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Da Procida a Palermo: migranti di guerra 1806-1814
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2022 @ 01:33 In Migrazioni,Società | No Comments
di Rosario Lentini
Il 21 dicembre 1798, Ferdinando IV di Borbone, con la consorte Maria Carolina e il ministro del Commercio e della Marina John Acton, si imbarcò sul Vanguard dellʼammiraglio Horatio Nelson con destinazione Palermo, costretto ‒ per la prima volta ‒ a fuggire da Napoli, a causa dellʼavanzata dellʼesercito napoleonico. Sarebbe rimasto in Sicilia fino al mese di giugno del 1802 per poi tornarvi a inizio del 1806, qualche settimana prima dellʼingresso di Giuseppe Bonaparte nella capitale partenopea. In questa seconda fase, la permanenza a Palermo sarebbe durata un decennio ‒ fino a giugno del 1815 ‒ durante il quale non solo fu stravolta la geografia politica e militare europea, ma anche il commercio internazionale, gli affari e le condizioni di vita delle popolazioni più direttamente colpite dalla guerra. Divieti, arresti, uccisioni, sequestri, confische di beni, divennero provvedimenti di ordinaria amministrazione, che i governi belligeranti adottarono nei confronti degli abitanti dei territori occupati o degli stranieri residenti nei regni rispetto ai quali la nazione di provenienza era diventata nemica.
È ciò che accadde ai numerosi francesi dimoranti a Palermo, immediatamente dopo la prima invasione del regno di Napoli da parte dellʼesercito napoleonico, i cui beni e patrimoni vennero posti sotto sequestro, almeno fin quando non avessero dimostrato piena fedeltà al re Borbone e di essersi trasferiti in Sicilia da prima dellʼinizio del conflitto. Così, infatti, ordinava il re per il tramite della sua “Real Segreteria”:
Specularmente, analoghi provvedimenti vennero adottati nei confronti dei cittadini napoletani e di quelli delle province del meridione continentale occupate dai francesi ‒ cioè dei cosiddetti regnicoli ‒ costretti a fuggire precipitosamente in quanto “compromessi” col nemico borbonico, per trovare riparo soprattutto a Palermo e a Messina.
Re Ferdinando non poteva certo rassegnarsi allʼidea di dover rinunciare ai suoi domini e grazie allʼassistenza militare e finanziaria del potente alleato britannico, tentò ripetutamente di scacciare i francesi. Così, per esempio, mentre Giuseppe Bonaparte il 15 febbraio 1806 entrava a Napoli per prendere possesso del regno meridionale (lʼ11 marzo sarebbe stato proclamato re), una squadra navale inglese si presentò nel Golfo di Napoli, riuscendo ad occupare Capri il successivo 13 maggio e subito dopo anche Ponza, cui seguirono diverse azioni offensive su Ischia e Procida [2]. Tuttavia queste iniziative militari anglo-siciliane, volte a creare una testa di ponte per riconquistare Napoli, non furono risolutive e, nellʼestate del 1809, anche lʼennesimo tentativo di impossessarsi di Ischia e Procida non andò a buon fine.
Come ha osservato Michela DʼAngelo: «Se la tradizione e il commercio marittimo legavano Sicilia e Calabria in un complesso rapporto di scambio, la congiuntura napoleonica allʼinizio dellʼ800 interrompeva formalmente quei legami e spingeva una parte della popolazione calabrese, ostile e refrattaria per vari motivi alla dominazione francese a guardare alla sponda siciliana come ad un sicuro rifugio. […] Se infatti lʼemigrazione antifrancese delle classi medio-alte del Napoletano seguiva la rotta della Corte borbonica a Palermo, a Messina approdava invece una fiumana di artigiani, nullatenenti, popolo minuto proveniente dai vicini paesi della Calabria» [3]; questi ultimi, tra il 1806 e il 1808, ammontavano a 3.284 individui che costituivano 1.164 nuclei familiari [4].
Anche il flusso migratorio in direzione di Palermo fu oggetto di puntuale censimento, dettato dal fatto che, in qualche modo, il re e i ministri competenti dovevano affrontare un fenomeno sociale rilevante, sotto il profilo della sicurezza e delle finanze regie. La maggior parte degli immigrati aveva dovuto abbandonare la propria casa e il lavoro, magari modesto e saltuario, ma pur sempre fonte di reddito che, in Sicilia, non sarebbe stato facile trovare. In termini approssimativi, il Parascandolo, nel suo libro sulla storia di Procida, indicava in circa quattro mila il numero degli abitanti che aveva lasciato lʼisola lungo tutto il decennio di dominio francese [5]:
Notizie più precise e dettagliate, seppur relative al periodo 1806-1809, sono però rilevabili tra le carte inedite che si conservano presso lʼArchivio di Stato di Palermo, riguardanti in particolare gli arrivi nella capitale siciliana, alla data del 30 luglio 1809, dal regno peninsulare, registrati in un prezioso elenco nominativo degli «emigrati», con lʼindicazione dei componenti il nucleo familiare, della provenienza e della «professione» esercitata [7]:
PROFESSIONE E PROVENIENZA DEGLI EMIGRATI |
NAPOLI |
PROCIDA |
ISCHIA |
REGNO DI NAPOLI |
Totale |
Galantuomini e benestanti |
16 |
62 |
5 |
5 |
88 |
Ecclesiastici |
0 |
17 |
2 |
1 |
20 |
Artieri |
4 |
71 |
6 |
29 |
110 |
Venditori e bottegari |
5 |
50 |
3 |
0 |
58 |
Facchini e ricattieri |
5 |
41 |
0 |
1 |
47 |
Terrazzani |
1 |
62 |
13 |
20 |
96 |
Marinari addetti alla Real Marina |
121 |
39 |
1 |
31 |
192 |
Marinari addetti ai legni mercantili |
21 |
862 |
75 |
18 |
976 |
Individui sciolti |
21 |
163 |
25 |
24 |
233 |
TOTALE |
194 |
1367 |
130 |
129 |
1.820 |
% |
10,7 |
75,1 |
7,1 |
7,1 |
100,0 |
La tabella mostra come il fenomeno abbia riguardato trasversalmente tutti i ceti sociali e quanto sia stata significativa la preponderanza di procidani trasferitisi a Palermo (3/4 del totale), la maggior parte dei quali (862) operanti sui mercantili che solcavano il Tirreno. Ciò non deve sorprendere perché tra giugno e luglio del 1809 si erano impegnati al fianco della squadra anglo-siciliana, che aveva tentato di riprendere il controllo di Procida; ma, fallito il piano, lʼisola tornò in mani francesi e una seconda ondata di abitanti, temendo ritorsioni, si imbarcò per Palermo al seguito della predetta squadra.
Si osserva, inoltre, che sul totale di 1.820 censiti, il 54,2 per cento era composto da donne contro il 45,8 di uomini e che gli aggregati familiari rappresentavano il 69,6 per cento del totale a fronte del 30,4 di singoli individui.
A questo nutrito gruppo di emigranti probabilmente se ne aggiunsero altri anche dopo il 1809, tuttavia, lʼesodo più consistente verso Messina e Palermo si svolse nel triennio 1806-1809. Si poneva, dunque, il problema di approntare un piano di sussidi che valesse a limitare lo stato di disagio e di indigenza nel quale erano precipitati i fuggitivi. Lʼassistenza finanziaria ritenuta indispensabile da parte del governo, valeva anche a dimostrare lʼattenzione e la benevolenza del re nei confronti di chi era rimasto fedele alla monarchia borbonica e non era passato nelle fila nemiche, come già accaduto nel 1799 con la nascita della Repubblica partenopea filo-francese. Per organizzare, quindi, un sistema di protezione sociale degli immigrati provenienti dal Napoletano, il re chiamò a presiedere lʼ«Amministrazione Generale deʾ Sussidj» il giudice di vicaria Michele de Curtis, già governatore di Caserta e poi di Procida [8]. Sul suo conto lo stesso Ferdinando IV aveva scritto al cardinale Ruffo nel marzo del 1799, esprimendosi in termini lusinghieri: «essendosi sempre con somma fedeltà ed onoratezza condotto» [9].
Lʼimporto del sussidio per quanto «tenuo e scarso» venne erogato in misura variabile in relazione alle situazioni specifiche fino ai primi mesi del 1812, seguiti da un lungo periodo di sospensione dei pagamenti per il pesante deficit finanziario. Nel 1813, infatti, con un dispaccio regio del 22 aprile, si comunicò «che le circostanze dello Stato non permettevano di continuarsi il pagamento deʼ Sussidj quatrimestrali, e mensuali e che non si sarebbero pagati neppure gli arretrati»[10].
Lʼultrareazionario principe di Canosa ‒ futuro capo della polizia borbonica post restaurazione ‒ anchʼegli trasferitosi in Sicilia, non esitava a far sentire la sua voce pubblicando una Memoria «onde dimostrare esistere nei Napoletani verso il Parlamento di essere sussidiati in Sicilia, ed il corrispondente dovere in Esso di loro non contrastarlo, ed effettuarlo»[11]. Peraltro, era egli stesso percettore di un sussidio quadrimestrale più che dignitoso, di complessive 440 onze siciliane lʼanno (1.320 ducati napoletani) [12].
In verità, da parte del governo non cʼera alcuna volontà contraria a mantenere questo impianto solidaristico, tantʼè che lʼassegnazione annua di oltre 27.639 onze ‒ poco meno di 84 mila ducati ‒ rimase regolarmente iscritta in bilancio. Il problema nasceva dalle crescenti difficoltà della tesoreria regia ad approvvigionarsi di liquidità, se non mediante prestiti a tassi sempre più onerosi [13]. Il De Curtis, ben consapevole delle condizioni in cui versava la maggior parte degli assistiti, e del fatto che gli importi previsti erano stati utilizzati per le ingenti spese di guerra, propose al principe vicario che, in attesa della riconvocazione del Parlamento, si pagassero almeno gli arretrati del 1812 in rate mensili: «prestandosi in tal modo il mezzo di far sossistere i Napolitani in Sicilia fino a tutto Aprile dellʼanno 1814, epoca in cui forsi [forse] sarà aperto il Parlamento, e potrà occuparsi di quanto V.A.R. [Vostra Altezza Reale] insinuò aʼ Membri del medesimo, se pure le segnalate Vittorie delle Armate combinate contro il comune Nemico, non faranno rientrare in seno della lor Patria gli emigrati che si trovano in Sicilia»[14].
Lʼappello cadde nel vuoto, come mostra una relazione datata 24 ottobre 1814 presentata dal De Curtis al re, in vista della convocazione del Parlamento siciliano, nella quale si indicava il dettaglio e lʼammontare complessivo dei sussidi arretrati, al 21 aprile 1813, non ancora pagati agli emigrati residenti a Palermo e a Messina e cioè la ragguardevole somma di oltre 30 mila onze (90 mila ducati) [15].
Il problema avrebbe trovato soluzione solo al cessare della guerra e con il rientro nelle proprie abitazioni di quasi tutti gli emigrati. Di numerosi procidani si conservano le lettere di «supplica» inviate al re negli anni precedenti per potere accedere al piano di assistenza finanziaria, che costituiscono un mosaico di testimonianze sulla condizione drammatica nella quale vennero a trovarsi. Teresa Angela Galatola, «madre di sei figli e moglie di Michele Lubrano uno dei più ricchi padron di Barca di Procida», avendo perduto tutti i suoi beni, supplicava che le venisse accordato «un letto e qualche summa» per la figlia da sposare [16]. La richiesta fu accolta, diversamente da quanto, invece, si comunicò a Maria Dicidomini la quale «contrasse Matrimonio con Gaetano Ruggiero di Vico, dal quale Matrimonio è restata la supplicante incinta, non avendo modo sopra dove sgravare per non aver letto». La motivazione del rigetto dellʼistanza si fondava sul fatto che il matrimonio si era già celebrato prima della presentazione della supplica [17]. Al mastro scarparo Michele Albano, «inabilitato ad esercitare la sua arte» perché ‒ come certificava il medico De Cusatis ‒ «soffre una Reumatalgia Venerea con delle Gomme» si riconobbero cinque baiocchi al giorno [18]. La domanda presentata dallʼottuagenaria Agnesa Romeo ‒ assegnataria di una razione alimentare giornaliera a base di «due gallette, un poco di salume, ed un poco di vino» ‒ di poter ricevere, in alternativa, un sussidio monetario, venne accompagnata da parere favorevole del De Curtis in una nota per il re: «vengo a sottomettere che la M.V. [Maestà Vostra] potrebbe benissimo concedere alla ricorrente bajocchi sei giornalieri e sospendere la razione di bocca, quale se alla Ricorrente non piace, per esser generi cattivi, alla M.V. però viene a costare molto assai dippiù del sussidio, che propongo» [19]. Ed, infine, la drammatica supplica della vedova Anna Cocciuto la quale comunicava di ritrovarsi «inferma a letto con scierro dentro una zinna [cancro al seno], modo non avendo di potersi guarire perché misera senza Sussidio, senza niente, non potendo nemmeno comprare gli medicamenti che ordina il Dr. Dn. Casimirro de Cusatis, che la sta curando per lo che a non morire disperatamente» [20].
Di queste lettere se ne conservano molte nei faldoni dellʼArchivio di Stato palermitano, testimonianze di una “umanità dolente” ‒ nel caso specifico quella di Procida ‒ travolta, come tante altre comunità meridionali, dagli sconvolgimenti dell’età napoleonica. Non fu la prima volta e, purtroppo, non sarebbe stata lʼultima.
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