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Dalla elemosina alla giustizia. L’evoluzione nella Chiesa cattolica

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:33 In Religioni,Società | No Comments

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San Francesco dona il suo mantello, Giotto, 1296-9

di Franco Pittau e Nadia-Elena Vacare [*]

Proponiamo la nostra riflessione su come è andata evolvendosi la sensibilità della Chiesa cristiana nel primo millennio (e di quella cattolica nel secondo) dalla elemosina ai poveri e dall’assistenza agli emarginati fino alla solidarietà planetaria odierna. La carità, pur essendo rimasta sempre centrale all’interno della comunità cristiana, ha conosciuto realizzazioni diversificate nel tempo, alcune più aperte alle esigenze del momento e altre in ritardo.

Nel corso di questo lungo cammino si è capito che il concetto di carità non si oppone all’autonomia dell’ambito sociale e che, per essere più incisivo, deve farsi carico dei bisogni di equità e di giustizia. Nel passato, invece, si riteneva che la presenza dei poveri derivasse dall’ordine naturale delle cose, che l’elemosina andasse considerata la strategia più appropriata di intervento (indispensabile anche per la propria santificazione) e che occuparsi dell’assistenza ai poveri spettasse più alla Chiesa che al potere pubblico.

Nella nostra analisi abbiamo utilizzato gli spunti tratti da diverse letture riguardanti le singole fasi storiche e i rispettivi personaggi di spicco. Il nostro apporto personale consiste nell’averne ricavato gli aspetti da noi ritenuti più significativi e di averli concatenati in maniera tale da evidenziare il processo evolutivo, indicando sia le carenze sia gli elementi di validità che perdurano nel tempo seppure abbisognino di essere inseriti in un diverso contesto sia sociale che religioso.

Abbiamo evitato, comunque, di giudicare il passato “ora per allora”. Da una parte sarebbe infondato ritenere che grandi testimoni della carità, come ad esempio S. Francesco d’Assisi, non avessero oggi più niente da insegnarci, e dall’altra sarebbe parimenti fuori posto non tenere conto delle considerazioni successivamente espresse quasi che il tempo si fosse fermato.

Pertanto, in questo contributo faremo riferimento alle condizioni strutturali delle singole fasi e all’esempio di figure significative che hanno arricchito con il loro pensiero e le loro opere il concetto di carità, fungendo da stimolo per una maggiore apertura individuale e collettiva. Questo riconoscimento non ci impedirà di sottolineare la necessità di perfezionare il loro approccio, pur sempre dipendente dalla cultura del tempo.

Anche le conclusioni da noi tratte devono ritenersi provvisorie, perché ogni riferimento ideale (sia alla carità a livello di fede, sia alla solidarietà a livello sociale), è necessariamente dipendente dall’ambito storico in cui si colloca e deve rimanere aperto ai successivi perfezionamenti. Tali carenze sono del tutto evidenti quando si riflette sulle attuali debolezze del concetto di solidarietà a livello internazionale e sulle differenze tuttora praticate, all’interno dei singoli Paesi, tra cittadini autoctoni e cittadini stranieri (oltre alle crescenti disparità tra gli stessi autoctoni) [1].

Sono volutamente pochi i riferimenti bibliografici da noi citati. Una copiosa bibliografia non rientrava nei nostri intenti, rivolti piuttosto a costruire un percorso logico che collegasse i vari secoli, per il quale abbiamo comunque fornito la base concettuale necessaria, all’occorrenza citando anche qualche autore. Il lettore che voglia approfondire ulteriormente qualcuno degli aspetti trattati potrà trovare su internet indicazioni bibliografiche esaurienti, mentre in queste pagine è sollecitato a concentrare l’attenzione sul passaggio dei cristiani dall’elemosina alla solidarietà, pur rimanendo la carità cristiana il riferimento fondamentale in tutte le fasi storiche.

 Sant'Ambrogio, mosaico, Cappella palatino Palermo, 1140.

Sant’Ambrogio, mosaico, Cappella Palatina, Palermo, 1140

Il concetto e la pratica della carità nel tardo Impero romano e nell’alto Medioevo

Alla fine dell’Impero romano si riscon- trava una economia di sussistenza, nei secoli IV e V vi era una scarsità di ricchezze, continuata anche successi- vamente, mentre i primi segni di crescita si videro solo alla fine del millennio: lo sviluppo era carente e le disuguaglianze risultavano accentuate e con un elevato numero di poveri. Nell’Impero romano era tradizione delle classi sociali più ricche attenuare le condizioni di disagio degli indigenti, anche al fine di evitare sommosse popolari. I più poveri erano i clienti di una casata gentilizia e da essa ricevevano i beni alimentari necessari per la loro sopravvivenza. Tuttavia, la fine delle guerre di espansione dell’Impero e la mancata acquisizione di nuovi schiavi incisero negativamente sulla produzione alimentare e sulle erogazioni ai bisognosi, per cui in alcune parti dell’Impero scoppiarono delle rivolte nelle campagne.

Inoltre, già nella Roma imperiale, anche a livello pubblico, si praticavano donazioni a favore dei poveri, mettendo a loro disposizione diversi viveri essenziali: non a caso è rimasto famoso il detto panem et circenses, essendo lo spettacolo e la ristorazione, esigenze popolari da prendere in considerazione. Per avere un’idea della dimensione quantitativa dei destinatari di questi interventi nel tardo Impero, basti pensare che nel 397 d.C. si arrivò a contare ben 300 mila beneficiari di queste erogazioni.

Nel tardo Impero si affermò la figura del patronus, che come ricompensa per il sostentamento offerto dai contadini ai suoi soldati, assicurava la protezione ai villaggi contadini rispetto all’esattore delle tasse. In questa fase di transizione, più si indeboliva l’organizzazione dell’Impero, più cresceva il ruolo dei papi e dei vescovi nell’occuparsi dei poveri. Nelle città il ruolo di patronus venne svolto dal vescovo che si prendeva cura dei contadini poveri, a seguito delle carestie trasferiti in città e costretti a mendicare per sostenersi [2].

Nel 325 d.C. con il Concilio di Nicea (in Bitinia) si dispose che «in ogni città i vescovi costruissero case di accoglienza (xenodochi) ed ospizi per i pellegrini, per i poveri e per gli infermi» [3]. Nella fase postconciliare fu notevole l’impegno dei vescovi a realizzare brefotrofi per i neonati abbandonati (per gli infanti esposti), orfanotrofi, case per gli anziani e per i pellegrini. Nè mancava l’attenzione alle vedove, ai derelitti e agli infermi (vedremo successivamente come l’idea dell’ospedale andrò concretizzandosi nel Medioevo).

S. Ambrogio (330-397), vescovo di Milano, donò ai poveri gran parte del patrimonio e il suo esempio di generosità venne seguito anche da altri ricchi convertiti al Cristianesimo. Egli contrastò l’opinione generalizzata che considerava i poveri a livello divino e condannò la ricchezza quale causa non solo di perdizione ma anche mezzo per guadagnarsi la pietà di Dio. Significativa questa sua raccomandazione: «Cerca piuttosto che quanto è contenuto nel granaio sia destinato ai poveri, fa in modo che codesti tuoi magazzini riescano utili agli indigenti. Tu dici: porterò via ai poveri la loro casa. Il Signore invece ti chiede: conduci a casa tua i poveri che non hanno un tetto» [4].

S. Benedetto da Norcia (480-547), iniziatore del monachesimo in Occidente, dispose che i monasteri, oltre a essere luoghi di preghiera e di cultura, fossero un rifugio per i bisognosi, facendone nel corso dei secoli dei luoghi dove trovare da mangiare e anche un ricovero nei periodi più freddi. Questa loro funzione era resa possibile dal fatto che i monasteri trasformavano e rendevano produttive le aree incolte circostanti. E la regola benedettina prescriveva che l’eccesso della produzione alimentare necessaria al mantenimento dei monaci fosse donato ai poveri e agli indigenti, ai quali doveva essere devoluto anche un terzo di quanto i monaci ricevevano, in dono o in eredità [5].

Nel V secolo gli episcopi venivano denominati “case dei poveri” e i vescovi venivano chiamati “padri dei poveri”. San Gregorio Magno (540-640), eletto pontefice nel 590, per le sue grandi vedute venne denominato “l’ultimo dei romani”. Raccomandò ai vescovi di destinare ai poveri almeno un quarto dei beni delle loro chiese. Accanto al monastero del Celio istituì una mensa quotidiana per i poveri, dove riceveva dodici pellegrini poveri, che accudiva personalmente.

I secoli dell’Alto Medioevo non furono del tutto privi di dinamismo e tuttavia non riuscirono a offrire sufficienti possibilità di ascesa sociale. In quel periodo godevano di una condizione soddisfacente solo i proprietari di fondi e quanti riuscivano ad affermarsi per le loro capacità militari. Invece tra la popolazione, pur limitata numericamente, la povertà era diffusa anche in ragione dello scarso utilizzo delle tecniche di produzione e della elevata esposizione ai disastri ambientali. Secondo gli studiosi, la maggior parte degli abitanti doveva considerarsi povera, a tenere conto degli attuali crriteri di valutazione di tale stato.

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San Gregorio Magno, Matthias Stomer, metà sec. XVII

I secoli del Basso Medioevo

Solo nel Basso Medioevo, e quindi all’inizio del secondo millennio dopo Cristo, vi furono notevoli possibilità di cambiamento a livello economico e di ascesa sociale [6]. Alla crescita dei secoli X e XI seguì la grande espansione dei secoli XII e XIII, favorita dalla nascita delle città (con rilevanti spostamenti di popolazione dalle campagne) e dal diffondersi delle attività artigianali e del commercio. Va ricordato, tuttavia, che alla fine del XII secolo si verificarono diverse gravi crisi alimentari, di cui i poveri risentirono moltissimo.

Il secolo XIV conobbe un ristagno economico, demografico e commerciale, accompagnato anche da disastri metereologici. Si verificò la “grande carestia” del 1315-1317, un fenomeno sconosciuto all’Europa duecentesca. Inoltre, nel 1347 si diffuse una terribile ondata di peste (la “peste nera”, cui fa riferimento Giovanni Boccaccio nel Decamerone), che raggiunse i ricchi tra il 1350 e il 1351, arrivando a colpire un quarto della popolazione e addirittura un terzo in Germania, in Francia e in Italia. Questi fattori negativi favorirono una religiosità irrazionale, che indusse a pensare alla fine del mondo e alla venuta dell’Anticristo. L’aggravarsi delle condizioni accentuò l’afflusso di persone nelle città, dove le istituzioni caritatevoli assicuravano un minimo di sostentamento giornaliero, determinando anche un surplus di manodopera.

Anche nel Basso Medioevo, nonostante il rivoluzionario esempio dato da Francesco d’Assisi sul piano della condotta personale, perdurava la concezione per cui i poveri erano tenuti ad accettare la propria situazione, che alla fine sarebbe stata ricompensata nell’altra vita, mentre ai ricchi si chiedeva di adoperarsi per alleviare la loro sofferenza. Alla Chiesa, invece, spettava il compito di evitare che dalla povertà si passasse alla miseria.

Il re, i prìncipi, i papi e i vescovi esercitavano tutti l’elemosina e ad ogni cristiano veniva predicato il dovere della carità in maniera singola o associata, e così veniva garantita una estesa rete di protezione. Chi non praticava la carità veniva additato al disprezzo. Le confraternite, che si occupavano non solo delle necessità dei propri soci e restavano aperte anche ai più bisognosi, erano legate al clero, alle chiese e ai santuari. A partire dal XIII secolo si registrò la nascita di forme assistenziali organizzate che facevano riferimento a ordini religiosi e alle confraternite: tra di esse assunsero grande rilevanza gli ospedali (hospitales), ricoveri organizzati per aiutare i poveri, gli ammalati e i pellegrini (la loro prima creazione risale, però, all’inizio del millennio).

Sin dall’inizio del nuovo millennio era andato aumentando il numero dei poveri e in quel contesto andò precisandosi la distinzione tra povertà materiale subìta e la povertà come via scelta per la propria santificazione: (paupere cum Lazaro e pauperes cum Petro). S. Francesco d’Assisi (1181/1182-1226), in un periodo di gravi carestie e di diffusa povertà, si accreditò quale esempio straordinario di povertà vissuta come stile di vita, agli antipodi dai fasti della Chiesa ufficiale. Questa scelta, additata anche ai singoli cristiani, venne perseguita comunitariamente dai membri dell’ordine dei francescani. Questo santo, dedito alla predicazione, si distinse nell’aiuto ai poveri e ai malati e anche per questa ragione i conventi francescani non venivano costruiti in luoghi remoti come i monasteri. Fu grazie al profondo influsso di questo santo, che il secolo XIII, definibile come il secolo di Francesco, si presentò come un periodo di grande sensibilità al tema della povertà e ai poveri, tra l’altro in un contesto di crisi ricorrenti. Al santo d’Assisi si ispirarono numerosi movimenti, come quello del Segarelli, anche se Papa Gregorio IX aveva proibito la creazione di nuove congregazioni religiose.

Per i contemporanei il “poverello” d’Assisi era l’alter Christus, che secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (1135-1202), fondatore della congregazione florense, doveva aprire la fase della ecclesia spiritualis. Nel 1260, secondo le previsione di questo abate, avrebbe avuto inizio l’età dello Spirito Santo. In quell’anno si svolsero processioni di flagellanti (dalla pratica penitenziale che essi si imponevano) in tutta l’Italia centro-settentrionale [7].

Papa Gregorio IX (1170-1241, eletto papa nel 1227), entrando nel merito del messaggio rivoluzionario di Francesco d’Assisi, appena quattro anni dopo la sua morte, con una sua bolla entrò nel merito della disputa tra i frati spiritualisti e quelli conventuali, e precisò che il testamento di Francesco non aveva un carattere obbligatorio sul piano giuridico per i suoi seguaci. In effetti, i frati minori, destinatari di elemosine e donazioni, nel XIII secolo arrivarono a significativi possessi. Va però anche ricordato che questo Papa istituì il processo di canonizzazione di Francesco nell’anno stesso della sua morte (1226). Gherardo Segarrelli (1240-1300), parmense predicatore millenarista con grande seguito in Emilia Romagna, viveva di elemosina in comunità e invitava alla penitenza. Fondò il movimento degli apostolici dopo essere stato rifiutato dai frati minori, che proponeva di raggiungere la perfezione nella povertà, senza bisogno della mediazione della Chiesa per arrivare a Dio. Egli si mostrò molto libero per quanto riguarda i rapporti tra i sessi senza dare valore alla castità [8].

Nel corso di questi secoli, la malattia e la povertà erano comunemente associate e quasi utilizzate come sinonimi, anche perché la povertà (con le conseguenti carenze alimentari) portava gli interessati a essere maggiormente soggetti alla peste, al vaiolo, alla lebbra e così gli ospedali accoglievano indistintamente i malati e i poveri. La distinzione tra queste due categorie iniziò a delinearsi tra il XIII e il XIV secolo (il periodo delle crociate), quando, a seguito dell’endemica diffusione della lebbra, denominata morbus phoenicius (arrivò a colpire tra il 10% e il 50% della popolazione), i lebbrosari diventarono strutture esclusivamente dedicate a questi malati, assumendo poi la denominazione di lazzaretti con riferimento alla figura evangelica di Lazzaro, il povero cui i cani leccavano le ferite. La lebbra iniziò a manifestarsi già a partire dal VII secolo (anche a causa di incursioni, pellegrinaggi, traffici con l’Oriente e, come detto, delle crociate). Nei secoli XII e XIII, era molto diffusa anche la peste.

A Roma, in questi secoli, era elevato il numero dei poveri, qui confluiti da tutte le parti del mondo cristiano, così come erano numerosi gli ammalati, di cui molti morivano per strada. Si legge, in una testimonianza dell’epoca: «I poveretti cadono giù con la febbre e, pensando di superarla facilmente, aspettano a farsi portare in ospedale quando è ormai troppo tardi». Poiché le persone da ricoverare negli ospedali erano molto numerose, si dava la priorità ai minori, agli anziani e alle vedove. Tra la schiera delle persone bisognose spiccavano i contadini che, trasferitisi in città dalla campagna, andando incontro al freddo e alla fame.

Una figura particolarmente significativa fu S. Francesca Romana (1384-1440), discendente di una nobile famiglia: rimasta vedova, si dedico interamente ai poveri, facendosi a chiamare la “povera di Trastevere” e utilizzando il ricavato dell’elemosinare per aiutare quelli che si radunavano nella sua casa. Si resero benemeriti gli ordini ospedalieri, come quello dello Spirito Santo, che nel 1291 arrivò a gestire ben 56 ospedali. Opera ancora in città, vicino alla Basilica di S. Pietro, l’Ospedale Santo Spirito in Saxia, con diversi ambienti arricchiti di affreschi dell’epoca, inizialmente era destinato ai numerosi pellegrini anglo-sassoni in visita ai Luoghi santi. Le Regole originarie dell’ospedale, che si configurano come un insieme di disciplina e di altruismo, erano finalizzate ad assicurare una confortevole permanenza nella struttura, con particolare attenzione agli indumenti e all’alimentazione [9].

Santa Francesca Romana, di G. B. Gaulli, 1660 ca.

Santa Francesca Romana, di G. B. Gaulli, 1660 ca.

L’inizio dell’era moderna

Nella seconda parte del millennio intervennero mutamenti radicali, sia nel sistema di produzione sia nelle teorie sociali, e venne avviato il passaggio dalla carità intesa come assistenza della comunità ecclesiale all’intervento pubblico.

Nel secolo XVI, all’inizio quindi dell’era moderna, venne meno la disponibilità nei confronti dei poveri, per i quali questo periodo è stato storicamente il peggiore. Infatti, cessò la precedente considerazione favorevole e su di loro andò concentrandosi un’attenzione negativa pronta a colpevolizzarli, specialmente se si trattava di mendicanti e vagabondi. Si è stimato che allora nell’Europa occidentale circa un quinto della popolazione (nel frattempo aumentata) fosse costituito da poveri. La povertà era particolarmente accentuata nelle campagne, anche per effetto delle carestie. A fronte dell’incremento numerico dei mendicanti, le istituzioni diventarono più guardinghe per non premiare i falsi mendicanti.

Ci si discostò nettamente dall’immagine medioevale del povero come icona della sofferenza del Cristo, di per sé meritevole di solidarietà, e si iniziò a ravvisare la presenza di una minaccia nell’esercito di mendicanti. Si scrissero dei libri che diffusero il sospetto nei confronti della mendicità organizzata in corporazioni illegali, più o meno segrete, e delle loro tecniche di accatto. La nuova sensibilità portava a ritenere antisociali i poveri che non lavoravano e all’occorrenza li obbligava all’arruolamento come militari o all’impiego nelle galere [10]. Netto fu il cambiamento nei Paesi della riforma protestante, dove non operava più a favore dei poveri la rete dei monasteri, dei conventi, delle parrocchie e delle confrateite.

Già verso la fine di questo secolo (1576) venne approvata, in Inghilterra, una legge che istituiva delle strutture, dalle regole dure, per punire i vagabondi e contrastare la mendicità (house of correction e workhouse). Negli ospedali operanti in Europa nel XVI secolo i malati, ad eccezione di casi gravi, furono costretti a lavorare. La reclusione in ospedale era la pena prevista per chi veniva colto a mendicare per la prima volta; la seconda volta la pena era l’internamento e l’individuazione con il marchio di un apposita lettera e, infine, la condanna alle galere o, per le donne, la restrizione negli ospedali [11]. Venne così a mancare l’accettazione degli oziosi, che non si davano da fare per uscire al loro stato di necessità (vagabondi e mendicanti), mentre si accettavano i poveri divenuti tali loro malgrado, i malati, i minori abbandonati, i vecchi non più in grado di lavorare, i poveri rimasti senza lavoro e anche i poveri organizzati in “compagnie” riconosciute (come quella degli storpi), i poveri occasionali e i lavoratori in crisi.

La Chiesa, in contesto così sensibilmente modificato, non fece venir meno l’attenzione ai più bisognosi e alle loro esigenze e cercò di rispondere con la creazione di numerose organizzazioni caritative e assistenziali suscitate dai grandi santi del Cinquecento. Nel XVII secolo diversi Paesi europei dedicarono alla correzione dei vagabondi e dei poveri speciali reparti degli ospedali, che continuarono a essere strutture di beneficenza per i poveri buoni, ma, per contrastare il dilagante pauperismo, operavano anche come istituti di repressione nei confronti di coloro (come i mendicanti) che non venivano considerati tali.

Questo secolo, in ragione della prevalenza della politica di segregazione dei poveri, è stato definito anche “il secolo della grande reclusione”. Della povertà si sottolineava l’inutilità sociale e la pericolosità per l’ordine pubblico. Tipico esempio di questa strategia fu a Parigi l’Hospital géneral, costituito nel 1656, definito da Michel Foucault “il terzo stato della repressione” nella sua opera Sorvegliare e punire, Nascita della prigione [12]; la sua rigida disciplina era basata anche su sanzioni corporali.

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San Vincenzo de’ Paoli

Appartiene a questo secolo il sacerdote francese, S. Vincenzo de Paoli (1581-1660), fondatore delle congregazioni religiose “vincenziane”, che si diffusero non solo in Francia. Veniva così rafforzato tra i cattolici l’impegno a unire l’impegno per la propria santificazione personale con un attivo servizio prestato al mondo dei poveri e, riprendendo alcuni spunti della tradizione cristiana, si ritornò a considerare l’elemosina un dovere e anche un atto riparatore dei peccati commessi. Nel XVIII secolo si portò avanti sistematicamente la politica di internamento varata nel secolo precedente e nella discussione sulla povertà si prestò maggiore attenzione alla ragione piuttosto che alla religione.

Verso la metà di questo secolo iniziò la prima rivoluzione industriale, che portò a superare l’agricoltura come perno del sistema produttivo (mentre la seconda rivoluzione industriale iniziò a partire dal 1870 a seguito dell’utilizzo dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio). Con il diffondersi dell’industrializzazione aumentò il numero dei poveri, le cui fila vennero ingrossate dai contadini espulsi dalle campagne. Gli occupati nell’industria erano allora appena il 5% della forza lavoro in Inghilterra e ancor di meno negli altri Paesi. Una disoccupazione così diffusa favorì l’inizio delle grandi migrazioni, che si riversarono nell’America del Nord, coinvolgendo inizialmente i Paesi europei del centro-nord e poi anche l’Italia.

In Francia i dépôts de mendicité (una struttura a metà tra l’ospizio e il carcere) furono utilizzati come uno strumento fondamentale per la lotta contro la povertà nel corso del XIX secolo. Queste strutture, istituite nel 1767 per supplire alle funzioni dell’hospital géneral ed estese da Napoleone a ogni Dipartimento (l’accattonaggio era considerato reato dal codice penale del 1810), consentiva ai mendicanti, ai senza fissa dimora e alle prostitute di essere liberi, al termine di un anno, dopo aver seguito un percorso di ri-socializzazione, assumendo un lavoro all’esterno o ritornando in famiglia. Alla fine del secolo, però, i dépôts de mendicité vennero chiusi perché considerati un luogo di contaminazione morale. La rivoluzione francese segnò la fine della grande reclusione e abolì il lavoro forzato nelle manifatture ospedaliere: nel 1789 erano 8 mila le persone ricoverate presso l’Hospital géneral, in maggioranza donne.

Venivano così realizzati gli auspici dei filosofi illuministi, contrari alla strategia repressiva. Il loro vasto movimento, che nel secolo XVIII andò sviluppandosi in Europa (e specialmente in Francia) con un forte impatto a diversi livelli (filosofico, socio-culturale, politico), portò a privilegiare una strategia imperniata sul lavoro come rimedio alla povertà, valorizzando le capacità personali dei poveri, senza parlare più di riscatto dal peccato originale e percorso verso la grazia divina. Questa fu la strada seguita per contrastare il pauperismo, incentivare l’intervento delle strutture pubbliche e garantire tendenzialmente a tutti mezzi di sostentamento adeguati. Ci si avviava a considerare la povertà non una colpa bensì una disfunzione della società, ponendo l’accento non più solamente sul fattore morale ma anche sugli aspetti economici. Così si cominciava a intravedere la necessità di una redistribuzione della ricchezza e dell’intervento statale.

In un contesto in cui in Europa le strutture pubbliche contrastavano la mendicità con la reclusione nelle case di correzione, in ambito cattolico S. Jean Baptiste La Salle (1651-1791), con la congregazione dei Fratelli delle scuole cristiane da lui fondata, si occupò dei ragazzi poveri offrendo loro l’istruzione come mezzo di riscatto. Nel XIX secolo povertà e industrialismo iniziano ad essere associati. Si condussero indagini sulle condizioni degli operai per individuare le cause e le caratteristiche della loro povertà. Ad esempio, Antoine-Eugène Buret nel 1840 pubblicò a Parigi De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France con questo significativo sottotitolo: « De son existence, de ses effets, des causes et de l’insuffisance des études qu’on lui a opposé jusqu’ici avec indications des moyens propres à en franchir les sociétés ».

Sulla condizione della classe operaia inglese Karl Marx (1818-1883) rimarcò il fatto che «in Inghilterra la miseria degli operai non è parziale, ma universale». Una celeberrima denuncia dello sfruttamento dei lavoratori si ebbe nela sua opera, Il capitale. Critica dell’economia politica, di cui il primo tomo venne pubblicato nel 1877. In precedenza Marx, nel suo Manifesto del Partito comunista del 1848, dopo aver sottolineato che anche nel passato vi furono liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, sottolineò che l’antagonismo tra le classi, sempre esistito, si riduceva ormai all’opposizione tra la borghesia e il proletariato. Tanto la Chiesa cattolica che quelle protestanti furono costrette a chiarire il loro pensiero nel campo sociale a seguito del diffondersi del pensiero socialista.

Il XX secolo può essere definito quello della lotta di classe e della dignità del lavoro, non solo per l’affermazione del sistema socialista in Russia e in molti altri Paesi ma anche per la diffusa teorizzazione della lotta di classe, passando dalla singolare associazione tra carità e repressione alla considerazione del lavoro come base per il riscatto della propria dignità. Questo processo avviene nel periodo dell’industrializzazione più intensa, in cui le moderne fabbriche, con i loro rigidi regolamenti evidenziarono un legame di continuità con la rigida strategia rieducativa degli ospedali generali.

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J. Baptiste La Salle

Atteggiamento della Chiesa di Roma di fronte a questi cambiamenti

Dal Cinquecento in poi come sono andati modificandosi gli atteggiamenti sul tema della povertà? Abbiamo ritenuto opportuno dedicare una specifica attenzione alla Chiesa di Roma, che dall’Alto Medioevo fino al 1870 è stata – come è noto – non solo il centro dell’intera cristianità prima e della Chiesa cattolica poi, ma anche un vero e proprio Stato (dall’VIII secolo fino al 1870) [13]. Nel XVI secolo la figura del povero, immagine di Cristo, continuò ad essere approfondita sulla base dell’insegnamento dei primi Padri della Chiesa, che avevano perorato la destinazione universale dei beni e raccomandato l’elemosina in riparazione dei peccati commessi. Sull’esempio di S. Francesco d’Assisi il mondo della povertà continuò a essere idealizzato: ad esempio, vigeva l’usanza di scegliere un povero come padrino per il battesimo dei propri figli, come anche di essere seppelliti nei cimiteri dei poveri.

A Roma, come del resto avveniva anche in altre città economicamente più floride, i capofamiglia erano per la maggior parte poveri, esposti all’indebitamento e all’usura e bisognosi di assistenza. Spesso per i debiti si finiva in prigione. Nel 1582 questa fu la sorte di 5.442 persone, per lo più artigiani: calzolai, falegnami, ortolani, carrettieri e tessitori e dediti ad altri mestieri. In carcere finivano anche i lavoratori poveri, i mendicanti, gli zingari, gli ebrei, gli omosessuali e le prostitute (ve n’erano circa mille in città all’inizio del Seicento, venute da tutta Italia). Tra l’altro, le prigioni, malsane e sovraffollate, addebitavano il costo della permanenza agli stessi carcerati, per cui chi disponeva di maggiori risorse veniva trattato meglio.

Nel XVII secolo ciechi, zoppi e storpi erano sparsi per le strade romane a chiedere l’elemosina, o si accalcavano alle porte dei monasteri e dei conventi cantando orazioni sacre, o si recavano presso i caffè e le osterie. Nel 1613, seguendo l’esempio di altre città europee ed italiane, venne istituita anche a Roma la “Compagnia dei ciechi, degli zoppi e degli storpiati della Visitazione”, una sorta di sindacato “ante litteram”.

Non sfuggivano certo gli aspetti negativi di questo andamento. Innocenzo XII (1615-1700, eletto papa nel 1691) fondò l’Ospizio generale dei poveri e a tale scopo mise a disposizione lo stesso palazzo del Laterano, facendo censire i poveri e vietando l’accattonaggio (con scarso successo). A Roma, nella prima metà del XVII secolo, erano ricorrenti le carestie (1621, 1635 e 1648, 1649, 1653). In quella del 1653  «il pane era molto cattivo, negro e puzzolente» (documento dell’epoca) e questo in aggiunta alle malattie infettive e alle epidemie, per cui la mortalità era molto elevata.

Nel secolo XVIII una figura di spicco a Roma fu il francese S. Benedetto Labre (1748-1783), detto il “povero del Colosseo”. Egli morì nel retrobottega di un macellaio, che lo aveva tolto dalla strada dopo averlo trovato, sfinito dagli stenti perché viveva di carità e condivideva i proventi dell’elemosina con quelli i più poveri di lui.

Seppure con diverse accentuazioni, i poveri e l’elemosina continuavano a essere considerati un effetto della natura delle cose, seguendo la concezione che riteneva il mondo diviso tra ricchi e poveri, tale teoria sulla aprioristica accettazione della diseguaglianza economica iniziava a essere messa in discussione solo da pochi (e poco ascoltati) autori. Uno di essi fu Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), il padre della storiografia italiana, il quale suscitò scalpore e disapprovazione quando sostenne che la carità cristiana non andava ristretta all’elemosina, prefigurando così per tempo quello che sarebbe stato l’impegno sociale e politico dei cristiani.

A un secolo di distanza una vigorosa posizione critica venne sostenuta da Antonio Rosmini (1797-1855), grande filosofo, teologo e sostenitore di un cattolicesimo liberale. Nel volume Le cinque piaghe della Chiesa, Rosmini propose una Chiesa rinnovata e in grado di condividere le condizioni dei poveri: questo saggio, pubblicato nel 1832, venne messo all’indice nel 1849.

La dottrina tradizionale continuava ad assegnare la priorità agli interventi caritativi anziché all’intervento pubblico. Tale impostazione venne ribadita da Pio IX (1792-1878, eletto papa nel 1846), nell’enciclica Noscitis et nobiscum (1849). Questo Pontefice, senza far riferimento alcuno al ruolo alle competenze pubbliche, ribadì che l’esistenza dei poveri rientrava nell’ordine naturale delle cose e che l’elemosina era un atto meritorio per la propria salvezza.

Poco dopo, con Papa Benedetto XV iniziò la fase dell’impegno sociale dei cristiani nell’ambito del processo di industrializzazione, che avanzava sempre più ed evidenziava bisogni e strategie di segno diverso, da regolare con la giustizia e l’intervento dello Stato.

Antonio-Rosmini

Antonio Rosmini

La Chiesa delle encicliche sociali

Nel XIX secolo, avviato ormai il processo di industrializzazione, si determinò una notevole modifica anche nell’atteggiamento della Chiesa cattolica sul tema della povertà, che propose strategie di intervento innovative. Pur permanendo a livello di motivazioni spirituali il riferimento alla carità cristiana e all’esempio di Cristo, si iniziò a prestare attenzione alle cause dell’ingiustizia e al riconoscimento dei diritti. Si registra un dinamismo nuovo sul piano delle idee concettuali, ma anche a livello di impegno concreto verso i poveri la Chiesa non era stata con le mani in mano. Nel XIX secolo si contavano ben 400 istituti di suore, presenti nell’ambito di ospedali, ospizi, case per malati di mente, orfani, come anche nelle iniziative che si occupavano dell’assistenza dei delinquenti e delle prostitute. Questa rete caritativa veniva naturalmente potenziata dall’intervento delle parrocchie e delle diocesi. Il volume di mons. Vincenzo Paglia, prima citato, riferisce che all’inizio del secolo XX la Chiesa poteva contare su 25 mila istituti caritativi con ben 330 mila persone impegnate (e di esse 180 mila nella sola Francia). Dopo la prima guerra mondiale i religiosi e le religiose erano più di mezzo milione e si occupavano di 2,5 milioni di assistiti, trovando un sostegno in 6,5 milioni di laici.

Sul piano delle nuove strategie d’intervento, pur essendo state rigettate pochi decenni prima le piste indicate da Antonio Rosmini, iniziavano a fare breccia le impostazioni promosse dal cattolicesimo sociale, di cui riportiamo alcuni esempi. Del tutto prominente fu l’impegno e l’autorità di mons. Wilhelm Emmanuel von Ketteler (1811-1877), vescovo di Magonza, che fu denominato “il vescovo dei lavoratori”: è del 1864 la sua famosa opera La questione operaia e il cristianesimo. Altri sostenitori di questo orientamento innovativo furono, in Francia, il sacerdote, filosofo, teologo Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854), il domenicano (e famoso predicatore) Henri Lacordaire (1802-1861), il laico Frédéric Ozanam (1813-1853), fondatore della “Società di San Vincenzo de Paoli”, e l’industriale Léon Harmel (1829-1915).

Per quanto riguarda l’intervento a favore dei migranti, personalità di grande spicco (che influirono anche sul Vaticano) furono due grandi vescovi italiani, che condussero una impegnativa opera pastorale nell’ambito dell’emigrazione italiana di massa, con grande attenzione anche ai risvolti legislativi riguardanti i loro connazionali: mons. S. Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza e fondatore della congregazione dei Missionari Scalabriniani, e mons. Geremia Bonomelli (1831-1871), vescovo di Cremona, fondatore dell’Opera a favore dei migranti che recava il suo nome. Negli Stati Uniti dimostrò una particolare sensibilità sociale il Card. James Gibbon (1834-1921), che si tenne lontano dalle posizioni reazionarie e considerò il socialismo un grido di dolore delle persone sfruttate.

Questi fermenti innovativi, riconducibili non solo alle figure eminenti qui menzionate ma anche a una schiera ampia di cristiani concretamente impegnati, vennero recepiti da Leone XIII (1810-1903, eletto papa nel 1878), il primo papa delle encicliche sociali: tra l’altro, come nunzio apostolico vide esplodere le rivolte operaie in Belgio. Questo Pontefice, non più appesantito dalla gestione dello Stato Pontificio, dichiarò che fra i compiti della Chiesa rientrava il magistero in campo socio-politico. È del 1891 la sua enciclica Rerum Novarum, il primo documento pontificio che affrontò la questione operaia, seppure senza riconoscere l’autonomia del laicato nelle decisioni da adottare nel settore. Il papa non esitò a condannare il declassamento del lavoro a merce e a stabilire il contatto con il mondo operaio, fornendo una specifica proposta di intervento che salvaguardava la proprietà privata e, tuttavia, la vincolava all’obbligo di provvedere al bene comune e alla tutela dei più deboli. Tra l’altro, nella sua enciclica egli esprimeva questo auspicio: «Si ricordino i capitalisti e i padroni che né le divine né le umane leggi permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare la giusta mercede è colpa sì enorme che grida vendetta al cospetto di Dio». Questa enciclica afferma che le persone consapevole dell’amore di Dio sono in grado di cambiare le regole e la qualità delle relazioni e anche delle strutture sociali:, in quanto capaci di chiudere con la pace i conflitti, costruire e coltivare delle relazioni fraterne dove c’è odio, cercare la giustizia dove domina lo sfruttamento. Per trovare soluzioni ottimali, la Chiesa incoraggia la solidarietà umana, la giustizia sociale, la fratellanza, il rispetto reciproco, il dialogo sociale, la pace, la crescita della persona umana e l’unità delle forze tra tutte le classi sociali. La salvezza include l’intera esistenza umana, e quindi l’economia, il lavoro, la tecnologia, la comunicazione, la politica in un contesto riguardante le società di un Paese, la comunità internazionale e le relazioni tra culture e popoli.

L’azione sociale dei cattolici andò rafforzandosi grazie anche al sosegno dei successivi pontefici. Papa Benedetto XV (1854-1922, eletto papa nel 1914), fu un grande propugnatore della pace (abolì anche il divieto, vigente per i cattolici italiani dopo l’occupazione dello Stato Pontificio e la sua annessine al Regno d’Italia, di partecipare alla vita politica). Papa Pio XI (1857-1939, eletto nel 1922), si dichiarò contrario alla riduzione della fede a questione privata e con l’enciclica Quadragesimo Anno del 1931, ripropose la questione sociale, riconoscendo i giusti interessi dei lavoratori, condannando il sistema capitalista e quello comunista ed esprimendo contrarietà alla concentrazione del potere economico in poche mani, in quanto opposta all’esigenza di far prevalere il bene comune.

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Abbé Pierre

Durante il secolo XX, quindi, anche all’interno della Chiesa cattolica era emerso che i concetti “operaio” e “povero” non sono sinonimi, che la povertà non va considerata un effetto obbligato dell’industrializzazione e che il lavoro non deve servire solo per la sopravvivenza. Nel contempo il proletariato andava affermandosi come un nuovo soggetto politico in grado di emanciparsi e ciò richiedeva il passaggio dall’assistenza alla previdenza sociale, basata su diritti riconosciuti dai poteri pubblici.

Questo patrimonio di idee innovative è stato ulteriormente sviluppato dopo la seconda guerra mondiale, quando, non solo si è posto rimedio agli orrori del conflitto, ma sul piano sociale sono stati compiuti ulteriori passi in avanti con il recepimento delle istanze del movimento dei lavoratori e delle proposte sociali della stessa Chiesa [14]. Per intervenire pastoralmente nell’ambito della solidarietà la Chiesa ha istituito uno specifico organismo pastorale denominato Caritas che può avere diverse denominazioni nei vari contesti nazionali ma che non ha più l’ambizione di essere depositaria delle competenze a intervenire in ambito sociale, ormai assunte a livello pubblico, bensì concepisce la sua missione a livello formativo e di stimolo e assume in proprio la gestione di servizi di servizi sociali a mo’ di segno, per dimostrare cioè che si possono allargare sempre più i campi di sostegno a tutte le categorie bisognose.

Questa struttura venne ideata in Germania nel 1896 e quindi replicata anche in altri Paesi. Nel 1924 si istituì una Conferenza Permanente della Carità, con sede a Lucerna e il suo compito consisteva nel curare lo scambio tra le organizzazioni dei diversi Paesi, denominata nel 1928 “Charitas Catholica”: la sua azione venne sospesa nel 1937 a seguito dei contrasti insorti tra Francia e la Germania nell’imminenza del conflitto mondiale. Nell’Anno Santo del 1950 Pio XII istituì una “Conferenza internazionale della Caritas” e nel 1951 ne approvò gli statuti: nel 1954 Caritas Internationalis fu la nuova denominazione prescelta. Attualmente nei singoli Paesi operano le Caritas nazionali, che coordinano l’azione svolta nelle singole diocesi e nelle rispettive parrocchie. L’apprezzamento che questi organismi hanno acquisito attestano che carità, diritti e internazionalismo possono essere fruttuosamente coniugati.

Il quotidiano Le Monde, in una serie di articoli apparsi nei primi di marzo del 1978, coniò l’espressione “nuovi poveri”, con riferimento alle persone tagliate fuori da una “società ricca”, caratterizzata dall’abbondanza dei beni (resi disponibili dalla tecnologia) e dal consumismo, mentre una larga quota di cittadini rimane esclusa. A livello planetario, una tra le forme di povertà più preoccupanti è la carente situazione dei Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”, che si trovano in una situazione assimilabile a quella del proletariato europeo nel periodo della prima industrializzazione.

Diverse sono state le figure di spicco del cattolicesimo sociale nel dopoguerra, che hanno anticipato le aperture del Concilio Vaticano. Citiamo alcune solo a titolo esemplificativo:

  • in Francia, il cardinale Emmanuel Suhard (1874-1949), arcivescovo di Parigi, che lanciò l’esperienza dei preti operati per riavvicinare la Chiesa alla classe lavoratrice, e Henri Antoine Grouès, noto come l’abbé Pierre (1912-2007), fondatore del “Movimento Emmaus” [15]:
  • in Belgio il card. Joseph-Léon Cardijn (1882-1967), che fondò nel 1925 la Jeunesse Ouvrière Chrétienne (JOC) ;
  • in Italia don Primo Mazzolari (1890-1959), padre Davide Turoldo (1916-1992), don Zeno Salini (1900-1981), fondatore della comunità di Nomadelfia, don Lorenzo Milani (1923-1967), straordinario educatore come attestano i volumi da lui scritti: L’obbedienza non è più una virtù, Esperienze Pastorali, Lettera a una professoressa.

Queste aperture hanno trovato conferme e ampliamenti negli interventi dei Papi. Giovanni XXIII (1881-1963, eletto papa nel 1958), con l’enciclica Mater et Magistra (1961), ha lanciato un forte appello a perseguire una giustizia dalle dimensioni mondiali, riflessione che è stata continuata dal Concilio Vaticano II (cfr. la Costituzione Gaudium et Spes del 1965) per ribadire la destinazione sociale dei beni della terra e sottolineare che ogni proprietà privata, per sua stessa natura, riveste una funzione sociale e solo se questa viene rispettata si evitano gravi disordini. Il Concilio ha rappresentato l’apice dell’esperienza ecclesiale del dopoguerra e il suo impatto innovativo tuttora perdura. Particolarmente profonde sono le espressioni che sottolineano l’attenzione dovuta alla società e ai suoi bisogni, il rapporto con i poveri, il ruolo dei laici nelle scelte sociali e le relazioni con le altre religioni e tutti gli uomini di bona volontà.

L’enciclica Populorum Progressio (1967) di Paolo VI (1897-1978, eletto papa nel 1963), è l’espressione più forte della Chiesa sullo sviluppo umano.: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Per la Chiesa, pertanto, non sarebbe sufficiente un approccio limitato a considerazioni di natura puramente materiale, economica, politica e persino culturale, senza aprirsi nello stesso tempo a una dimensione spirituale. Parimenti non sarebbe sufficiente un approccio che non prendesse in considerazione tutte le persone e tutti i popoli, o rimanesse cieco rispetto alle cure da adottare per l’ambiente. Questa enciclica è stata la carta fondamentale che ha ispirato molte organizzazioni ecclesiali, come le Commissioni di Giustizia e Pace e a livello laico le diverse organizzazioni non governative per lo sviluppo. Papa Paolo VI ha stigmatizzato che «Nessuno può rimanere indifferente alla sorte dei suoi fratelli tuttora immersi nella miseria, in preda all’ignoranza, vittime della insicurezza (…), che i Paesi ricchi non possono non interessarsi della sorte dei Paesi poveri in un contesto in cui la questione sociale è divenuta mondiale (…) e lo sviluppo è il nuovo nome della pace».

Nell’enciclica Octogesima Adveniens (1971), che commemora l’anniversario della Rerum Novarum di Leone XIII, papa Paolo VI ha precisato che la missione della Chiesa consiste nel favorire la cultura della solidarietà e non di offrire un modello sociale prefabbricato e improntato a una inesistente soluzione universale, assolutamente non in grado di tenere conto dei cambiamenti che continuamente intervengono. Pertanto, le scelte vanno lasciate al discernimento dei cristiani, chiamati a operare insieme agli uomini di buona volontà.

Anche nell’enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo II (1920-2005, eletto nel 1978) vengono riproposti temi quali la dimensione mondiale della questione sociale, l’amore preferenziale per i poveri con riferimento a tutte le forme di povertà, l’inaccettabile divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Papa Giovanni Paolo II insiste sulla dimensione morale dello sviluppo umano: non si tratta di una questione puramente tecnica, ma una realtà che implica scelte umane, da valutare in base al contributo che possono dare o meno al bene comune. Nel contesto della guerra fredda e dell’opposizione tra l’ideologia capitalista e quella comunista, viene ribadito che lo sviluppo autentico non può essere confuso con il mito del progresso, inteso come una semplice espansione della ricchezza materiale. Lo sviluppo autentico implica la promozione della solidarietà, che «non è una sensazione di vaga compassione, ma la ferma e perseverante determinazione a lavorare per il bene comune (…) perché tutti siamo responsabili di tutti».

7Nell’enciclica Centesimus Annus (1991) viene ricordato che “la terribile condizione” in cui vivevano molti uomini e donne all’inizio del processo di industrializzazione si ripropone anche oggi in gran parte del mondo. «Nei contesti del Terzo Mondo conservano la loro validità proprio queli obiettivi indicati dalla Rerum Novarum per evitare la riduzione dell’uomo stesso a livello di una semplice merce».

Papa Benedetto XVI (1927, pontefice dal 2005 al 2013), con l’Enciclica Caritas in veritate, ha sottolineato il dovere di fondare la solidarietà sulla verità. L’economia è uno dei campi «in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato», per cui bisogna riscoprire l’etica delle relazioni commerciali ed economiche. L’umanità sta attraversando molteplici crisi all’inizio del terzo millennio, caratterizzato da una globalizzazione complessa e da una crescente secolarizzazione: crisi finanziarie ed economiche, crisi energetiche e ambientali, crisi sociali e politiche. Queste crisi «sono l’occasione per approfondire il discernimento e fare delle scelte per un futuro meglio radicato nei valori umani fondamentali, in una “nuova sintesi umanista». La dimensione del dono e della gratuità, al lavoro ad esempio nelle forme creative dell’economia solidale, fa parte di questa sintesi che riafferma la necessità di cooperazione e di relazioni interpersonali nelle società sempre più marcate dall’isolamento e dall’individualismo. Nel quadro di una crescente finanziarizzazione dell’economia i cui effetti devastanti sono stati crudelmente avvertiti a seguito dell’impatto globale esercitato dalla crisi finanziaria del 2008 sull’economia reale, Papa Ratzinger ricorda la necessità di riportare l’economia al servizio dello sviluppo umano e del bene comune. Con questa enciclica, il tema dello sviluppo inizia a essere più strettamente collegato a quello del rapporto tra umanità e ambiente. Viene ricordata dal Papa la responsabilità di tutti nei confronti dei poveri e delle generazioni future, e ciò comporta una riforma degli stili di vita in risposta in particolare al consumismo delle società dell’abbondanza. La preoccupazione per una rinnovata solidarietà intergenerazionale, come quella dei più fragili, ci invita a  intendere lo sviluppo umano nel senso di crescita dell’umanità nella solidarietà.

Papa Francesco, eletto nel 2013, ha impostato il suo magistero sulla operatività concreta dei cristiani e richiama continuamente l’attenzione sui migranti, sui richiedenti asilo e sulla necessità della pace e dello sviluppo tra i popoli. Questo Papa ha continuato l’approfondimento della dottrina sociale della Chiesa con una una preoccupazione del tutto particolare per la giustizia verso i più fragili e una speciale attenzione ai temi ambientali, ai quali ha dedicato l’enciclica Laudato si (2015). Questa enciclica ricorda che tutti i comportamenti sono connessi: come trattano gli altri, come trattiamo noi stessi, come trattiamo la creazione e come sono le nostre relazionarsi con il Creatore. «Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri». Papa Francesco propone il percorso di un’ecologia integrale, al livello umano e sociale oltre che ambientale, non solo per promuovere un autentico sviluppo umano ma, più precisamente, anche per  «convertire il modello di sviluppo globale» e «ridefinire il progresso». Si tratta di uscire da una logica di produzione e consumo che esaurisce le risorse, che ha come strascico una cultura di rifiuti che trasforma tutto, dalle cose agli esseri umani, in oggetti.

Nel 2016 questo Papa ha fatto confluire diverse strutture pontificie operanti nel settore della solidarietà (inclusa quella competente per i migranti) nel Dicastero per il servizio allo sviluppo umano integrale, una denominazione che ben riassume il cammino fatto dalla Chiesa per essere vicina ai poveri e ad ogni categoria di emarginati e per affrontare le cause che determinano queste disfunzioni.

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Papa Francesco in un incontro con la Caritas

Riflessioni conclusive

Le considerazioni qui sommariamente svolte, spigolando tra i riferimenti storici e, nell’ultima parte, tra i documenti pontifici, aiutano a rendersi conto che l’elemosina e la beneficienza, pur essendo stati nel passato apprezzabili segni di sensibilità personale dei cristiani, sono risultati con l’andar del tempo rimedi insufficienti a far fronte alle nuove esigenze, che richiedono una impostazione basata sulla giustizia sociale e sulla solidarietà globale, unendo l’intervento pubblico all’impegno personale di vita (un dovere sempre sottolineato nella tradizione cristiana).

Questo nostro exursus storico-concettuale ci porta a formulare due riflessioni conclusive, riguardantella prima i decisori pubblici e la seconda i cristiani. I problemi socio-economici generati dall’industrializzazione e dalla globalizzazione postulano una efficace collaborazione per la giustizia e la promozione umana, tra le istituzioni e tutte le categorie socio-professionali coinvolte. La missione della Chiesa non è politica, economica o sociale, ma essenzialmente religiosa, tende ad annunciare il Vangelo, facendo appello ai responsabili della vita civile di adoperarsi a favore di un modello sociale caratterizzato da una visione morale e umanistica, imperniata sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutte le categorie sociali coinvolte, riconoscendo anche l’importanza dellla dimensione religiosa., tenuto anche conto che la Chiesa si è impegnata responsabilmente, con discernimento e solidarietà, a migliorare le condizioni di vita delle classi sociali svantaggiate. Questa è la prima conclusione, che sintetizza alcuni contenuti delle encicliche sociali dei Papi.

La seconda conclusione ci induce a sottolineare che gli orizzonti dell’impegno del cristiano si sono ampliati, da ultimo per l’effetto congiunto dell’insorgere di nuove povertà, per la percezione del dovere di preoccuparsi dello sviluppo degli altri Paesi e dell’accoglienza dei migranti. L’attenzione dei cristiani a chi si trova in stato di bisogno è stato liberato dalle incrostazioni del passato, che impedivano di rilevare il carico di ingiustizia presente nelle condizioni di vita dei più diseredati.

Oggi, come già secoli addietro, la questione dei “poveri” torna a essere posta come un focolaio di pericolosità e instabilità sociale; basti pensare agli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati senza pensare congiuntamente alle cause che stanno all’origine dei loro flussi. Pertanto, è indispensabile insistere sul peso negativo delle strutture e sullo stile di vita personale, un aspetto che riguarda tutti i cittadini ma specialmente un cristiano che voglia ispirarsi con coerenza all’esempio di Cristo e degli apostoli della carità che si sono succeduti nel corso di due millenni.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
[*] Questa riflessione congiunta, che trova l’aggancio storico in un periodo di lavoro comune svolto a Roma sul tema delle migrazioni, è stato dettato dagli impegni di docenza su questo tema programmati nel 2017 presso la Facoltà di teologia e di scienze religiose dell’Università Laval di Québec. Si è ritenuto opportuno, nell’ ottica di un giudizio più equilibrato, unire la sensibilità sociale praticata in un contesto di secolarizzazione avanzata, quale è il Canada dagli anni ‘60, con quella riscontrabile in un Paese che è centro del cattolicesimo e sperimenta una laicità diversa.
Note
[1] In Italia, ad esempio, i dati del 2016 sulla povertà (assoluta e relativa) hanno suscitato grande impressione per via dell’accresciuto coinvolgimento delle persone [https://www.istat.it/it/archivio/202338]
[2] Sull’evoluzione intervenuta nell’intero periodo cfr. M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 2001; V. Paglia, Storia della povertà. La rivoluzione della carità dalle radici del Cristianesimo alla Chiesa di papa Francesco, Rizzoli, Milano 2013.
[3] Ambrogio di Milano, De Nabuthae historia, Carocci Editore, Roma 2012. Il riferimento testuale è tratto dal capitolo X: 44. Il trattato citato riguarda la funzione della proprietà e il comportamento dei ricchi rispetto ai poveri.
[4] Oursel Raimond; Moulin Léo; Grégoire Réginald, La civiltà dei monasteri, Jaca Book, Milano 1998.
[5] Cfr. Giuliana Alunni, Poveri e ospedali nel Medioevo, Carocci, Editore Roma 2011.
[6]Il suo pensiero profetico ebbe un grande seguito e venne denominato gioacchinismo. Tra gli autori vicini al suo pensiero viene annoverato anche il teologo inglese Ruggero Bacone (1214-1292), noto come doctor mirabilis e Papa Celestino V (1215-1296), il papa che rinunciò al suo incarico.
[7] I docliniani erano i membri di un movimento ereticale, seguaci di fra Docino di Novara (1250-1307), che morì condannato al rogo da Papa Clemente V. Fra Dolcino, che seguiva l’ideale francescano della povertà, aveva aderito al movimento degli apostolici di Gherardo Segarelli e si ispirava alla ripartizione delle epoche storiche fatta da Gioacchino da Fiore.
[8] Pietro De Angelis, L’ospedale di Santo Spirito in Saxia, Biblioteca della Lancisiana, Roma 1960.
[9] Nella lingua italiana galeotto è il termine utilizzato per indicare la persona che, a seguito di condanna penale, veniva impiegata per remare nelle galere, l’imbarcazione che per tre millenni era la più usata nel Mediterraneo fino al XVI secolo, quando fu soppiantata dai velieri; successivamente il termine ha indicato i carcerati in generale.
[10] Ospedali e città. L’Italia del centro Nord, XII-XVI secolo, a cura di J. Allen Grieco, L. Sandri, Firenze 1997.
[11] Edizioni Einaudi, Torino, 2014.
[12] Cfr. sul contesto romano V. Paglia, Storia della povertà. La rivoluzione della carità dalle radici del cristianesimo alla Chiesa di papa Francesco, Rizzoli, Milano 2013.
[13] Per rendersi conto delle situazioni di miseria del dopoguerra, è quanto mai significativa per l’Italia l’indagine del 1951 condotta dalla Camera dei deputati (Commissione Vigorelli): si riscontrò che 6,2 milioni di persone (l’11% della popolazione) viveva in condizioni subumane e altrettanti in condizioni fortemente disagiate, per lo più concentrati nel Meridione. La Chiesa si rese benemerita in questo contesto attraverso la Pontificia Commissione Assistenza Profughi.
[14] L’abbé Henri Godin nel 1943 pubblicò il volume La France, pays de mission, che aiutò la Chiesa francese a rendersi conto della necessità di interventi più incisivi.
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
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Nadia-Elena Vặcaru, docente presso la Facoltà di teologia e di science religiose dell’Università Laval (Québec, Canada), nel 2009 ha conseguito il dottorato in Geografia (presso l’Università “Alexandru Ioan Cuza” di Iasi, Romania) e nel 2013 il Dottorato in Teologia (presso l’Università di Bucarest, in Romania). Le ricerche attuali, condotte in singoli progetti o in collaborazione con gruppi dei settori della teologia, filosofia, sociologia e geografia, sono incentrate sull’evidenziazione, da una prospettiva interdisciplinare, del ruolo della Dottrina sociale della Chiesa nella società contemporanea. Tra i temi privilegiati nei suoi studi sono: la pastorale e l’etica sociale, le migrazioni contemporanee, l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati, il patrimonio religioso.

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