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Dalla “sindrome della lumaca” alla “sindrome del paguro”
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2022 @ 00:25 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Settimio Adriani e Alina Di Mattia
Dai paesi si parte, si migra, si fugge. Tuttavia, secondo Cesare Pavese, «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» [1].
Lo scrittore piemontese dà voce ad Anguilla, il protagonista del romanzo La luna e i falò, per descrivere come il paese resti in attesa dei ritorni. Di lui non si conosce alcunché, né il vero nome né l’identità, è soltanto un bastardo che non somiglia a nessuno dei suoi compaesani; non è «sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio [della] capra» [2].
L’uomo aveva lasciato il paese da giovane, per esplorare il mondo al di là delle colline che da sempre avevano circoscritto il suo sguardo. Arrivato a quarant’anni, quando ormai aveva accumulato l’esperienza e l’agiatezza che la vita paesana gli avrebbe sicuramente negato, fu assalito dalla nostalgia per la sua terra d’origine; ebbe quindi la curiosità di vedere come l’avrebbero accolto nella nuova veste i compaesani, che lo avevano sempre considerato un «servitore e bastardo» [3].
Tornato a casa, gli bastò poco per vedere svanire l’incanto infantile impresso nella sua memoria. Non c’erano più le sorellastre Angiolina e Giulia, e neppure Silvia, Irene, Santina e la cascina della Mora. Si ritrovò praticamente solo, e all’incanto subentrò immediatamente la triste rassegnazione dell’età adulta. Ad accoglierlo c’erano soltanto «Nuto il falegname» [4], suo vecchio compagno d’infanzia, «che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle» [5], c’era la luna, che non era cambiata, anzi, aveva avuto la pazienza di aspettarlo così come era stata lasciata, e c’era ancora la tradizione dei falò, antico rito propiziatorio della fertilità dei campi.
Ma non sempre chi lascia il paese ha voglia di tornarci come Anguilla. Che ci siano il ritorno o l’abbandono definitivo, si manifesta sempre e comunque un «complesso di sintomi che caratterizzano [l’allontanamento]» [6], una vera e propria “sindrome” specifica e diversificata a seconda dei casi. Infatti, a fronte di chi parte con la morte nel cuore, poiché mai avrebbe voluto lasciare la propria terra, si contrappone chi fugge liberandosi definitivamente dalla morsa della ristrettezza degli orizzonti.
La prima forma è forse quella più struggente, perché ad essa sono legati i sentimenti della malinconia dovuta al distacco, della nostalgia per la terra e gli affetti. L’antropologa Letizia Bindi la tratteggia rievocando Carlo Levi, e narrando dei migranti con la valigia di cartone sul treno in partenza eppure già impazienti di tornare. Ognuno di essi, anche quando è altrove, fa del tutto per sentirsi a casa, la sua casa, quella delle radici: «I treni [dei migranti] ci rappresentano scene di ri-familiarizzazione e ri-appaesamento, pur nello spazio semovente del vagone, una sorta di “sindrome della lumaca” per cui ognuno porta con sé, nella diaspora, ciò che gli appartiene e lo contrassegna e che per ciò stesso dà nuova forza e sostanza al suo “esser-ci”» [7].
In tale ottica sono ri-familiarizzazione e ri-appaesamento gli incontri tra compaesani fuori porta e tra connazionali oltreconfine. Le loro speranze e i loro obiettivi di “ritorno” si concretizzano, immancabilmente, in occasione del Natale e delle ferie estive, della festa del santo patrono, delle nascite, dei matrimoni e dei funerali. Sono ri-familiarizzazione e ri-appaesamento anche le scorte preparate dalle mamme del sud ai figli migrati al nord per studiare [8]; lo sono il vino, il pane, l’olio, i due polli vivi e i quattro chili di spaghetti di Totò e Peppino che da Napoli raggiungono Milano soltanto per tre giorni [9].
Chi è affetto dalla sindrome della lumaca porta sempre con sé la “propria casa”, ovunque e comunque, al pari dell’animale che a quella “patologia del sentimento” conferisce il nome. C’è però un altro animale in grado di suggerire un differente atteggiamento umano, quello di chi lascia definitivamente, di chi fugge dalle radici e parte con la certezza di star meglio altrove, di chi ambisce al fuori porta, all’oltreconfine, e fa come i paguri, che «vivono per lo più nelle conchiglie vuote di [altri]» [10].
Se è vero che dalle nostre parti abbondano i sofferenti di sindrome della lumaca, è altrettanto vero che non mancano gli ammalati di sindrome del paguro [11], «complesso di sintomi» [12] che così ci piace chiamare per analogia biologica [13] con l’altra forma. È proprio su questi ultimi che si concentra, con maggior frequenza, la critica attenzione dei fiamignanesi nelle chiacchiere dei capannelli di piazza [14], perché è principalmente dal loro comportamento che deriva la sensazione dell’abbandono. Per avere un’idea a riguardo torna utile una notazione di Pietro Clemente che, riferendosi esplicitamente a Fiamignano e trattando i temporanei e meno dolorosi “abbandoni di fine estate” da parte di coloro che certamente torneranno, descrive così questo sentimento: «in una montagna appenninica come quella di Fiamignano il passaggio dai 100 abitanti – di cui molti pendolari – ai 1.000 abitanti dei mesi estivi è una esperienza quasi traumatica. E la fine dell’estate è una esperienza di quasi abbandono per chi resta» [15].
Col passare del tempo, degli ammalati da sindrome del paguro si perdono però le tracce e l’appartenenza, e con esse si perde anche la stima dei pochi che ancora li ricordano e tendono a sostenere, con amarezza e arbitrarietà, che «nelle [conchiglie altrui] ricoverano il loro addome molle» [16]. La reazione emotiva verso l’abbandono definitivo non è mai tenera! Nel volgere di una generazione «Qui nel paese [quasi] più nessuno si ricorda di [loro]» [17].
La memoria degli esuli definitivi e delle loro famiglie di appartenenza resiste soltanto tra i più attempati; come accaduto ad Anguilla, resta più marcato il ricordo dei loro soprannomi, che li tratteggiavano perfettamente, li collocavano dal punto di vista genealogico e li rendevano parte integrante della comunità ripudiata.
Tutto ciò si sta concretamente sperimentando a Fiamignano: che fine avranno fatto Renato Zuzù, Vincenzo ‘u Pullu, Edoardo Unchiccu, Mario Pistolìttu e Maurizio Pigisù? Tutti partiti da giovani e mai più tornati. Nelle comunità che li hanno ospitati e in cui si sono accasati questi paguri hanno avuto maggiore rilevanza rispetto a quella che avevano nel paese d’origine? Sono andati incontro alla malasorte di Angiolina e Giulia, che da giovani sopravvivevano rubacchiando la polenta della tenuta Gaminella, oppure hanno avuto la fortuna del fuggitivo Anguilla?
Non è dato sapere, tuttavia i Nuto, la luna e i falò “de’ noantri” continuano ad aspettare, immutati, il loro improbabile ritorno.
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