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Cronache attorno alla spazzatura a cavallo tra due secoli
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 03:07 In Cultura,Società | No Comments
di Rosy Candiani
Tunisi 2020, Ramadan di confinamento, due mesi di sospensione della vita reale in una bolla dove i suoni arrivano attutiti, i giorni si appiattiscono nella dimensione lineare del giorno prima e del giorno dopo. Tunisi è sempre stata una capitale, frenetica, sfaccettata in mille realtà sociali ed esistenziali, in differenze spesso macroscopiche ma coesistenti, direi armoniosamente, nel contenitore urbano.
Disparità che si manifestano, come epifanie minimali, nei gesti più banali della vita quotidiana, anche dei quartieri popolari: gli “affamati” compratori di un numero di baguettes spropositato per le reali esigenze e consumi, che finiscono per alimentare la montagna di sacchi di spazzatura negli angoli di raccolta, e la povertà dignitosa ma straziante di chi, i “barbécha”, a quegli stessi angoli, nei punti di raccolta della spazzatura, cerca la baguette avanzata, il mozzicone di sigaretta o, preda più ambita, le bottiglie di plastica vuote. Pochi centesimi per una bottiglia fanno un’attività purtroppo ben diffusa, al calar del sole o al mattino presto.
In questi giorni, in cui il balcone di casa diventa spazio vitale di sopravvivenza, di passeggiata, abbronzatura, lettura e sguardo perso verso il mare in lontananza, in cerca di fili che tirino di nuovo i movimenti, gli spostamenti, la vita; giorni in cui le strade sono straordinariamente libere e il silenzio talora assordante, è impossibile non rendersi conto che questi “chouelki”, questa umanità sofferente che vive di rifiuti altrui, sono incredibilmente aumentati. Ormai a cadenza di dieci minuti, ciascuno nella sua fascia oraria tacitamente conquistata, arrivano con la loro “barwita” – la carriola – più o meno folcloristica o tecnologica, e rovistano, cercano, talora con esito fortunato, talora a vuoto.
Si susseguono silenziosi, la vecchina con il fardello debordante che la piega e sommerge, la coppia chiacchiericcia che all’angolo si separa attorno a due isolati contigui, l’uomo corpulento e barbuto… E la mente corre alle letture e arretra nel tempo per scoprire che l’umanità progredisce, si affanna ma resta sempre un po’ uguale a se stessa.
Anno 1936, la Belle Époque e le avvisaglie della crisi mondiale, gli ultimi anni prima della guerra: sul quinto numero della breve avventura editoriale della rivista “umoristica illustrata per tutti” Essourour esce lo sketch “Ech-chouelki” – Il cercatore di spazzatura – un titolo in “derja”, il dialetto tunisino, che fotografa un’attività ancora viva benché trasformata dai tempi: la plastica di oggi era il “choulika”, il tessuto usato di quell’epoca: il termine ora è in disuso, perché oggi un’altra realtà, e un altro termine, si è diffusa capillarmente nella vita tunisina, quella delle bancarelle e degli ambulanti del “frip”.
La breve pièce, senza didascalie, è un dialogo tra due emarginati senza nome, che si ritrovano, come d’abitudine, a rovistare nel deposito di spazzatura all’angolo della strada. La scena è illustrata (come quasi tutti gli articoli della rivista) da una vignetta, realistica e caricaturale al tempo stesso, firmata da “El fhim” – l’intelligente – pseudonimo del pittore Amor Ghrairi. Ne trascrivo la traduzione, prendendomi l’arbitrio di dare un nome ai due anonimi clochards, che chiamo A-Ali- e B-Bechir.
Nella sua semplicità quasi disarmante, questo atto unico consente diverse prospettive di lettura, a livello di genere, di stile, di meccanismi teatrali, di contenuti e di implicazioni storiche e sociologiche di considerevole interesse. Scritta indubbiamente con intento umoristico, può essere letto come teatro d’evasione, che strizza l’occhio al vaudeville, ma può portare a una ricezione più smaliziata.
Condensati nella dimensione della battuta, rapida come uno schizzo a penna o come una foto istantanea catturata con il cellulare, una serie di quadri della società contemporanea fanno capolino nella dimensione tra fantastico e drammatico del quotidiano. Ripresi con inquadratura dal basso, dai margini della società e dalla visuale dei due personaggi, anche fisicamente chinati nella ricerca nel pattume, si affacciano: la crisi economica attraversata dal ceto medio e piccolo borghese del tempo, ormai ben attento a non sprecare, a riutilizzare o rivendere ogni oggetto del quotidiano, sia pure consunto; il cambiamento dei costumi sociali e le nuove mode ormai diffuse nella vita quotidiana, come l’abbandono dei “calzoni” sotto l’abito da parte delle donne, spesso ormai abbigliate all’occidentale, con le gonne, anche corte; la moda della cucina vegetariana; la diffusione e l’abuso della droga e dell’alcol; e gli effetti socio-ambientali del Protettorato, la ricaduta della dilagante francofonia, soprattutto nella classe medio-alta tunisina, ancorata a ruoli di prestigio dell’establishment musulmano, ma attenta soprattutto alla forma e all’educazione della prole per il suo futuro inserimento ai vertici socio-politici.
I due personaggi del dialogo sono fortemente stilizzati e semplificati in ruoli tipo; in assenza di didascalie, è la vignetta che li descrive, assolvendo alle funzioni di un bozzetto di scena: A-li è il nostalgico dei “bei” tempi passati, un po’ ingenuo e stralunato; B-echir è più giovane e disincantato, più smaliziato sulle novità della società benestante dell’epoca; le loro ombre, proiettate dalla lampada con cui si aiutano nel rovistìo, riportano al mondo animale umanizzato delle favole di Esopo: una testa taurina per A-li e delle zampe di capro per B-echir. Due figure grottesche e patetiche e una rappresentazione deformante delle entità. I tratti rapidi e nervosi della caricatura si sovrappongono esattamente ai tratti dello scrivere breve: in poche e per lo più brevi battute si concentra l’invenzione: l’immaginazione letteraria che trae spunto dall’osservazione diretta del reale, trova poi espressione e viene trasposta nel dialogo teatrale, che condensa due intere esperienze sensibili, due esistenze.
Non è possibile appurare se la brillante invenzione teatrale sia pervenuta sulle scene, ma si trova in perfetta sintonia con la programmazione della Tunisi beldeya tunisina o coloniale francofona, che affollava i teatri cittadini attorno alla centrale Avenue, come il teatro Rossini, le sale estive all’aperto, come il Palace Théâtre al Belvedere, gestiti tra l’altro da italiani: operette, vaudevilles, commedie, melodrammi secondo cartelloni stagionali regolari (Mostrel 2018: 95) [7].
Il teatro comico francese di inizio ‘900 – vaudeville, comédie bien faite, teatro da boulevard – è essenzialmente teatro d’evasione, commedie leggere d’intreccio, con dialoghi serrati, scritte per un pubblico dai gusti tradizionali a cui si rivolge in cerca di complicità e con la capacità infallibile di far ridere, da Labiche a Feydeau.
L’autore della pièce da un lato è conoscitore consumato dei meccanismi della risata, ma nello stesso tempo ha la smaliziata padronanza verbale per far emergere la crudeltà e l’assurdo della realtà quotidiana. Questa pièce come altre pubblicate sul settimanale, nel tono piano, tra ingenuo e stralunato, nello stile piacevole e sorridente, veicola col sorriso sulle labbra la mostruosa dissonanza del reale: folle macchina teatrale, che molto deve ai Feydeau e ai francesi rappresentati a Tunisi, sembra anticipare certi esiti del teatro dell’assurdo degli anni ’50, che porta all’implosione quel genere di teatro comico. Osservando dalla platea con l’occhio dello spettatore A-li e B-echir, il pensiero slitta verso Astragon e Vladimir di En attendant Godot di Beckett, o ai burattini disarticolati di Ionesco e Cocteau.
Vale dunque la pena di tornare a soffermarsi sulla identità dell’autore, certo non una figura secondaria del panorama letterario a Tunisi: capace di osservare i dettagli dell’esistenza umana con una curiosità acuta e benevola, di affidare al dialogo e alla reciproca interazione lo spaccato di una società, di far scaturire il fantastico dal quotidiano più dimesso, attraverso la padronanza dei processi di astrazione e di straniamento da cui scaturisce il comico.
Per quanto anonimo, l’autore di questa micro-pièce è figlio del gruppo di redattori della rivista Essourour [8], un esperimento editoriale salutato con enfasi dal mondo della cultura, ma destinato alla breve esistenza di sei numeri, sicuramente per problemi economici [9] ma forse anche per qualche frecciata di troppo all’establishment del Protettorato: Ali Douagi, Amor Ghrairi, Abderrazak Karabaka, Ali Laabidi, Mahmoud Beiram, ossia i giovani di Taht Essour, il movimento culturale nato attorno al caffè omonimo a Bab Souika, nella parte più popolare ma anche più vivace per attività culturale, musicale, teatrale, editoriale nella Medina.
Radicata nella Tunisi popolare, questa élite di giovani Bohémiens, che condividono ideali e forme di ceatività oltre che le ore trascorse al caffè, è attentissima alla realtà culturalmente cosmopolita dei quartieri europei, in questi anni brillanti e vaporosi: partecipa e diffonde film egiziani ed europei (da Abdelwaheb, pubblicizzato su Essourour, a Chaplin), stagioni d’opera, di operette e vaudevilles, musica e ritmi alla moda da tutto il mondo (tango, bolero, rumba, valzer); elabora progetti audaci; incoraggia attività artistiche (stamperie, sale di feste, negozi di musica d’importazione e di strumenti musicali); sogna un rinnovamento culturale fondato sulla pluralità e la ibridazione delle forme artistiche; sviluppa una letteratura umoristico-sarcastica graffiante e aperta sul mondo.
Di questa generazione curiosa e vivacissima, Ali Douagi è l’esponente di maggior spicco; intelligente e visionario pur nel suo attaccamento disincantato alla realtà quotidiana, poliedrico negli interessi, rivela i suoi molti volti artistici come disegnatore caricaturista, autore di canzoni musicate dai più noti compositori dell’epoca, narratore e drammaturgo, nonché attore e animatore culturale radiofonico [10]. Douagi è l’ideatore, la mente di Essourour: direttore, editore (sua è la tipografia a naj El Mar, a Bab Menara), ideatore del logo della rivista, in puro stile Déco, come le campate e i decori delle facciate dei quartieri franco-italiani, estensore della gran parte dei contributi, alcuni direttamente firmati, altri sotto pseudonimo e, possiamo aggiungere, molti anonimi.
Non sarebbe criticamente attendibile attribuire direttamente “Ech Chouelki” a Douagi, anche perché molti tratti accomunano i contributi dei redattori della rivista. Ma è indubbio che molte caratteristiche di stile e contenuti riportano alla sua poetica e scrittura: l’adesione a un realismo non come astratta teoria, ma come presa diretta sulla vita reale della sua epoca nelle sue differenti identità; una scrittura naturale e lineare, ma non convenzionale, che cerca la messa in ridicolo dei clichés linguistici ed espressivi delle diverse categorie umane e sociali e che mette in scena e mobilita tutti i registri linguistici di espressione, riproduce, come un registratore ante-litteram, le diverse sfumature di pronuncia referenti all’appartenenza sociale o etnica dei suoi personaggi; l’attitudine a trasferire i suoi inizi di disegnatore caricaturista nella sua scrittura: la blague come tecnica di racconto o di scrittura, il ritratto attraverso il cesello della parola e l’attenta individuazione dei particolari caratterizzanti. Douagi inquadra il personaggio con l’occhio del ritrattista: il tratto del disegno si fa racconto, l’attitudine allo schizzo caricaturale si fa narrazione umoristica; la propensione al racconto dialogico e di brevi dimensioni, ossia la drammatizzazione del testo, che diventa stilema di ogni suo scritto, la inserzione del personaggio interlocutore – spalla o antagonista – che sia narrativo, o articolo di giornale o persino le canzoni.
Douagi presenta modestamente se stesso come un «artigiano» del realismo, inteso come sguardo sulla realtà della sua vita; uno sguardo sorridente, apparentemente bonario, aperto al suo lato comico. Ma sovente la comicità di superficie rivela la drammaticità della condizione umana, il sentimento del contrario che genera – pirandellianamente – l’umorismo. Mente carismatica del gruppo, ha influenzato [11] le carriere artistiche degli altri giovani, e basterebbe confrontare i suoi racconti con quelli firmati da Laabidi sulla rivista, o i suoi tratti caricaturistici con quelli di Ghairi. Ma, al di là dei compiti del filologo, e dell’appassionante ricerca dell’attribuzione, nel caso della pièce “Ech Chouelki” è comunque il contenuto a imporsi, la presa istantanea su una realtà minore, marginale, ma dignitosa e persistente, in queste sue caratteristiche, fino alla più contigua realtà dei nostri giorni, che spesso emerge dal suo statuto di invisibile solo nella rarefatta atmosfera di un isolamento pandemico [12].
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