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Coscienza. Un’ipotesi monista

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 01:45 In Cultura,Società | No Comments

copertinadi  Marcello Carlotti

Parlare della coscienza, intesa come consapevolezza delle proprie sensazioni e percetti, è da sempre un’impresa ardua che, tuttavia, ha costantemente accompagnato la riflessione umana, mettendo le varie culture e i vari individui che l’hanno affrontata nella condizione di fare i conti con le tre domande filosofiche centrali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Attualmente, nel mondo occidentale, è in atto una nuova stagione di riflessione, coadiuvata dalle ricerche di filosofi della mente, neuroscienziati, neurofisiologi, psicobiologi, linguisti, semiologi, cognitivisti, informatici e antropologi. Il lavoro svolto finora ha dato il là ad una revisione di concetti base quali: sé, individuo, apprendimento, conoscenza e accesso all’informazione semiotica.

Uno dei primi e più importanti problemi quando si cerca di definire cosa sia la coscienza è che, da un lato, non si sa bene cosa si voglia indagare, e, dall’altro, anche a seguito di ciò che D. C. Dennett chiama “psicologia del senso comune”, si ha la presunzione di sapere o intuire già di cosa si tratti e che nessuna spiegazione sarà mai sufficiente a definire l’explanandum. A questo proposito, M. Minsky scrive che noi sappiamo tutto per quanto riguarda determinati campi del sapere, ma nulla, neppure lontanamente, su ciò che concerne cosa accade nella nostra testa quando pensiamo.

Un altro problema, poi, consiste nel considerare la coscienza equiparandola a ciò che è noto come accesso all’informazione: tradizionalmente si ritiene cosciente chi sa quel che fa, sopratutto, quel che sente. Questa tesi, nota come tesi di Brentano, si basa sull’impossibilità di discriminare una causa-effetto esperibile per ciò che attiene alle nostre decisioni di agire, specie in riferimento al cosiddetto comportamento volontario. Ciononostante, a rigor di logica, il non esser capaci di individuare la causa fisica di un fenomeno non significa ipso facto che non vi sia una causa fisica. Come rileva Dennett, c’è in tale visione un homunculo da stanare.

1Per definizione, si è ritenuto (e taluni ancora lo ritengono) che il comportamento umano sia speciale e che a spiegarne questa unicità universale bastasse la coscienza, grazie alla sua intrinseca inesplicabilità. H. Bernard Russell [1], nel definire il metodo scientifico, ricorda che nell’epistemologia di tale metodo sono implicite una serie di assunzioni, fra cui quella che il metodo scientifico prevede la possibilità di esplicare i fenomeni che vuole esplicare senza fare ricorso ad insondabili forze oscure. Tradotto nel nostro campo di interesse, potremmo dire con Dennett che explanandum ed explanantes devono trovarsi a livelli logici differenti. Insomma, per affrontare in modo scientifico le questioni del piano intenzionale e mentale dovremmo usare metodi, linguaggi, argomenti di un ordine di fenomeni inferiori, quello estensionale.

Tuttavia, ciò cozza con le nostre suscettibilità ed aspettative emotive. Come potremmo del resto accettare di ridurre l’individuo, la mente, la coscienza, etc. ad impulsi elettrochimici? J. La Mettrie [2] intuì che la mente è secreta dal cervello, ma che ciò non significa che la mente sia il cervello. Per lungo tempo, si è cercata una spiegazione della coscienza dando per scontato che essa appartenesse ad un ordine di fenomeni non totalmente esplicabili attraverso metodi e linguaggi scientifici. Si riteneva che la coscienza fosse da un lato la nostra autorità sulle nostre conoscenze e motivazioni, dall’altro che essa ci permettesse (unici esseri al mondo) di realizzare i cosiddetti comportamenti volontari o responsabili: comportamenti in coscienza, appunto.

n-4Le ricerche intraprese nel campo della cognizione, della fisiologia e patologia della cognizione, dimostrano che queste spiegazioni sono vere a metà. Sono vere per quanto concerne la parte ontica, ovvero relativa all’essere in quanto tale,  false riguardo alle categorie epistemiche che stanno alla base sia del nostro rapportarci all’explanandum, sia dei metodi di analisi raccolti. Se non siamo dei creazionisti, e pensiamo che Darwin avesse ragione, deve essere vero, ad esempio, che la coscienza, in quanto funzione dinamica di stati fisici del nostro cervello, deve essere codificata, quale potenzialità da completarsi culturalmente, nei nostri programmi genetici che implementano la strutturazione neurogliale del nostro sistema nervoso, e quindi entra in qualche modo nel nostro specie-specifico corredo genetico. Non è vero, a meno di essere dei convinti animisti o degli inconsapevoli cartesiani, che la coscienza sia una cosa unitaria e sia una caratteristica extrafisica dell’individuo.

Prima di proseguire, ritengo utile affrontare un altro mito: quello del comportamento volontario dell’uomo. Perché parliamo di comportamento volontario (speciale) dell’uomo? Una delle assunzioni implicite (e raramente esplicitate) alla base di questo mito è che vi sia una soluzione di continuità fra ambiente esterno e comportamento. In questo iato, si collocherebbe la libertà elettiva dell’individuo: una libertà pura che prescinde dagli stimoli deterministici. Ma quanta valenza scientifica ha il sostenere che esista uno spazio sospensorio extrafisico dove l’individuo esercita realmente il libero arbitrio, prendendo decisioni pure e progettando volontariamente futuri comportamenti?

n-6Dire che esiste un luogo non fisico di decisione, equivale a dire che non esiste un non luogo fisico di decisione, e questo, in logica, si chiama paradosso. Tornando coi piedi per terra, potremmo dire che un comportamento assolutamente intenzionale – nel senso di svincolato dalla materia – da attribuirsi ad ogni singolo individuo non esiste: ogni comportamento ha una sua posizione nello spazio, poiché ogni comportamento, anche il più umano, è frutto di una complessa interazione, in larga misura incosciente, tra stati del mondo interno e dati del mondo esterno. Questo, però, significa che anche quando crediamo di stare pensando o creando qualcosa di assolutamente nuovo, in verità il nostro cervello sta computando qualcosa che ha avuto precedenti (ed impercepite) cause e stimolazioni. Detta così, tuttavia, a molti sembra una assurda riduzione delle prerogative umane.

Di fatto, il problema centrale quando si discute in termini scientifici dell’uomo e delle sue peculiarità rispetto agli altri animali, non è tanto e solo quello della coscienza, ma quello della mente e della sua pretesa superiore unicità, e sopratutto quello delle aspettative ed autorappresentazioni che dominano il senso comune: l’uomo è speciale; l’uomo ha l’anima; l’uomo trascende. Questo ci permette di affrontare il nocciolo della questione: quando si parla di umanità, mente, coscienza, libero arbitrio, ecc. si tende ad usare un linguaggio ascrivibile alla tematica mentale (o intenzionale) in riferimento a, e nell’analisi di problemi del cervello (e quindi propri dell’ambito estensionale) e viceversa. Sebbene cervello e mente possano essere considerati due facce della stessa medaglia, un serio approccio scientifico dovrebbe diffidare dall’adoperare il linguaggio intenzionale quando cerca di spiegare in termini estensionali cosa fa il cervello per produrre la mente e tutti i suoi derivati e connessi.

Quello che sto cercando di sostenere è, in primis, che ritengo corretto sostenere che ogni essere vivente è dotato di una particolare coscienza, specifica del suo sistema di controllo e che questo sia implementato da uno specifico hardware che funziona, nel mondo fisico, in un determinato modo che risponde a necessità specie-specifiche ed individuali particolari: nel caso umano l’hardware è il sistema nervoso e il software è la mente. Danneggiare il primo, significa pregiudicare il secondo, manipolare il secondo significa retroagire sul primo. In secundis, ritengo che la coscienza non è qualcosa ad esclusivo appannaggio dell’uomo, essa è piuttosto una caratteristica propria di qualsiasi sistema fisico capace di reagire ad una stimolazione. Molto banalmente, è la coscienza umana (e l’autocoscienza), implementata dal cervello umano, ad essere ad esclusivo appannaggio degli esseri umani che la realizzano anche grazie al loro completamento culturale.

n-5Data la delicatezza del tema, proverò a spiegarmi meglio. Ogni sistema fisico è immerso in un ambiente fisico del quale fa parte. Affinché sia cosciente (il che non significa autocosciente) è sufficiente che disponga di un apparato in grado di discernere degli stimoli. Le reti atte a percepire e discriminare gli stimoli reagiscono al loro presentarsi. La reazione, nel senso di una eccitazione della materia predisposta a reagire, è già una rudimentale forma di coscienza. Ovviamente questa prima presa di coscienza è assolutamente deterministica e non può essere confusa con la coscienza di tipo umano. Tuttavia, questa prima presa di coscienza è assolutamente fondamentale per ogni altro, più complesso tipo di coscienza: cosa accadrebbe alla nostra coscienza se i nostri neuroni non reagissero alle stimolazioni elettrochimiche determinate dalle periferie nervose o dai circuiti primordiali della nostra amigdala o del nostro tronco encefalico? Sapremmo di avere una tastiera sotto le dita quando volessimo scrivere un articolo per Dialoghi Mediterranei al fine di stimolare un dibattito sulla Coscienza umana?

I sistemi fisici, come il nostro sistema nervoso computazionali, sono ovviamente eterogenei e polivalenti. Pertanto, per velocizzare l’analisi, mi interesserò di sistemi fisici in grado di discriminare una certa gamma di input ambientali. Diremmo allora che, in presenza di un codice ed un decodificatore (una struttura o porzione di materia che reagisce in modo ricorsivo e coerente in presenza di determinati fenomeni fisici), al presentarsi di una determinata reazione, il decodificatore può essere programmato per applicare una metacoscienza previsionale: se reagisco nel modo A, allora è probabile che nel raggio d’azione ambientale del mio sistema, sia in essere la stimolazione corrispondente. Proviamo a dimostrare questa affermazione: se io ho caldo e sudo copiosamente mentre sono sotto un sole cocente, penso che sia normale e, se non voglio prendere una insolazione, mi metto all’ombra. Ma se provassi la stessa sensazione di calore e sudassi in una fredda notte invernale, penserei che qualcosa non va e cercherei un medico.

img_0696M. Gell-mann [3], in un saggio dedicato alle strutture semplici e complesse, dice che una delle caratteristiche principali delle strutture complesse è quella di conservarsi durante un certo intervallo di tempo. R. Dawkins [4] ci ricorda come anche la “prima cellula”, in quanto aveva raggiunto una certa stabilità strutturale, fu in grado di conservare la propria armatura fisico-chimica, replicando la propria struttura in equilibrio dinamico con l’ambiente circostante. Quella prima cellula era solo uno dei prodotti dei tanti replicatori che abitarono il brodo primordiale. Solo i replicatori più stabili poterono, per definizione, continuarsi con maggior successo. Quando parliamo di replicatori stabili, dobbiamo intendere non quelli dotati di maggior stabilità intrinseca, quanto piuttosto quelli dotati di maggior stabilità in relazione al mutevole ambiente circostante. Affinché ciò avvenga, il replicatore deve essere, in qualche modo, capace di estrarre informazione significativa dal proprio ambiente, e perché l’informazione risulti significativa occorrono un codice e la capacità di implementarlo producendo reazioni adeguate. Oggi sappiamo che anche un sistema artificiale è capace di estrarre significato dai dati ambientali che eccitano le sue reti percettive: basta dotarlo di apparati in grado di estrarre informazione secondo:

  • Parametri fissi (si pensi ai bracci robotici che lavorano in fabbrica);
  • Parametri fluidi che cambiano in base alla capacità della macchina di apprendere e fare esperienza (si pensi ai software che regolano il mercato internazionale delle borse).

Quando siamo in grado di dotare un sistema fisico di una speciale rete di sensori mediante i quali estrae informazione e calibra una reazione fisica computando stati interni ed input ambientali, abbiamo già fatto un considerevole passo avanti verso la coscienza e una sua spiegazione monista. La reazione del sistema, tuttavia, non deve essere una reazione qualunque, deve essere una reazione significativa, e perché la reazione risulti tale il sistema dev’essere dotato di una rete di sensori cablata per estrarre informazione significativa dall’ambiente e di una capacità computazionale tale da permettergli una reazione adeguata in vista di un obiettivo.

Uno degli errori classici quando si cerca di realizzare mentalmente un simile sistema fisico consiste nell’immaginare tre apparati, ciascuno con la propria rete. Molto più semplicemente, e per nostra fortuna la natura è un progettista semplice ed economo, basta una struttura capace di implementare configurazioni computazionali differenti: basta cioè una rete neurale. La stessa rete adempie alle tre funzioni: reagisce agli stimoli ambientali; estrae le informazioni significative; combina le informazioni con i parametri interni e gli obiettivi; e progetta gli output motori di reazione. Nello specifico del caso umano (ma anche di molti software) serba memoria e apprende da se stessa mediante autorappresentazioni delle esperienze (proprie ed altrui). Ma come si possono definire le reazioni adeguate?

3Un buon modo per spiegare cosa siano e come siano possibili le risposte adeguate ce lo fornisce la selezione naturale. Questa, depurata degli inquinamenti ideologici che ha patito, fornisce, nella sua attuale formulazione, un’ottima teoria esplicativa per questo genere di questioni. La selezione naturale non è una cinica entità intenzionale che si diverte ad eliminare i sistemi imperfetti. Essa è piuttosto un processo per il quale, molto più banalmente, i replicatori più stabili avranno una maggiore probabilità di riprodursi di contro a quelli meno stabili. Questo non significa che i replicatori meno stabili moriranno e quelli più stabili no: di fatto moriranno entrambi, con la differenza, però, che le forme più stabili avranno avuto più agio e tempo per replicarsi. Questo ci riconduce a dire che è stabile il replicatore capace di reazione più adeguate alle quattro dimensioni dell’ambiente e alla sua mutevolezza storica.

Dai primi peptidi (macromolecole) che nuotavano nel brodo primordiale agli attuali organismi più complessi (i mammiferi vertebrati superiori), il concetto di stabilità non va inteso come parametro assoluto, ma solo come parametro relativo (vedi l’estinzione dei dinosauri). Facciamo un banale esempio per suffragare la relatività della stabilità. Un pesce di profondità oceanica è un sistema fisico in perfetto equilibrio con il proprio ambiente che si conserva da centinaia di milioni di anni in repliche abbastanza fedeli all’originale. Tuttavia, se prendessimo quel pesce e lo trasferissimo in un lago, la sua perfetta stabilità ed adeguatezza alle profondità oceaniche ne determinerebbe la totale inadeguatezza e la sofferenza nel nuovo ambiente, decretandone l’estinzione. Questo ci induce a specificare che parlare di un ambiente che varia storicamente ci porta a definire che le strutture più stabili non sono quelle più adeguate ad un particolare ambiente statico (la profondità oceanica), ma quelle specificamente più capaci di adeguarsi. In un ambiente variabile, come lo è la superficie terrestre, più stabile significa specificamente più adeguabile.

Nel tempo, i sistemi fisici che si sono replicati con maggior successo sono stati quelli in grado di interazioni più adeguate. Tuttavia, in un ambiente dinamico e non statico, l’adeguatezza di un sistema replicatore o di una famiglia (specie) di sistemi, può ottenersi seguendo due direttrici:

  • La direttrice quantitativa;
  • La direttrice qualitativa.

La direttrice quantitativa è quella che ha ovviato alla variazione ambientale con la transgenerazionalità, ovvero con un numero di repliche enorme e con un grado di variabilità minimo ma costante nella replicazione: questo ha fatto in modo che non fosse il singolo individuo a rispondere adattivamente alla variabilità dell’ambiente, quanto, piuttosto, la famiglia di repliche. La secondo direttrice accentua invece l’importanza della capacità plastica del singolo replicatore di adattarsi individualmente alla mutabilità ambientale, ferma restando anche la capacità di replica transgenerazionale dotata di variabilità (minima) familiare.

In termini zoologici e paleontologici, la specie Homo Sapiens rientra fra i mammiferi vertebrati superiori, e se hanno una coscienza, essa deve avere una storia funzionale che ne ripercorre la filogenesi e quindi, a meno di non essere creazionisti, deve essere possibile spiegarne in questi termini lo sviluppo specie-specifico.

2Dall’estinzione dell’Homo di Neandertal (alla quale abbiamo concorso), i nostri parenti più prossimi viventi sono i primati superiori: sistemi fisici complessi e replicatori capaci di una interazione di tipo qualitativo con l’ambiente. Nonostante le antropomorfe, e in particolare gli scimpanzé, condividano con noi oltre il 90% del DNA, e siano i nostri più prossimi parenti viventi, in tanti sono restii a parlare di coscienza per quanto li riguarda. Dal mio punto di vista, sarebbe vano cercare negli scimpanzé una coscienza del tipo H. Sapiens, magari ridotta. Questo, tuttavia, non significa che gli scimpanzé siano macchine incoscienti. In cosa differirebbe la coscienza umana da quella di una antropomorfa?

Da un punto di vista materiale, ambedue sono sistemi fisici replicatori in grado di interagire qualitativamente con l’ambiente e, quindi, sono sistemi fisici dotati di reti in grado di adempiere, da un punto di vista logico-funzionale, alla sensibilità, alla computazione dell’informazione; alla risposta comportamentale; e all’autoapprendimento. Ovviamente, dire che un sistema fisico neurale sia in grado di apprendere, non significa che sia in grado di apprendere tutto (né in pratica e nemmeno in potenza).

L’etologia distingue i vertebrati in superiori e inferiori, ma anche, fra le varie altre categorie, in rettili e mammiferi. Tralasciando per semplicità gli uccelli, possiamo dire che una sostanziale differenza fra rettili e mammiferi consiste nel fatto che mentre i primi sono abbandonati a se stessi dopo la deposizione delle uova e, quindi, una volta schiusesi i neonati devono cavarsela immediatamente da soli, i secondi, invece, godono di un periodo di allattamento durante il quale completano la maturazione psico-fisica ed osteomuscolare. Dal parto allo svezzamento, cioè, i nuovi organismi maturano e apprendono. Ovviamente, la quantità e qualità dell’apprendimento varia da specie a specie. Tuttavia, se anche i neonati non umani  apprendono, deve esserci una certa forma di cultura da apprendere.

Se l’apprendimento, la maturazione, la plasticità comportamentale, la consapevolezza degli stati psico-fisici ed emotivi, l’interazione, la trasmissione culturale, sono prerequisiti della coscienza, dovremmo chiederci se siamo disposti a concedere, almeno in teoria, una coscienza agli uomini di Neandertal (che stando alle impronte endocraniali avevano sviluppate, seppur meno dell’H. Sapiens, le aree del linguaggio e avevano un cervello mediamente il 25% più grande del nostro). Se sì, saremmo disposti a riconoscerla all’H. Erectus? E all’H. Habilis? Se, al contrario, non siamo disposti a concedere la coscienza neppure agli uomini di Neandertal, su quali basi scientifiche possiamo concederla a noi stessi?

4Molti ritengono che il principale strumento della coscienza umana sia il linguaggio umano: è nel linguaggio che noi manifestiamo al suo massimo livello la nostra autocoscienza. Personalmente, sarei più propenso ad un uso più esteso e, invece di parlare di linguaggio, parlerei di capacità semiosica. Ad ogni modo, del linguaggio umano (e dei sistemi semiotici complessi) si dice sempre che possieda almeno tre caratteristiche principali:

  • Arbitrarietà;
  • Generatività;
  • Distanziamento.

L’arbitrarietà si fonda sul fatto che il linguaggio è un sistema semiotico, ovvero un insieme di elementi materiali interindividualmente codificati per cui qualcosa sta per qualcos’altro. Oggi si parla di interrelazioni tra simboli: 1) l’oggetto (token o occorrenza storica del tipo; 2) il seme a (o funzione segnica); e l’interpretante (la definizione del significato del semema fatta attraverso altri sememi). Da una parte, quindi, si stipula una relazione, arbitraria e socialmente riconosciuta, tra alcune occorrenze materiali (i token cui si vuol fare riferimento) ed altre (i sememi), sancendo il principio per cui gli uni, i sememi, possono stare in luogo delle altre, le occorrenze materiali. Dall’altra, si stabilisce una pertinentizzazione semantica della materia esperita ed esperibile, stabilendo, attraverso un processo di frammentazione della cognizione in elementi rilevanti, una griglia tipologico-semantica, di cui le occorrenze storiche non sono che dei rappresentanti idiografici. Il tipo, pertanto, non è che la risultante di un processo di astrazione cui va incontro la nostra memoria quando crea un referente idealizzato (ma non extramateriale) cui riferire le nostre esperienze della realtà esterna: è un artificio mnemonico-cognitivo dei sistemi fisici replicatori interattivi quello di generare una rappresentazione interna del mondo cui riferire le esperienze alle quali, di volta in volta, si fa fronte.

Quando si parla di generatività (o produttività) s’intende che, dato un numero finito di elementi (ad esempio quelli fonetici come le sillabe) e dato un numero finito di regole di combinazione (di prima e seconda articolazione), si può fare di detti mezzi finiti un uso virtualmente infinito.

Per quanto concerne il distanziamento, possiamo dire con W. Goodenough [5] che, tramite il linguaggio orale e i suoi derivati (grafismo, scrittura, linguaggio dei segni, etc.) gli esseri umani allargano, per interposta persona, il proprio mondo fenomenico. Attualmente, l’uomo è l’unico animale esistente capace di utilizzare, codificandole anche in vista di fini metasemiotici, determinate porzioni di materia (che ricadono sotto il suo controllo e che quindi può facilmente manipolare e duplicare) per significare altre determinate porzioni di materia. Questo significa che se due individui umani, A e B, condividono un medesimo codice, A potrà riferire a B una porzione importante di significato operativo in riferimento ad avvenimenti che gli sono occorsi (fattualità piena), senza la necessità che B li viva in prima persona per comprenderli (almeno in parte). Non solo, A e B, infatti, possono parlare di cose che non ci sono in quel momento (esperienza in absentia), che potrebbero esserci ma non ci sono ancora state (fattualità potenziale) o che non esistono (controfattualità) o che non sono vere (fattualità mendace). Inoltre, un individuo dotato di un simile strumento semiosico può riferirsi a se stesso in terza persona.

Dato che ormai sappiamo che buona parte della computazione del cervello (e della mente) avviene in penombra psichica – al di là o al di qua del campo d’azione della coscienza e dell’Io della mente – che vantaggio offre il linguaggio e come esso contribuisce a creare la coscienza umana?

5Iniziamo col notare come il linguaggio offra la possibilità di elaborare una coscienza (che Damasio chiamerebbe “sensibilità” allargata, semiotica, intenzionale e, poi, metalinguistica e distanziato (o distanziabile), svincolando la coscienza dalle immediatezze della praesentia dei fenomeni. Il linguaggio interindividuale è, di fatto, una delle più potenti armi adattive che l’uomo abbia avuto a sua disposizione durante la sua storia evolutiva e filogenetica. Oltre a servire per condividere e immagazzinare informazioni e rappresentazioni del mondo, organizzare e coordinare gruppi, trasmettere conoscenze, etc. esso mette a disposizione del pensiero la capacità di muoversi lungo le quattro dimensioni storiche e quella di spaziare dall’universo ai multiversi possibili, creando scenari di azione plausibili o implausibili dove il pensiero computazionale può esercitarsi.

Rimandando a Dennett per approfondire il concetto di “atteggiamento intenzionale” [6], mi limiterò qui a ribadire che il linguaggio è ciò che ci permette di attribuire intenzioni ad un sistema fisico, sia esso un replicatore plastico (un primate, un cavallo, un altro essere umano, noi stessi), sia esso un ente istituzionale, uno Stato-Nazione, una Confederazione di Stati (quante volte abbiamo sentito la frase: “Lo vuole l’Europa”?), ecc. Inoltre, come visto, esso ci consente di simulare esperienze e situazioni con un buon margine di probabilità, e di creare tipologie sememiche: gli stessi concetti di mente, coscienza, personalità, anima, etc. sono frutto di una tradizione linguistico-culturale a sua volta interrelata ad una peculiare visione del mondo che, ad esempio, non rientra fra le categorie culturali ed epistemiche degli Iatmul, degli Yanomami o degli Aborigeni, e che possiede oggi un significato diverso da quello che, 25 secoli fa, possedeva per Socrate, Aristotele e Platone.

Oggi, di fatto, sappiamo che il cervello non serve per raffreddare il sangue e che il cuore è un muscolo che pompa il sangue e non la sede dell’anima. Sappiamo altresì che il cervello (fatto di tessuto gliale, neuroni e vasi sanguigni) funziona seguendo i principi delle reti neurali, le cui infinite interazioni sono silenti a livello di coscienza. Sappiamo, infatti, che le interazioni neurali fisiche (le trasmissioni sinaptiche regolate da impulsi chimico-elettrici che attivano dendriti, assoni eccitando le popolazioni neurali a rilasciare neurotrasmettitori che attivano pompe sodio-potassio, etc.) implementano stati logico-funzionali che chiamiamo computazione (o pensiero), sappiamo infine che pensiero o pensare sono stati logici distinti e che il nostro accesso attiene al pensiero (il prodotto della computazione), ma non al pensare (il modo in cui il cervello computa secernendo la mente ed i pensieri). Una PET, ad esempio, ci mostra l’attività elettrochimica del nostro cervello, ma ci dice poco sul pensare. Se io penso ad un bosco autunnale, sullo schermo del mio neuroscienziato non appare una immagine del bosco, più banalmente si attivano delle aree specifiche di popolazioni neurali e se ne silenziano altre. Il pensare del cervello è, quindi, una computazione in vista di certi fini, più o meno specifici, che, a livello cosciente possiamo conoscere solo in modo molto parziale. Essendo, poi, il nostro sistema nervoso una enorme rete neurale sviluppata filogeneticamente per stabilire le interazioni dell’organismo con l’ambiente, esso computa di continuo i dati che le afferiscono, sia dall’esterno che dal suo interno, sia fenomenici che semiotici.

6Ciò che giunge alla coscienza semiotica è quindi solo la punta dell’iceberg della computazione. Ovviamente, il sistema di controllo può ricorrere al linguaggio per simulare semiosicamente scenari ed accadimenti in vista di obbiettivi. In questo mondo mentale sememico, il sistema operativo può vivere decine di situazioni e computare, portandole fino ai livelli più elevati di consapevolezza, le situazioni più opportune, quelle che l’esperienza autobiografica del soggetto rende più plausibili (o desiderabili), etc.

L’Homo Sapiens, oltre ad essere un sistema fisico replicatore interattivo, plastico e produttore di significati, è anche dotato di un cervello che tende a costruire continuamente modelli del mondo in cui, probabilmente, l’individuo si troverà ad agire; modelli che diano sfogo alle sue pulsioni; e modelli che diano rappresentazione alle sue ansie e fobie. Nella vita cosciente e vigile, l’esperienza permette di passare da un modello di mondo ad un altro, favorendo a seconda delle situazioni quello più probabile. In fondo, durante la gran parte della nostra evoluzione, gli esseri capaci di apprendere di più e prevedere meglio, erano quelli maggiormente avvantaggiati.

Quanto finora esposto è suffragato dai reperti fossili. L’analisi cranica ed endocraniale testimonia che, nel phylum antropiano, si è verificato un continuo incremento delle spazio endocranico fino alla comparsa degli H. Sapiens arcaici. Da quel momento, i susseguenti Homines Neandertalensis e Sapiens Sapiens, hanno prodotto cervelli volumetricamente equivalenti (in verità quello dei Neandertal era maggiore). Nondimeno, i cervelli di queste specie differivano tanto per struttura quanto, supponibilmente, per funzioni. La più sensibile fra le differenze consisteva infatti nella conformazione e nello spazio delle circonvoluzioni areali. Il cervello dell’H. Neandertalensis si espandeva sopratutto in senso occipitale e parietale, mentre quello del Sapiens Sapiens (il nostro, insomma) si è espanso, a seguito dell’abbattimento del toro sopraorbitale e dell’arretramento osteomuscolare mandibolare, in direzione frontale e prefrontale. A volume quasi equivalente, facevano fronte due cervelli morfo-funzionalmente differenti.

Damasio [7] ha posto in rilievo gli effetti comportamentali delle lobotomie e dei danni accidentali ai lobi prefrontali. Secondo la sua ipotesi, queste porzioni di cervello sono quelle che implementerebbero i comportamenti di interrelazione interindividuale, e sarebbero i loci tanto della morale (ovvero della capacità di gestire i rapporti interindividuali secondo il principio della reciprocità) che della previsione e proiezione comportamentale sociale (ovvero dell’atteggiamento intenzionale).

Depurare il campo teorico-esplicativo della coscienza dai fossili culturali del libero arbitrio e della volontà è un’azione impopolare e rischiosa, tuttavia non farlo significa adagiarsi sull’equivoco e indugiare nell’ambiguità che cerca di esplicare un explanandum attraverso altri explanandum di ordine superiore, piuttosto che mediante explanantes di ordine inferiore.

7Abbiamo visto come un sistema fisico replicatore stabile, dotato di un sistema di computazione plastico, possiede dei fini relativi (specie-specifici; culturali; individuali) e, in base a questi fini, agisce e si comporta. Ad ogni suo comportamento, consapevole o meno, soggiace una “volontà” che non è un’entità in senso assoluto e metafisico, bensì la conseguenza di un lunghissimo processo filogenetico selettivo che ha generato quel quella tipologia di sistema computazionale e, nello specifico, il sistema nervoso di ciascuno di noi che si completa con il nostro acculturamento e la nostra peculiare storia biografica.

Pertanto possiamo dire che uno dei fini cui tende il comportamento volontario filogeneticamente selezionato, è quello della salvaguardia delle eliche di replicazione. Il fatto che l’essere umano sia un essere semiotico e un costruttore di modelli possibili del mondo, capace di metamondi assiologici, ha portato a casi, in apparenza, contraddittori con quanto fin qui sostenuto: un giapponese che pratichi il seppukku, ad esempio, lo fa perché vuole farlo e vuole farlo perché lo ritiene giusto e opportuno. In verità, questa contraddizione con quanto fin qui sostenuto, è solo apparente. Infatti, nella cultura giapponese tradizionale si è creato un modello di mondo che retroagisce sul pensare del cervello, illudendolo che esiste una esistenza immateriale dell’individuo (l’onore della casata) e che, date determinate circostanze e condizioni, il suicidio è un ottimo mezzo per fare il bene del sistema. Nessun materialista convinto, presumo, si suiciderebbe per gli stessi motivi per i quali, storicamente, si sono suicidati i samurai che volevano riscattare il proprio onore davanti al proprio signore.

Generalmente, siamo portati a volere ciò che la nostra eredità cognitiva e la nostra cultura ci dicono essere il meglio, pur salvaguardando un margine individuale di variabilità. Concludo dicendo che, in Occidente, un certo tipo di tradizione culturale e una certa propensione alla reificazione delle parole ha portato alla suddivisione dell’esistente in res extensa e res cogitans, ed alla confusione fra concetti e pratiche, creando un tale groviglio di concetti e quasi concetti tali da minare in modo sistematico il terreno concettuale delle spiegazioni della coscienza. Ogni frase e ogni concetto rimandano a frasi e concetti che andrebbero a loro volta smantellati o depurati in una regressione pressoché infinita. Tuttavia, se questo breve articolo provocatorio fosse in grado di innescare un dibattito, anche duro e critico, l’autore se ne direbbe soddisfatto, perché ritiene che sia necessario, oggi, ridefinire la nostra idea di H. Sapiens, concependo le variazioni culturali come mero accidente storico, che non deve rinchiuderci in orti culturali e identitari, creando muri che sembrerebbero farci scordare che siamo tutti sulla stessa arca, e che il diluvio, stavolta, rischia di non salvare nessuno.

Dialoghi Mediterranei, n. 34, novembre 2018
Note
[1] Cfr. L’antropologia culturale oggi, a cura di R. Borofsky, Roma, Meltemi, 2000.
[2] Cfr. L’histoire naturale de l’âme, 1746.
[3] Il quark e il giaguaro, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
[4] Il gene egoista, Bologna, Zanichelli, 1979.
[5] L’antropologia culturale oggi, cit.
[6] Dennett D.C., L’atteggiamento intenzionale, Bologna, Il Mulino, 1993.
[7] Damasio A.,  L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 2001.
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
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