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Dalla Padania tribale alla Nazione sovrana: l’identità secondo la Lega

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 01:29 In Cultura,Politica | No Comments

copertinadi Francesco David

Sin dalle sue origini, nei primi anni 90, la Lega si identifica come un movimento federalista e indipendentista. Grazie alla visione politica di Umberto Bossi, il quale ne è stato segretario per oltre 20 anni, essa intende tutelare gli interessi di una macro-area regionale dell’Italia settentrionale, denominata significativamente “Padania”, tramite richieste che oscillano dalla devolution all’autonomia regionale, dal federalismo alla secessione dallo Stato italiano.

In questo senso, la Lega di Bossi introduce una nuova dimensione politica, che non solo si distingue dalle precedenti, ma agisce anche su un piano diverso, cioè quello “etnico”. Si tratta di un fenomeno politico, quanto storico e culturale. La caduta del Muro di Berlino e la fine delle grandi narrazioni del Novecento, come il comunismo e il socialismo, associato agli effetti espansivi della globalizzazione, che hanno indebolito il sistema capitalistico tradizionale e territoriale e hanno messo in crisi anche lo Stato-nazione, sono tra le cause che hanno condotto all’emergere di “localismi” e “particolarismi” di vario genere. Su questo scenario, in un’Italia che ancora stentava a pensarsi davvero come nazione e che non è mai stata in grado di fare i conti con il proprio passato, Bossi e i suoi lanciano l’opzione etnica come forma di novità e di resistenza (Aime, 2012:VII).

In effetti, sembra che in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, dominato dalla paura dell’omologazione e della scomparsa di ogni specificità, «una cosa che non sta accadendo è la scomparsa dei confini» (Friedman, 1999:241). Anzi, si può dire che ne sorgano sempre di nuovi. Confini come quelli proposti dalla Lega, ovvero confini etnici in contrapposizione ai confini nazionali, confini che delimiterebbero un territorio abitato da gruppi umani i quali si rifanno ad antenati atavici, provenienti dal Nord e orgogliosi dei propri costumi e delle proprie tradizioni.

«Connettendosi a un immaginario che fonde storia, mitologia e folclore in modo assolutamente arbitrario e originale, la Lega ha prodotto una nuova forma di nazionalismo, basato su un’identità di tipo etnico, quella padana, frutto di un’invenzione, come però è frutto di invenzione gran parte delle identità etniche o nazionali» (Aime, 2012: VII).

È quello che può essere definito «l’etno-nazionalismo» (Connor, 1995) della Lega, il nazionalismo su base etnica, ovvero la concezione ideologico-politica secondo cui è l’etnicità a costituire il criterio fondante della nazione. Tale rappresentazione etnica del nazionalismo si fonda sui valori di identità, radici, tradizione, caratteri che fanno della Lega un fenomeno con forti richiami a forme di fondamentalismo culturale e identitario. Alla base della politica leghista, infatti, si potrebbe riconoscere quella che Remotti (2010) definisce «ossessione identitaria», cioè la necessità di costruire un’identità culturale pura, integra, un’identità del “noi” che è di per sé escludente e può portare a forme di xenofobia o, addirittura, di razzismo. Non a caso, la retorica leghista è sempre stata contraddistinta da un tipo di linguaggio proteso al riconoscimento e all’esclusione dell’altro, dello straniero, attraverso slogan di carattere razzista. Al grido «Prima il Nord!», ad esempio, si sono sovente accompagnate rappresentazioni discriminatorie nei confronti dello Stato-centrale, di «Roma Ladrona!» e delle popolazioni dell’Italia meridionale.

2Tutto ciò è ben messo in evidenza dall’antropologo italiano Marco Aime, il quale, in Verdi tribù del Nord. La Lega vista da un antropologo (2012), tenta di spiegare in chiave antropologica la politica popolare e populista della Lega. Egli analizza le retoriche che accompagnano la costruzione dell’immaginario leghista riscontrandovi un continuo oscillare tra concezioni vecchie spacciate per novità e, viceversa, elementi nuovi presentati come tradizionali. L’attacco alla nazione in favore di realtà etniche o tribali, in questo senso, non è un ritorno al passato, ma è un segno della nostra modernità, indica quella che può essere definita la «balcanizzazione globalizzata» (Amselle, 2001) nella quale viviamo. Una situazione di crescente etnicizzazione della società che produce un ritorno a forme di “tribalismo”.

Il concetto di tribalismo, utilizzato di frequente per indicare gruppi sociali con una forte identità culturale, che li unisce ai propri simili e li separa da altri gruppi, può ben essere adoperato per spiegare la nascita in tutta Europa di localismi di carattere etnico costruiti sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia e sull’appartenenza culturale. Aime, infatti, adopera il termine tribù sulla base di quanto affermato da Nadel (1947), il quale la definisce come «un’unità sociale i cui membri affermano di appartenere a un’unità sociale», rivelando così la dinamicità e la precarietà dei confini, persino quelli definiti su base culturale o linguistica. Se, come sostiene ancora Nadel, un gruppo etnico non può mai essere definito in maniera oggettiva, e sarebbe dunque il «progetto» a fare la tribù, la Lega allora, nel costruirsi e nel riconoscersi, anche se in maniera arbitraria, come una comunità culturale omogenea, con una storia ben determinata e una forte identità, si presta bene alla rappresentazione di una tribù della postmodernità. L’invenzione della Padania come entità territoriale e culturale, il mito federalista e indipendentista in senso millenaristico, l’uso di un linguaggio forte e volgarizzato associato ad una retorica contraddittoria, la ritualità fondata sull’appartenenza alla terra, come ad esempio il rito dell’ampolla dell’acqua del Po, sono alcune delle caratteristiche della tribù leghista.

Il «tribalismo padano», in sostanza, si caratterizza per essere il prodotto di una forma ideologica di “etno-nazionalismo”, o più specificatamente, di “etno-regionalismo”. Tali caratteristiche sono presenti nelle retoriche della politica della Lega fino al tracollo dell’ultradecennale gestione di Umberto Bossi, quando il partito leghista, specie dopo gli anni al governo alleato con il centrodestra, appare ormai totalmente funzionale al sistema che aveva dichiarato di combattere. Nel 2013, dopo il breve intermezzo di Roberto Maroni, viene eletto come nuovo segretario del Carroccio Matteo Salvini. Il nuovo leader della Lega adotta sin da subito una narrazione politica che se da una parte riprende quasi ampiamente la retorica populista tipica della prima Lega, dall’altra l’amplifica, la estende con abilità oltre i confini della Padania, e in qualche molto la ribalta.

Come detto, Salvini riprende in larga misura le retoriche dell’immaginario leghista, in particolar modo l’uso di un linguaggio e di una rappresentazione politica di matrice “populista”. In effetti, il neo-segretario della Lega porta avanti le tipiche istanze dei partiti populisti, ovvero la delegittimazione della classe politica dirigente, la protesta contro l’eccessiva pressione fiscale, la volontà di fare appello a un leader forte, la ridefinizione del malessere sociale indirizzando le colpe verso fattori esterni, come ad esempio gli immigrati.

1A ben vedere, Salvini continua ad agire anch’egli sul piano del discorso etnico, ma con una sostanziale differenza rispetto al precedente segretario Bossi. Non a caso, il leader leghista smette di adoperare un lessico che associa la Lega limitatamente alla sola Padania e ai territori del Nord Italia, come dimostrato anche dalla eliminazione della parola “Nord” dal simbolo presentato alle ultime elezioni. L’intento è quello di trasformare la Lega in un partito a forti caratteri e aspirazioni nazionaliste. Per farlo, Salvini mette in atto una ridefinizione culturale dei concetti di “confine”, “identità”, “tradizione”, riposizionandoli su un piano del tutto differente rispetto al passato leghista.

Ciò è dettato innanzitutto da fattori storici e politici. La grave crisi economica dell’ultimo decennio, determinata da alcune cause connesse al sistema neoliberista globalizzato, tra cui la gestione per certi versi non più nazionale ma finanziaria ed internazionale dell’economia, i processi di delocalizzazione, l’abbassamento del costo del lavoro e il relativo impoverimento delle classi lavoratrici, sono tutti elementi che hanno portato in Europa ad un acuirsi del malessere delle classi sociali più disagiate. In questo contesto, muovendosi in una direzione antiglobalista e soprattutto antieuropeista, hanno trovato terreno fertile movimenti politici di ispirazione nazionalista e di matrice neopopulista, i quali spesso si rifanno a ideologie di estrema destra. Modello ideale per la Lega di Salvini, a questo proposito, è rappresentato sicuramente dal «Front National» di Marine Le Pen.

La svolta lepenista di Salvini avviene quindi soprattutto in chiave antieuropeista, in particolar modo contro quella élite eurocratica colpevole di aver contribuito, attraverso le politiche di austerity e di gestione dei flussi migratori, all’impoverimento delle popolazioni europee. Dal punto di vista leghista, allora, le istituzioni europee diventano il simbolo della classe politica dirigente contro cui reindirizzare il malcontento sociale, l’Europa diviene la nuova «Roma Ladrona» contro cui agitare le masse destabilizzate dalle politiche della troika.

In questo senso, intraprendendo la strada dell’antieuropeismo, il neo segretario sposa appieno il “nazionalismo sovranista”, ideologia fino ad allora completamente estranea alla Lega. Ed è qui che avviene la vera svolta rivoluzionaria rispetto ai suoi predecessori. Assieme alle posizioni antieuropeiste, infatti, Salvini comincia a parlare apertamente di difesa dei confini nazionali e dei diritti sociali degli italiani, di welfare per soli italiani, di famiglia tradizionale e di identità nazionale e cristiana. Lo slogan «Prima il Nord!» viene col tempo sostituito dallo slogan «Prima gli Italiani!». Le mire secessionistiche e indipendentiste spariscono lentamente dal programma politico leghista per lasciare il posto all’emergere di posizioni, seppur federaliste, ma a forti tinte nazionalistiche.

3La spinta nazionalista di Salvini esige a sua volta un cambio di paradigma nella individuazione dello straniero contro cui indirizzare le colpe della crisi economica e dell’insicurezza sociale. Il grande nemico da osteggiare non sono più i meridionali, i popoli del Sud Italia, bensì i rom, i migranti, in particolare le comunità islamiche e gli immigrati irregolari. Le nuove parole d’ordine diventano «stop immigrazione!» e «difesa dall’invasione», attraverso posizioni sempre più esplicitamente xenofobe e razziste che hanno trovato il favore naturale dei partiti di estrema destra.

Mutano quindi i confini materiali e immateriali entro cui si muove la retorica populista di Salvini, che non sono più quelli dell’etno-regionalismo, bensì quelli del nazionalismo a carattere identitario, fatto del tutto nuovo per la Lega. La ricerca e la difesa di radici comuni e di un’identità arbitraria, in effetti, non avviene più sul piano della tradizione regionale padana e federalista, bensì su quello nazionale e unitario. La Lega, in pratica, si erge a nuova paladina della difesa dell’identità e dei confini nazionali, contro il potere dell’eurocrazia e il fantomatico pericolo dei migranti.

Si può allora sostenere che alla base dell’exploit della Lega di Salvini alle ultime elezioni vi è appunto tale svolta in senso nazionalista del nuovo segretario, una sorta di “trasformismo” che ha permesso di estendere il proprio elettorato su tutto il territorio nazionale. L’abilità politica del segretario leghista sta proprio nel aver saputo interpretare, e in qualche modo approfittare, della situazione di insicurezza socio-economica del panorama italiano ed europeo, per attuare una vera e propria ridefinizione dei criteri di costruzione identitaria del partito leghista attraverso una rimodulazione dei temi politici. Un mutamento dal profondo della concezione ideologico-politica del partito che conduce, in definitiva, dal “secessionismo comunitarista” caratteristico dell’etno-regionalismo e dell’etno-nazionalismo padano, al “nazionalismo” in senso strettamente sovranista. D’altronde, ogni costruzione culturale resta pur sempre «il prodotto di scelte individuali di identificazione» (Aime, 2012: IX) riunite arbitrariamente e temporaneamente in insiemi collettivi, al solo scopo di soddisfare precisi interessi politici. Persino l’identità, dunque, «è un fatto di decisioni» (Remotti, 1996: 5).

4L’emergere dei localismi etnici, come il ritorno a tali forme di nazionalismo, può allora essere spiegato facendo riferimento al “declino del sociale” dell’epoca contemporanea. «Le tradizionali aggregazioni orizzontali su base sociale, ideologica, di classe vengono sostituite da tagli verticali, che classificano sulla base del legame tra terra e sangue, sul principio dell’autoctonia o della cultura» (Aime, 2012: IX). La fine degli ideali universalisti, in questo senso, ha portato alla frammentazione delle identità che, in un mondo sempre più interconnesso e multiculturale, diventano vere e proprie nicchie di difesa. L’identità individuale, icona della postmodernità, necessita a sua volta di un impianto organizzativo dal quale emergono nuovi idoli, nuovi miti, nuovi attori in grado di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione sociale. Come sostiene Jean-Loup Amselle (2012), l’individuo, la cultura e il ritorno alle origini diventano allora le parole d’ordine della postmodernità globalizzata. La fine della società della crescita e dell’abbondanza, in sostanza, genera il bisogno di riconoscersi in nuove ideologie e nuovi valori che vanno ricercati nelle risorse dell’individuo, in particolare in quelle identitarie, culturali e psichiche. Questi sono i fattori principali che hanno determinato la formazione di nuove modalità di costruzione identitaria da parte di quei gruppi umani che si rifanno alle contemporanee forme di localismo, tribalismo e nazionalismo. Gruppi umani per i quali la cultura sembrerebbe essere un dato ascritto, immutabile, legato al territorio, quasi incastrato nei nostri geni.

In conclusione, la mutazione della Lega sembra secondare e alimentare un processo culturale che investe più ampiamente l’Occidente contemporaneo, ovvero la crisi di fiducia nei confronti dei valori liberali e universalistici e l’emergere di posizioni identitarie particolaristiche. I movimenti neonazionalisti come la Lega, che circoscrivono i confini territoriali e geopolitici dei gruppi etnici e delle nazioni, definiscono le identità culturali “pure” e resistenti al cambiamento. Ciò significa che tali gruppi umani generalmente si fondano sul forte senso di appartenenza dei propri membri, “appartenenza” che spetta soltanto a coloro che possiedono certe caratteristiche innate, ontologiche, biologiche (da qui il costante riferimento al concetto di “razza”). L’appartenenza, in questo senso, caratterizza e circoscrive ciò che sta “dentro” da ciò che sta “fuori”, l’interno dall’esterno, il puro dall’impuro. Tra l’altro, in questa concezione che celebra il mito del purismo si possono cogliere le analogie con il Movimento 5 stelle. Come sostiene Douglas (1975), tutto ciò che transita dall’una all’altra parte, il passaggio, costituisce sempre un momento pericoloso, espone ai rischi indefiniti di ciò che muta, si sposta, che sta all’interno con una determinata funzione e si pone all’esterno con un’altra. Le forme di xenofobia e razzismo che scaturiscono dalle ideologie dei movimenti identitari rispondono, quindi, ad una logica e ad una strategia difensiva che nega a priori ogni confronto, considerato un potenziale attentato alla propria identità, e possono pertanto essere interpretate come il frutto della paura e del pericolo della «contaminazione».

5Ne deriva una relazione alquanto problematica nei confronti dell’Altro e di ogni tipo di diversità. Di conseguenza, si attivano importanti questioni di ordine etico e morale. Se, infatti, come spiega Durkheim (1963), il discrimine tra un comportamento che ha significato morale e uno che non ne ha è costituito dal fine che si persegue, rappresentato nel primo caso dall’Altro e, nel secondo, da se stessi, allora si potrebbe addirittura sostenere che la Lega è un movimento politico senza etica. L’Altro, sia esso il meridionale, il rom, lo straniero, l’immigrato clandestino, il musulmano, o l’omosessuale, è considerato alla stregua di un “nemico”, una  minaccia per lo stereotipo normativo dell’uomo bianco, occidentale, eterosessuale, posto a difesa della conservazione dell’identità e dell’integrità ora del gruppo etnico, ora della nazione, ora dell’Europa e dell’Occidente. Se di etica si può parlare, allora, quella della Lega è più che altro espressione di un comunitarismo chiuso caratterizzato da una forma di appartenenza totalizzante ed escludente in cui la priorità consiste unicamente nella salvaguardia dei privilegi del proprio gruppo. Persino i valori religiosi ed etici, in questo senso, assumono un significato del tutto strumentale, diventano mere realtà culturali con il solo fine di costruire e mantenere l’identità del gruppo. La difesa indiscriminata della cosiddetta famiglia tradizionale, del crocifisso e delle radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, così come l’obiezione all’aborto e l’attacco ad alcuni diritti civili e alle libertà religiose, rivestono un significato del tutto simbolico allo scopo di affermare l’appartenenza a una “civiltà” contrapposta ad altre, in particolare a quella islamica.

L’ossessione identitaria leghista finisce dunque per intrecciarsi con la presunzione della propria superiorità culturale, con il riproporsi di una sorta di «etnocentrismo» che si traduce nell’assunzione di atteggiamenti di chiusura e di disprezzo nei confronti delle altre culture. Il mito dell’identità tanto declamato dai movimenti politici come la Lega, in effetti, insorge in un contesto storico che può essere descritto in termini di “impoverimento culturale” della postmodernità globalizzata: un prodotto e, a sua volta, un fattore di tale impoverimento. È un prodotto dell’impoverimento culturale perché rispecchia assai bene la riduzione dei rapporti tra noi e gli altri a rapporti di sfruttamento o a posture di minaccia e di ostilità. Ed è un fattore di impoverimento in quanto mutila e depaupera tremendamente il sistema delle relazioni tra noi e gli altri a tal punto che, a causa dell’identità, non sappiamo vedere altro che minacce e paure (Remotti, 2010). Ciò, di conseguenza, non può che condurre a situazioni di conflittualità, scontro, tensioni. Ed è noto come nella storia l’epilogo di tali forme di ideologia identitaria si sia tradotto molto spesso in odio, discriminazioni, violenze, guerre, genocidi, episodi di pulizia etnica. Siamo, dunque, di fronte a un ritorno al passato? Di sicuro, sembra che anche per la Lega, in fondo, l’identità sia essenzialmente il frutto di una «rimozione della storia» (Fabietti, 1998).

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
Aime M., 2012, Verdi tribù del Nord. La Lega vista da un antropologo, Laterza, Roma-Bari;
Amselle J.L., 2001, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Bollati Boringhieri, Torino;
Amselle J.L., 2012, Contro il primitivismo, Bollati Boringhieri, Torino;
Connor W., 1995, Etnonazionalismo, Edizioni Dedalo, Bari;
Douglas M., 1975, Purezza e Pericolo, Il Mulino, Bologna;
Durkheim E., 1963, Sociologia e filosofia, Comunità, Milano;
Fabietti U., 1998, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma;
Friedman J., 1999, The Hybridization of Roots and the Abhorrence of the Bush, in Featherstone M. and Lash S., (eds.), Spaces of Cultures, Sage, London;
Nadel S.F., 1947, The Nuba. An anthropological Study of the Hill tribes of Kordofan, Oxford University Press, Oxford;
Remotti F., 1996, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari;
Remotti F., 2010, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari.
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Francesco David, ha conseguito una Laurea Magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia e un Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea. Ha svolto ricerca sul campo in Basilicata, studiando i processi storici e culturali di una festa patronale locale, e nel C.I.E. di Bologna, dove ha avuto modo di analizzare i meccanismi di gestione biopolitica della sofferenza delle donne immigrate. Si è occupato dell’apporto dell’antropologia alla Cooperazione allo sviluppo umano sostenibile. Collabora con alcune riviste scientifiche e con associazioni impegnate nella valorizzazione del patrimonio demo-antropologico e nella tutela dei diritti umani.
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