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Cosa sarà dei piccoli paesi?

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2017 @ 00:57 In Cultura,Letture | No Comments

COPERTINAdi Mariano Fresta 

Nel 2007 usciva in Francia un film di Jean Becker il cui titolo in italiano sarebbe stato tradotto con Il mio amico giardiniere. La storia è semplice: un pittore rinomato, in crisi artistica e in difficoltà di rapporti con la moglie e la figlia ventenne, torna al piccolo paese natio nel tentativo di guarire dal suo malessere. Va ad abitare nella casa che fu dei genitori e che lui ripristina com’era prima, compreso l’orto che sua madre aveva accudito; per questo, avendo bisogno di un giardiniere, mette un annuncio sul giornale locale. Gli si presenta un ex operaio delle ferrovie che si scopre essere un suo vecchio compagno di scuola. Fra i due rinasce l’amicizia, anche se il pittore è portatore di una cultura da intellettuale e da parigino, e il giardiniere, quasi mai uscito dal villaggio, è piuttosto rozzo, incolto e ha una visione del mondo che non oltrepassa i confini dell’orto.

Il film, con questi due personaggi così lontani culturalmente ma tolleranti uno dell’altro, vuole rappresentare la negatività della città e la positività del villaggio rurale. Per questo, forse, Parigi è descritta solo attraverso il traffico automobilistico della tangenziale e gli incontri noiosi delle mostre d’arte, con i suoi abitanti vuoti e spocchiosi. La campagna, invece, ha i colori della primavera, è tranquilla, ha l’aria buona e odorosa e produce ortaggi sani e variopinti.

Ma il giardiniere si ammala e, malgrado le cure e l’aiuto dell’amico, muore, non prima, ovviamente, di aver fatto guarire dalle sue crisi esistenziali e creative il pittore; il quale, infatti, si riappacifica con la moglie e la figlia e  ritrova la creatività artistica che gli permette di riconquistare i salotti parigini, passando dall’astrattismo di prima alla riproduzione pittorica degli ortaggi coltivati dal contadino.

Un film tutto sommato mediocre, costruito sugli stereotipi secolari del contrasto tra la città e la campagna (rappresentato fin da Esopo ed Orazio nella favola del topo di città e quello di campagna), nascondendo i pregi della prima e i difetti della seconda: tutto è idillico, bucolico, la malattia dell’operaio è vissuta e narrata pateticamente. La storia, dunque, è l’esaltazione della vita elementare e armoniosa che si può trovare solo nelle campagne lontane dalla città, dove tutto è caos, fretta spasmodica, smog, ecc. ecc.

Conosciamo questi stereotipi perché li abbiamo vissuti da sempre e perché negli ultimi cinquanta anni sono tornati alla ribalta con forza coinvolgente, richiamati nostalgicamente dai rivolgimenti sociali a livello globale; sicché tutti, anche i più cinici e smaliziati, vanno alla ricerca degli antichi e tipici sapori, la domenica si deliziano visitando i paesi in cui le strade sono affollate di bancarelle che espongono bustine di origano e peperoncino, pupazzetti di legno, gadget di scarso valore: esattamente come tutte le bancarelle che si trovano, dalle Alpi alla Sicilia, in ogni paese che vuol apparire come luogo tipico e tradizionale.

Lo stereotipo, però, si accompagna spesso con il luogo comune, con quel termine, cioè, o quella espressione che indica qualcosa di banale e di scontato. Per questo la salubrità dell’aria dei piccoli paesi, la loro calma, la loro atmosfera idilliaca sono, generalmente, concetti vuoti dietro ai quali si nascondono la mancanza delle fognature, i lavori agricoli massacranti da sole a sole, la penuria quasi totale di quel cibo non materiale, indispensabile per vivere una vita che abbia un qualche scopo che non sia solo quello della pura esistenza fisica. E d’altra parte, dietro il traffico convulso della città, lo smog, la mancanza di solidarietà, si nascondono le comodità: la corrente elettrica, i telefoni, gli uffici pubblici importanti, le scuole superiori e le università, le biblioteche, ma anche i campi di calcio e i palazzetti dello sport, i cinema e i teatri.

Tutti questi luoghi comuni si riferiscono a realtà che tutti noi abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, sia quelli nati e vissuti nei piccoli paesi, sia quelli nati in città. Lo possiamo riscontrare nel volume monografico che la rivista «Testimonianze» (n. 3-4, maggio-agosto 2016, 507-508) dedica a L’Italia dei piccoli centri. Spesso negli interventi, infatti, gli Autori si riferiscono alle loro vicende biografiche, da cui vengono fuori tutti quegli stereotipi di cui parlavo prima, non più come luoghi comuni ma come esperienze realmente vissute.

Nel volume, curato dal direttore della rivista, Severino Saccardi, che ne ha scritto anche la presentazione, ci sono molti argomenti interessanti e molteplici punti di vista che aiutano a capire cosa è successo in Italia quanto meno dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi. Si tratta di sconvolgimenti che riguardano gli Enti locali, ma anche il destino del mondo agrario, la situazione demografica, lo spopolamento delle campagne e la crescita abnorme di alcune città e di alcune zone dovuti all’industrializzazione.

Come si sa, la penisola italiana è povera di pianure e ricca di colline e montagne; così il 40% circa dei paesi  si colloca sulle colline e un altro 40% circa sulle montagne. Col risultato che le trasformazioni degli ultimi settanta anni hanno generato un graduale  spopolamento di queste zone. La rivista dà un quadro di questa situazione, prendendo ad esempio una quindicina di centri scelti in tutta l’Italia, ma con qualche preferenza per la Toscana. L’esame di questi centri presi a modello è preceduto da alcuni interventi di antropologi, che spiegano come sia avvenuto questo processo che porta all’accentramento culturale e alla perdita delle culture tradizionali proprie dei paesi e dei borghi, per secoli vissuti a contatto con il mondo agricolo, e che, infine, affacciano proposte di soluzioni. Proposte che, con punti di vista diversi, sono avanzate anche dagli interventi di economisti, urbanisti, storici e politici che chiudono il dibattito, con riferimento ad alcune soluzioni sperimentate e a  quelle che si potrebbero attuare.

 Apricale-Imperia (ph, M. Meli)

Apricale-Imperia (ph, M. Meli)

Le opinioni degli antropologi

L’intervento più chiarificatore, sul fenomeno dell’abbandono dei piccoli centri, è per me quello di Fabio Dei che riprende alcuni concetti di Hermann Bausinger. Centrale mi sembra la definizione della “modernizzazione”, uno dei fattori che genera la crisi dei paesi. La modernizzazione (e qui parafraso Bausinger e Dei insieme) è un processo di “espansione degli orizzonti”, accelerato ultimamente dai trasporti e dai mezzi di comunicazione di massa,  dalle connessioni economiche e culturali sempre più ampie; la novità sta nel fatto che mentre le varie identità culturali si vanno dissolvendo e vengono meno, esse si ricreano culturalmente. Da ciò il moltiplicarsi nei piccoli paesi di feste “storiche”, sagre di prodotti tipici e di giochi locali, revival folkloristici, alla ricerca di una identità perduta, e nello stesso tempo le tante promozioni di queste attività localistiche attraverso Internet, social network che, paradossalmente, operano a livello planetario. Ed ancora, l’uso di questi mezzi di diffusione digitale è funzionale a quei gruppi che, sotto il titolo “Sei di X se …”,  cercano di mantenere in vita una presunta identità culturale, tenendo i contatti con concittadini e paesani che la vita ha dislocato nelle varie parti del mondo.

Se ne deduce, osserva Dei, che oggi per fare comunità non occorre vivere nello stesso luogo, perché c’è il web. Nello stesso tempo quella differenza abissale sentita tra città e paese si è ammorbidita e soprattutto modificata: c’è «un’oscillazione tra il disprezzo e l’irrisione del provincialismo e il culto del modo di vita semplice “più naturale”». Ma questa del Web, a mio parere, è una realtà “virtuale”: per la gente è abbastanza facile riconoscersi in un’idea astratta, quasi metafisica, di Comunità o Nazione o villaggio. L’immaginazione e il virtuale sembrano sostituire il senso dell’appartenenza che spesso non c’è o non c’è mai stata (tranne, forse, nell’era preindustriale e in quella premoderna), e che finisce per essere una falsa coscienza.

Da parte sua Pietro Clemente rivaluta in qualche modo questa cultura localistica, prima avversata in nome di Gramsci, ma a condizione che si sappia innervare sulla modernità e sappia diventare «il luogo di resistenza ai grandi processi di urbanizzazione, omologazione, unificazione mercantile» ecc. A questo proposito nota che, mentre i fenomeni di inurbamento avvengono senza lasciare traccia nelle coscienze, ci sono molti comuni sotto i mille abitanti che «si danno da fare per dare vita e senso abitativo al proprio storico insediamento». Ovvio che con tali attività si vengano a perdere i tratti culturali tradizionali. Spiega bene Clemente: «Poiché i paesi non sono i comuni, [ma] sono i processi sociali locali e le soggettività, organizzate e non, che si muovono sulla scena locale, che al tempo stesso è globale, ma in cui la globalizzazione agisce come il fattore del luogo», è bene cercare una nuova definizione di paese. Questo, infatti, oggi si presenta come un luogo ambiguo, frutto di un compromesso tra le sue tradizioni storiche e gli elementi della modernità, in cui «soggetti diversi si confrontano e producono egemonie parziali e instabili». Essendo, però, troppo grande l’impresa di contrastare l’omologazione, Clemente auspica che i piccoli paesi si uniscano in una rete, e che soprattutto la rete Web  permetta alla «località marginale di porsi al centro» per mostrare prodotti inusitati e «di farsi centro per coloro che solo in quegli spazi possono trovare una dimensione creativa basata sulla differenza».

L’intervento di Vito Teti presuppone l’inchiesta da lui condotta per anni sui paesi abbandonati della Calabria e confluita nel volume Il senso dei luoghi. L’indagine riguarda i villaggi e i borghi distrutti dal terribile terremoto del 1783 e mai più risollevatisi. Accanto a questi paesi, ci sono poi quelli spopolatisi negli anni del boom. Oltre alla descrizione di quanto è rimasto dal tempo del sisma, l’attenzione di Teti è però rivolta verso quegli ex abitanti, rimasti attaccati con la memoria ai loro luoghi natii e che ogni anno tornano a ritrovare quelle pochissime persone che ancora abitano quei luoghi ormai deserti. Questo ritorno non è solo dovuto ad un sentimento di nostalgia, c’è qualcosa di più profondo alla base di questa volontà di tornare e di ricostituire, anche se per qualche giorno, l’antica comunità e soprattutto di resistere a questi processi di annichilimento. In questa volontà Teti riconosce quasi un atto di fede religiosa, che si manifesta, durante questi temporanei ritorni, con le tradizionali processioni dietro le statue degli antichi santi protettori. Per Teti queste manifestazioni sono il simbolo della resistenza.

Contributo di raccordo con la seconda parte del volume è quello di Antonio Fanelli che spiega come la rivitalizzazione di alcuni borghi del circondario fiorentino sia dovuta alle attività ricreative e culturali dell’ARCI e delle Case del Popolo, che hanno saputo coniugare aspetti della cultura moderna e di massa con le usanze tradizionali, intrecciandoli con i valori di base di una società democratica.

Vigevano-Pavia

Vigevano-Pavia

Morte, resistenza e resilienza dei piccoli paesi

Nella parte centrale del volume si trovano tutti i contributi relativi alla descrizione dei luoghi e delle attività che in alcuni di essi sono state intraprese per scongiurare l’invecchiamento dei villaggi e il loro abbandono. Alcuni autori si limitano a fare la storia di questi paesi, spesso importanti nel passato, come testimoniano castelli e fortezze, altri invece cercano di capire le cause della crisi o descrivono le attività con le quali le comunità si sforzano di sopravvivere, di scongiurare il loro  spopolamento e con esso la loro fine, rifunzionalizzando i beni in loro possesso o usando la fantasia e la creatività.

Apre questo settore Giovanni Commare con un contributo riguardante Campobello di Mazara, una cittadina dalla storia inquieta, i cui abitanti furono tra i primi a lottare a favore di una riforma agraria; interessata prima all’emigrazione ed oggi all’immigrazione, è situata in un territorio di mafia che dopo il terremoto del Belice scoprì il mondo degli affari. Fu negli anni ‘70 del secolo scorso che Campobello ebbe una reviviscenza, grazie alla nascita di una comune agricola che aveva un progetto di cambiare il modo di produzione agraria, nonché anche la società. Ma l’iniziativa ebbe vita breve: a poco a poco la vecchia mentalità, quella del quieto vivere, dell’assuefazione al potere, al conformismo, hanno avuto il sopravvento sulla novità e gradualmente tutto è tornato nella normalità tradizionale, con una accettazione tacita della “cultura”  mafiosa …

La descrizione di due paesi, uno grande e uno piccolo come Vigevano e Tegoleto (AR), è demandata, dagli autori dei due contributi, a due scrittori, Lucio Mastronardi e Carlo Betocchi. Il primo racconta nei suoi romanzi la trasformazione, di cui egli in qualche modo fu vittima, della società vigevanese negli anni del cosiddetto boom, quando gli abitanti della città  misero in soffitta la loro cultura tradizionale per diventare industriali e, diceva Mastronardi, per dedicarsi totalmente all’ideologia del denaro. L’altro nelle sue poesie, semplici come filastrocche, rievoca nostalgicamente e liricamente un paese della Val di Chiana aretina.

Lucio Niccolai si occupa dei paesi del Monte Amiata e di una zona della Maremma, due territori contigui. Scomparsa la Maremma romantica dei butteri e della malaria, c’è stata l’invenzione di nuove tradizioni ad uso turistico e, negli anni recenti, la presenza di molti intellettuali e politici che avevano scelto alcuni paesi maremmani come luogo di vacanza o di seconda casa.  Tra tutti i paesi Manciano è stata la più fortunata perché ha avuto una classe politica comunale pronta ad organizzare attività sociali che favoriscono il turismo. In questo settore gran parte ha Saturnia con le sue terme, quelle per i ceti abbienti e quelle, all’aperto, gratuite per tutti gli altri. C’è da chiedersi, però, se tutte queste iniziative lasceranno il segno o si dilegueranno non appena si spegnerà l’entusiasmo di coloro che le organizzano.

Sull’Amiata grossetana le cose sono invece negative. Santa Fiora, città di nascita di Padre Balducci, fondatore di «Testimonianze», è stata negli anni passati un centro culturale importante, ma per l’indifferenza del ceto politico, tutto il lavoro svolto è stato reso del tutto vano. Storie affini hanno avuto Buti e Larderello. La prima ha vissuto fino agli anni del boom le vicende della mezzadria; poi ci sono stati la Piaggio e l’artigianato del legno. La crisi sopravvenuta nell’industria ha fatto rischiare alla cittadina di scomparire, ma la presenza di una forte tradizione come quella del Maggio drammatico su cui si è innestata l’attività di sperimentazione teatrale di Marconcini, ha determinato un certo risveglio e ridato ai Butesi la capacità di rinnovarsi. (G. Parenti)

Di Larderello si è occupato C. Marcetti, illustrandone le vicende da quando nell’800 il paese ebbe un forte sviluppo per lo sfruttamento dei giacimenti boraciferi, fino alla crisi di questi ultimi anni. Il paese ebbe dal 1954, un periodo di fioritura, grazie all’intervento dell’architetto G. Michelucci, che con il suo piano regolatore e la realizzazione delle abitazioni operaie creò un ambiente esemplare nel rapporto cittadinanza/fabbrica, il cui modello adesso, in tempo di crisi, andrebbe recuperato.

Nel volume si affrontano poi le vicende di quei paesi vuoti che sono diventati “un diffuso resort” per turisti ricchi, come Santo Stefano in Sassanio, comprato da un imprenditore e trasformato in un luogo di villeggiatura; e poi quelle di quei paesi i cui sindaci hanno avuto il coraggio di fare vera accoglienza agli immigrati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, come per esempio Badolato in Calabria.

 Monte S. Savino-Arezzo (ph. M. Meli)

Monte S. Savino-Arezzo (ph. M. Meli)

Che fare?

Se qualche paese ha dei guizzi di reviviscenza, altri continuano a morire giorno dopo giorno, del tutto inerti e indifferenti alla decadenza, tranne qualche lamentela vittimistica. Colpa anche delle classi dirigenti locali, come scrive Barbini, della loro inettitudine e neghittosità. Così egli scrive: «…oggi,  le città soffrono di questa mancanza di governo, di questa assenza di progettualità che non è solo imputabile al continuo calare delle risorse, all’applicazione rigorosa e sostanzialmente stupida del ”patto di stabilità”, che ha frenato ogni investimento pubblico nelle città italiane. Diciamocela tutta: la mancanza di risorse per tantissimi amministratori ha rappresentato un alibi perfetto per la propria incapacità, la propria inadeguatezza, la mancanza di coraggio. O almeno per una tristissima mancanza di fantasia». Da qui l’auspicio che la politica, quella che si basa sulle riforme vere e sulla progettualità, torni ad essere attiva.

Ma quand’anche l’augurio di Barbini trovasse riscontro nell’operato dei politici nazionali e locali, davanti ad una crisi così epocale come quella che viviamo, crisi di decadenza e non di fermenti, le resistenze dei sindaci e delle popolazioni possono al massimo rallentare la fine dei centri più piccoli. Occorre ben altro che le feste, le sagre, all’insegna del vecchio e del nuovo folklore: sono tutte manifestazioni culturalmente superficiali, oltre che episodiche e tanto brevi da essere del tutto insufficienti a modificare mentalità, comportamenti, cultura, rapporti sociali.

Questa crisi immensa riguarda non una sola città o una sola Nazione. Da un secolo a questa parte tutto il mondo è in piena trasformazione, molto spesso violenta come dimostrano le numerose guerre locali o regionali. Trovare una soluzione solo per una città o per un Paese è come voler mettere una toppa in un vestito che andrebbe rinnovato totalmente. Queste situazioni non sono nuove, esse si sono già presentate nella storia umana, solo che una volta, in assenza del fenomeno della globalizzazione, ogni città grande o piccola, ogni popolo, ogni Stato riusciva autonomamente a risolvere i propri problemi; inoltre aveva tutto il tempo necessario per inventarsi rimedi, per cercare compromessi, per ottenere un assestamento che fosse duraturo. Oggi ci troviamo drammaticamente davanti ad un hic et nunc: la situazione, a livello planetario, ci chiede di intervenire immediatamente, in un tempo breve, insufficiente per inventarsi una soluzione e soprattutto per verificare se essa sia resistente e di lunga durata.

C’è, comunque chi non è del tutto pessimista. Pier Luigi di Piazza, per esempio, che riporta l’esperienza di Zugliano, un piccolo centro alle porte di Udine, dove la parrocchia ha messo a disposizione degli immigrati i propri immobili, dopo averli restaurati con l’aiuto finanziario della Regione, ottenendo il ripopolamento e una funzionalità civica che il paese stava per perdere. Egli è profondamente convinto che le paure che nascono con l’arrivo di questi stranieri siano dovute soprattutto alla situazione economica precaria degli ospitanti piuttosto che all’immigrazione di gente diversa per colore della pelle, cultura e religione. Inoltre ritiene che non è necessario vivere in una metropoli  per capire il mondo, come ha dimostrato padre Balducci, nato in un piccolo paese di montagna, come Santa Fiora, ma capace di avere una visione universale dell’umanità; e come dimostra Zugliano che si è aperto al mondo fornendo accoglienza e lavoro a molti immigrati, trasformandosi in una comunità pluriculturale esemplare e dando vita ad un nuovo modello economico.

Cortona-Arezzo

Cortona-Arezzo

Altrettanto ottimista si mostra anche Luca Nannipieri (Se i paesi diventano invisibili), perché è sua opinione che l’umanità sia stata sempre  capace di rinnovarsi: «le urne funerarie etrusche sono state usate come reliquiari per le ossa dei santi nel Medioevo, i sepolcri romani sono stati riusati fino all’Ottocento per contenere le spoglie dei nuovi borghesi facoltosi». E così è accaduto per l’anfiteatro di Lucca, per il tempio romano della Minerva ad Assisi, il teatro Marcello a Roma e, possiamo aggiungere il teatro romano a Napoli e chissà quali altri monumenti antichi che si sono trasformati e hanno cambiato forma e destinazione d’uso. L’importante è che tutti questi centri minori, differenti nei modi in cui affrontano i problemi dello spopolamento, sappiano trovare una nuova identità. Taranto e Matera avevano gli stessi problemi, ma mentre il centro antico di Taranto è stato abbandonato, quello di  Matera è riuscito a rinnovarsi e adesso si avvia a vivere una nuova vita all’insegna di “patrimonio dell’umanità”.

Ed ecco che qui occorre un intervento eccezionale, per rifondare il sistema italiano dei piccoli paesi, la ridefinizione dei confini degli Enti locali, una cultura e una mentalità nuove per progettare un’urbanistica che sappia coniugare la vita delle comunità e il mondo della tecnologia, che sappia far convivere la città con la campagna. La parola che più si trova in questi interventi dell’ultima parte del volume è “rete”. L’auspicio è che si formino delle reti in cui ci sia una osmosi tra quello che è il bisogno della vita comunitaria e solidale e quello che invece è l’esigenza di una cultura che sappia capire il mondo e trasformarlo. Che ci sia il progetto di arrivare ad «un’effettiva soluzione alle disuguaglianze: fra  centralità e marginalità, fra città e moderna campagna, fra aree metropolitane e aree interne» (S.Viviani).

Per quanto riguarda l’Italia urgente diventa la tutela e la salvaguardia  dei piccoli centri. Esiste la legge  Delrio (56/2014) che prevede, tra l’altro, il superamento della frammentazione comunale, attraverso la fusione dei comuni e l’associazione intercomunale. Che sarebbero ottime cose se si realizzassero dopo un ampio dibattito generale e il coinvolgimento delle cittadinanze, anziché con l’osservanza burocratica della legge, come sta avvenendo in molte zone d’Italia. È auspicabile soprattutto che si preferisca l’associazione fra comuni anziché la fusione, che spesso si fa con lo stesso metodo con cui le potenze coloniali nell’Ottocento si spartirono l’Africa usando una carta geografica su cui tracciavano linee rette con l’aiuto di un righello. L’associazione intercomunale, già sperimentata in parte in Toscana negli anni ’80 del secolo scorso e, ahimè, abolita per salvare le province, permette ai singoli paesi di unificare molti servizi, di progettare piani strutturali che riguardino non un solo comune ma un intero territorio omogeneo e di conservare la propria fisionomia.

 Montepescali-Grosseto

Montepescali-Grosseto

La prospettiva è allora  questa: che i comuni, uniti nella rete, diano vita a decisioni non più subalterne alle gerarchie territoriali, che siano definiti i soggetti del milieu socioeconomico. Che si producano insomma «scelte di autogoverno … [e che ci siano] regioni costellate da sistemi di piccole città che, relazionate in modo sinergico alle loro peculiarità ambientali e ai loro sistemi agroforestali, ritrovano i materiali e i soggetti per un nuovo modello di sviluppo locale autocentrato e autosostenibile» (Magnaghi).

Chiude questo numero monografico di «Testimonianze» una lunga   intervista allo storico dell’arte Tomaso Montanari che ribadisce il concetto del “patrimonio” artistico e culturale come proprietà comune dei cittadini: proprietà inalienabile e non trasformabile in denaro. In questo senso la sua riflessione coincide con l’auspicio di Vito Teti: «Il cibo, le acque, il silenzio, la tranquillità, i tempi lenti sono beni comuni, a condizione di non svenderli e di promuoverli in maniera adeguata, senza retoriche identitarie».

Questo numero della rivista è, dunque, un valido strumento di riflessione e di discussione per tutti quegli amministratori, politici, antropologi, sociologi, urbanisti che volessero concorrere alla tutela e alla salvaguardia degli innumerevoli borghi e piccoli paesi che per lunghi secoli hanno costituito l’ossatura storica e culturale, oltre che economica, della Nazione italiana.

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017

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Mariano Fresta, già docente presso il Liceo classico di Montepulciano, ha collaborato con Pietro Clemente, nella Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare (canti e proverbi), di alimentazione, di allestimenti museali (Tepotratos-Monticchiello), di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983 ; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000 ; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Tutti i suoi lavori si possono leggere in http//marianofresta.altervista.org

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