuccherina o di un automobile, ma possono anche scivolare nel baratro del consumismo che fagocita ogni cosa passi di moda. Specularmente se i prodotti trainanti dell’impero commerciale cinese smettono di avere accesso alla grande distribuzione americana, l’economia nazionale, che delle vendite su larghissima scala a prezzi contenuti ha fatto il suo stile produttivo e economico-socio-culturale, punterà verso il crollo.

Quello che però sta accadendo mostra in realtà la fragilità insita nel sistema del potere globalizzato: riducendo ulteriormente i prezzi dei propri prodotti e incrementando l’esportazione verso altri poli, sia pur meno influenti, del mondo globalizzato, quali il Canada e diffusamente l’Europa, la Cina potrebbe sferrare un duro colpo al primato americano, rimasto fuori per sua scelta dall’acquisto di prodotti di largo consumo a basso prezzo.

Le conseguenze di questa sterzata mediatico-commerciale rappresentano il vero rischio per la globalizzata egemonia statunitense sul mondo che potrebbe vedersi scalzare dal ruolo di capofila e cedere il passo a nuove economie più audaci, dilaganti e attraenti, spostando l’asse del potere di traino verso la potenza della grande e silenziosa Cina, poiché «i consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e derivato» (Bauman, 2005: 93), e se la sensazione del potere dilagante delle merci trasformate in feticci dello specchio globale si spostasse dal mercato americano a quello cinese, per il primo sarebbe arduo mantenere il potere attrattivo che veicola l’immagine di una Nazione trainante e di un sistema di vita socio culturale a cui ambire.

3In questo conflitto, come in altre politiche nazionali e internazionali contemporanee, la veemenza di alcuni governi verso bersagli che appaiono fragili e facilmente predabili, riflette il vuoto su cui certi consensi hanno poggiato le proprie fondamenta: «Chi è insicuro tende a cercare febbrilmente un bersaglio su cui scaricare l’ansia accumulata e a ristabilire la perduta fiducia in sé stesso cercando di placare quel senso di impotenza che è offensivo, spaventoso e umiliante» (Bauman, 2009: 153).

Una seconda mossa della lotta commerciale globale ingaggiata dal governo Trump ha recentemente spostato la questione anche su un secondo fronte, quello indiano, accusando lo Stato di non offrire agli USA un accesso paritario, equo e ragionevole ai suoi mercati. Il 5 giugno gli Stati Uniti hanno infatti escluso l’India dal Generalized System of Preferences (Gsp), l’elenco dei Paesi in via di sviluppo creato nel 1976 con l’intento dichiarato di ridurre, attraverso un commercio agevolato, i tassi di povertà dei Paesi che maggiormente necessitano di un sostegno internazionale. L’esclusione da questo elenco comporta la conseguente perdita delle agevolazioni commerciali destinate a favorirne la rimonta economica, e l’introduzione di una tassazione che difficilmente può essere sostenuta da Paesi dall’economia ancora non abbastanza competitiva.

5La risposta indiana però, al pari di quella cinese, mostra tutta la pericolosità della battaglia economica che gli USA stanno portando avanti. Anche l’India, con la forza di un’economia fragile sì, ma in crescita e volta a un’orgogliosa e silenziosa affermazione, all’imposizione dei dazi doganali sui propri prodotti ha risposto con una mirata tassazione di merci americane, introducendo imposizioni fiscali che ne aumentano il prezzo di mercato fino al 70%, con un conseguente drastico crollo delle vendite statunitensi sul popoloso suolo indiano.

L’era dell’Antropocene descritta da Thomas Eriksen (2017) vede nell’iniquità l’essenza più cupa della realtà del villaggio globale che tutti noi abitiamo, una dimensione troppo densa, troppo surriscaldata, troppo rapida, scossa dal bipolare scorrere di una standardizzazione mediaticamente indotta e un individualismo sollecitato a resistere o a competere. Uno stravolgimento ai vertici del potere del mondo globale, innescato da uno smottamento all’apice dell’economia internazionale, offrirebbe nuovi scenari di indagine, aprendo la realtà contemporanea a riformulati equilibri e al delinearsi di nuove strutture sociali e personali, frutto di una contestuale dimensione socio-politica e economica ristrutturata.

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Caravaggio, I bari, 1594

Il possibile capovolgimento, economico e sociale, che si prospetta con l’azzardata mossa statunitense potrebbe limitarsi a sovvertire l’ordine gerarchico dei Paesi di traino nel mondo globalizzato, ma potrebbe anche, se opportunamente amministrato da tutte le parti in gioco, portare a quell’auspicata dimensione economica che Karl Polanyi ci ha lasciato tra le pagine di Per un nuovo Occidente, quella di un sistema monetario e commerciale non centralizzato, ma basato invece sull’estensione di un concetto economico concretamente cooperativo, volto a un comune progresso umano, coralmente condiviso e alimentato, in grado di coinvolgere il campo della produzione, della tecnologia e, per estensione antropologica, della cultura e delle umane realtà  del mondo contemporaneo.

Il sovvertimento che occhieggia tra le manovre economiche delle potenze impegnate a fronteggiarsi in questa battaglia commerciale, lascia spazio alla riformulazione del capitalismo contemporaneo, e così a quella delle falle monetarie e di sviluppo che la globalizzazione ha trascinato come una rete su tutte le realtà socio-geografiche, offrendo a un’umanità dispersa e disorientata la possibilità di dare forma a nuove e più eque politiche economiche nonché a più lungimiranti strategie socio-culturali (Mazzucato, Jacobs, 2017).

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note     
[1] Reciprocamente aumentati, a oggi, a ridosso di un proibitivo 25% a partire dal 10 maggio 2019. I dazi sono stati assegnati da entrambi i Paesi ai prodotti di maggior esportazione intaccando la vendita estera e compromettendo, ambo i lati, il bilancio economico complessivo.
2 I due Paesi, di fronte alle eclatanti provocazioni statunitensi hanno di fatto simulato la resa dichiarando di accettare condizioni per le quali, in realtà, erano già stati presi accordi in precedenza, sia pure con lievi modifiche non incisive sul piano complessivo. Il riscontro mediatico ottenuto da Trump ha fatto sì che non avesse interesse a inasprire oltre i rapporti coi Paesi confinanti, dall’altra parte un finto cedere alla potenza americana ha assicurato il raggiungimento di accordi favorevoli alle proprie economie.
Riferimenti bibliografici
Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Zygmunt Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari, 2009.
Thomas Hylland Eriksen, Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino, 2017.
Chris Hann, Keith Hart, Antropologia economica. Storia, etnografia, critica, Einaudi, Torino, 2011.
M. Mazzucato, M. Jacobs (a cura di), Ripensare il capitalismo, Laterza, Roma-Bari, 2017.
Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958, Il Saggiatore, Milano, 2013.
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.

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