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Corpi, culture, educazione nella pandemia e nella postmodernità

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:41 In Migrazioni,Società | No Comments

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Corpi (@Lapresse, 2020)

dialoghi oltre il virus

di Annalisa Di Nuzzo

Negli ultimi mesi si è aperto un intenso dibattito sulle misure di prevenzione a proposito della chiusura delle scuole, delle palestre, dei centri di fitness / wellness, e sul divieto e l’impossibilità, contrapposti alla necessità dei runner, di poter esercitare la loro passione diventata sempre più imperativa nella gestione e creazione del proprio benessere. Il contagio ha riproposto con allarme e urgenza la relazione tra le soggettività incarnate in un’intricata relazione mente-corpo. Per troppo tempo si è dibattuto sulle definizioni/distinzioni tra corpo, cultura, materia, natura, e mente. Forse è davvero inestricabile la relazione culturale e la continua ed ininterrotta plasmazione della corporeità, che oscilla tra corpo come relazione sociale e comunicazione e privatizzazione del corpo, diventata pervasiva in questi ultimi mesi fino ad assumere le forme seppur necessarie di medicalizzazione della vita.  Da queste riflessioni il breve scritto che segue cerca di tracciare anche con il supporto di ricerche sul campo, percorsi di definizione e costruzione continua del sé, tra antropologia e ben–essere, tra pratica sportiva, inclusione sociale e migrazioni, per rendere ancor più evidente l’esperienza traumatica che si è vissuta in questi ultimi mesi e il mutamento culturale che ne deriverà.

callia-e-autolicoCorporeità e Benessere

«Sono un corpo, ho un corpo. È a partire da questa ambiguità costitutiva che le scienze umane e sociali hanno riflettuto sulla corporeità» (Pizza 1997: 45). Dunque, il nostro corpo, oggetto di elaborazione e pratiche culturali, vive e agisce nel mondo. La svolta filosofica fenomenologica ha ridefinito contrapposizioni e dicotomie, offrendo validi strumenti interpretativi all’antropologia per dimostrare soprattutto attraverso la ricerca sul campo come i mutamenti, le strategie rituali, la loro funzione sociale continuino a delineare nel tempo le intersoggettività post-moderne. Mai come in questo momento ripensare e ripercorrere il recente passato e gli usi del corpo sia come luogo privilegiato di ben-essere sia come catalizzatore dell’infezione e della malattia, metta a confronto ben-essere e malattia, salute del corpo, consapevolezza della morte e richiesta di felicità. Da qui il doppio binario del mio intervento: per un verso le ritualità dello sport e la costruzione del corpo attraverso la pratica sportiva, per l’altro il corpo, il contagio, la distanza sociale.

La domanda di felicità, salute e benessere sembra essere sempre più diffusa ed imperativa. In questi ultimi anni, nuovi scenari si stanno definendo e sono significativi i segnali di profondi mutamenti di mentalità che caratterizzano la nostra post-modernità. Le discipline demoetnoantropologiche si stanno da tempo occupando del fenomeno, aprendo orizzonti di definizione teorica e di ricerca empirica. Il fitness, insieme alla sua coniugazione dolce per così dire, del wellness, è un fenomeno sincretico nel quale si ritrovano riscritte, contaminate e fuse le nozioni tradizionali di cura, ginnastica, sport, estetica del corpo, salute, benessere, felicità, su un fondamento di conoscenze scientifiche ed empiriche, che mescolano alimentazione e medicina, psicologia, filosofia, erboristeria, ed educazione motoria, determinando nuove scelte di vita e di comportamento, orientate verso il benessere psicofisico.

Il fenomeno ha acquisito ormai una centralità ampiamente certificata dai dati statistici e si configura come una vera svolta antropologica nella rappresentazione del corpo-mente e della sua plasmabilità, nella produzione di nuovi modelli di consumo e nuovi stili di vita. Il gruppo di lavoro di cui faccio parte continua a indagare le dinamiche sul campo, in particolare in area campana e meridionale. Nello specifico, mi sono occupata sia della complessa organizzazione e diffusione dei centri di benessere, delle palestre, dei centri sportivi, sia delle varie tecniche di plasmazione del corpo (prime tra tutte la chirurgia estetica) (Di Nuzzo 2010). Non è da sottovalutare inoltre l’aspetto mediatico ed economico del problema.

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da Balinese Character, di Margaret Mead, 1936 (ph.Gregory Bateson)

In questa rapida esposizione, cercherò di evidenziare le continue ambivalenze che emergono e che possono costituire una traccia, per leggere la complessità del fenomeno e le sue implicazioni. In particolare, mi soffermerò soprattutto su di un aspetto specifico costituito dalla pratica sportiva negli adolescenti e nei giovani e tenterò di dimostrare come lo sport possa essere una strada di integrazione nei processi migratori.  Punto di partenza ineludibile è certamente il corpo; ed è noto che il corpo, del quale tutti abbiamo esperienza, rappresenta (forse ancor più oggi), l’immagine di riferimento per il mondo che ci circonda, per mettere ordine nelle percezioni, per comprenderlo. Lo sguardo dell’antropologo sulla realtà corporea non è che uno dei possibili modi di vederla, di interpretarla e di declinarla. Il corpo, il proprio o quello dell’altro, è un oggetto plurale e polisemico che interessa l’antropologia, da un lato, per la sua caratteristica di oggetto duale, sia biologico che culturale, e dall’altro per la diversità delle rappresentazioni delle quali è oggetto (Combi 2006). Come è noto, l’interesse antropologico verso la corporeità e le tecniche che lo caratterizzano come elemento determinante di una cultura è sedimentato e radicato: si pensi al notissimo saggio di M. Mauss sulle tecniche del corpo, a Mary Douglass, I due corpi, a ‘O Neill, I cinque corpi, a Margaret Locke e Nancy Scheper Hughes, I tre corpi.

Sembrano emergere, oggi, nuovi percorsi di costruzione-ricostruzione del corpo, di ridefinizione della sua “presunta” naturalità, e sembra, pertanto, opportuno riconsiderare la plasmazione culturale che se ne fa, individuando strategie e risoluzioni “legate alla modernità”. C’è una tendenza alla “medicalizzazione” che rientra nella concezione della “medicalizzazione della vita”, nella tendenza a voler “risolvere” mediante pratiche di intervento, mutuate dall’arsenale medico, vissuti personali negativi che hanno in realtà una loro matrice in condizioni, circostanze o eventi oggettivamente radicati nel corpo stesso della realtà sociale (Seppilli 2007).

Questa scelta “scientifica” si ricollega, comunque, ad atavici rituali, ad immaginari che rendono la corporeità una dimora del sé forse sempre più liberata da due tradizionali “catene” naturali che hanno sempre accompagnato il corpo nella storia, ovvero corpo di fatica, corpo di riproduzione. Maschile il primo, femminile il secondo. Il corpo oggi sempre più apparentemente “liberato” si offre ad altre forme di tirannie e assume su di sé altri bisogni da soddisfare in maniera prevalente, quali quelli della bellezza, della giovinezza, della salute, del raggiungimento del “benessere” di una sessualità liberata da ogni altra responsabilità. La riflessione sul corpo come palinsesto incerto, manipolabile non in senso strettamente fisiologico, si combina in maniera inestricabile con l’idea di consumo (Impellizieri 2004: 36). La tendenza attuale è quella di un nuovo equilibrio vitale, in cui il relax mentale e quello fisico s’incontrano in una dimensione di benessere profondo. Un benessere in cui la cura del corpo e della mente diventano centrali, adottando e creando nuove regole e nuove occasioni di espressione. Tranquillità, serenità, armonia, sono valori e condizioni dello spirito da ricercare nella quotidianità, e non da relegare a momenti straordinari. La conoscenza e la consapevolezza del proprio organismo biologico, della propria gestualità e del proprio metabolismo personale, contribuiscono alla definizione di questo nuovo equilibrio.

Quali sono le richieste più diffuse, gli immaginari che costruiscono la plasmazione culturale del corpo oggi, e a cosa alludono questi ideali di bellezza, salute, felicità?  Si rimescolano le carte ancora una volta tra natura e cultura, individuale e sociale, intimo ed esposto, una rivoluzione silenziosa che per dirla con Bourdieu (1992: 121)

«può fare del corpo luogo di elaborazione implicita di un sapere non formalizzato e non formalizzabile, operando come implicito creatore di preferenze e di valutazione che avvengono nella prassi quotidiana; il corpo stesso è il risultato di quest’elaborazione che è anche continua negoziazione sociale».

6Questa nuova centralità del corpo è tuttavia contrastata da un’altra tendenza del nostro tempo, quella del corpo flusso, in particolar modo per le giovani generazioni, per cui il corpo fisico ormai, grazie alle continue innovazioni tecnologiche, sì dà in una condizione di incessante metamorfosi, e di atrofia che ne farebbe presagire la dissoluzione. Ma è anche vero che nello spazio virtuale ciò che si ricerca è proprio la resa d’immagini e percezioni sempre più simili a quelle reali e si offre all’utente la possibilità di una dinamica interattiva sugli oggetti rappresentati, quindi non si può sostenere che il traguardo finale sia la negazione delle capacità motorie e sensoriali dell’uomo. Abbiamo sperimentato in questi ultimi mesi quanto possa essere articolato, talvolta innovativo e non solo mortificante, il rapporto tra corporeità e virtualità; come il nostro corpo possa essere protagonista di una vita on life e non subire una condizione on line (Floridi 2020)  tra il lavorare, studiare, educare in collegamento virtuale invece che in presenza. Inoltre, le continue interconnessioni del sistema culturale attuale rendono sempre più necessaria l’elaborazione di contesti educativi che si relazionino a questa complessità e a nuovi contesti meticciati e multiculturali, a partire anche da alcune comparazioni con le società di interesse etnologico.

Sono note le riflessioni di Margaret Mead sugli usi del corpo nelle società indigene: a Bali per l’attitudine alla danza, nelle isole Samoane per la definizione di corporeità femminili e maschili, quelle di Beatsons sugli Iatamul e più ancora, come già accennato, quelle di M. Mauss.

Queste riflessioni che ci indicano strutture antropologiche del profondo possono essere utili per orientarsi in queste riplasmazioni nella postmodernità. Emerge, dalle prime osservazioni, l’esigenza di reintegrare e armonizzare la relazione tra corpo, psiche e auto percezione della propria immagine, restituendo il benessere e la coincidenza tra l’oggetto corpo, la macchina, la propria interiorità e la rappresentazione del sé.

Se il corpo è ciò che mi nasconde il mondo, esso è anche ciò che mi consegna agli altri, il corpo mi offre al loro sguardo, al loro riso, alla loro ammirazione. Esso mi rivela agli altri e testimonia sottilmente la mia dipendenza dagli altri. Il corpo è dunque non tanto una prigione che mi isola dal mondo, quanto una gabbia che presenta agli altri, spettatori stupefatti, l’esemplare che lo abita (Dumouchel 2008). Questa gabbia ha subìto negli ultimi mesi una drammatica messa in discussione. Soggetti incarnati non più consegnati al mondo, ma reclusi dal mondo, dalla tangibilità del gesto, dalla ritualità di allenamenti, dai giochi e dai respiri reciproci. Il ben-essere del corpo ha subìto una profonda frattura, recluso in una domesticità forzata ha assunto una sedentarietà innaturale. La relazione tra corpi attualmente continua ad essere contrassegnata dalla distanza fisica, dalla rimozione della naturale (e culturale) tentazione del toccarsi. Cambiano i rituali del saluto, dell’augurio, dell’espressione dei sentimenti attraversati da regole e protocolli “imposti”. Riemerge lo sguardo, unico sopravvissuto all’uso della mascherina e dei guanti. Quelli che hanno sofferto di più per questa modalità sono stati, forse, gli adolescenti che per un verso hanno finito con l’esasperare la virtualità e per l’altro hanno segnalato insofferenze e trasgressioni alle regole imposte. In ogni caso hanno evidenziato la cogente centralità nella costruzione della loro definizione di soggettività / intersoggettività.

okCorpo, pratica sportiva e adolescenza: la ricerca sul campo

È noto che in questa costruzione/definizione la fase adolescenziale rappresenta un momento complesso e delicato di definizione del sé. Attraverso il lavoro sul campo l’attenzione si è concentrata sui modi di esprimersi degli adolescenti, sui loro bisogni e immaginari, sulla loro necessità di ricostruzione, pulizia, integrità, ordine, controllo sul microcosmo corporeo.  Spesso sono i loro corpi che parlano, è il loro modo esibizionistico che comunica, non le parole. Il linguaggio delle emozioni non passa attraverso le frasi costruite con forme sintattiche e grammaticali corrette, ma passa dal corpo martoriato dai piercing, dai pantaloni sotto la cinta, dai tatuaggi. Ne nasce un’immagine di corpo individualizzato come cantiere aperto, sensibile al piacere, disponibile ad un’ampia gamma di esperienze emotive, ma fondamentalmente fragile, incerto e insicuro. Uno dei dati più costanti emersi è senza dubbio la diffusione della pratica sportiva tra i giovani. Ma c’è di più. Nella dimensione sempre più definita e articolata di una società transculturale emerge un elemento apparentemente lontano che dalla gestione del corpo conduce attraverso la pratica sportiva a positivi percorsi di integrazione per i migranti.

Solo in apparenza lo sport e i flussi migratori non hanno nessuna relazione tra loro, essendo il linguaggio dello sport, nonostante le differenze tra performance individuali e ruoli formali e informali, eminentemente universale. Esperienze in Paesi dell’Unione Europea dove l’immigrazione è un fenomeno di lunga data dimostrano che lo sport può essere un potente mezzo di promozione, visibilità e riconoscimento sociale. La condivisione di codici e regole, la pratica all’esercizio del corpo, pur nelle diversità etniche e nelle specificità che esaltano determinate abilità, producono comunicazione efficace e percorsi inclusivi che superano pregiudizi e rendono possibile, nei casi di maggior successo, di affrancarsi dalla condizione di minorità e di conseguire posizione di prestigio sociale.

4Il rapporto tra pratica sportiva, successo lavorativo e scolastico è sempre più direttamente proporzionale, così come i percorsi di integrazione e di successo degli immigrati. Le interviste sono state fatte ai ragazzi, agli allenatori e a migranti all’interno di diversi centri sportivi a Maiori, Cava de’ Tirreni, Gragnano, Sorrento, Nocera, Potenza, e periferia nord di Napoli. Le discipline sportive prese in esame sono state il karate, la ginnastica artistica, il calcio, la pallavolo, il kickboxing, il badminton e il body building. Abbiamo selezionato queste pratiche sportive sia per la loro grande diffusione (il calcio, la pallavolo) sia perché discipline nate da contaminazioni di culture (arti marziali-ecc.). Un esempio significativo è il caso degli sport da combattimento o arti marziali, che appartengono all’area degli sport situazionali, caratterizzati da attività neuro-cognitivo-motoria particolarmente efficace per lo sviluppo di una serie di funzioni di fondamentale importanza per l’individuo in età evolutiva. Dall’esame dei risultati di questa pratiche sportive, in particolare il karate, è emerso che attraverso un continuo rapporto stabilito con la scuola pubblica si è realizzato un proficuo intervento sull’attività motoria dei soggetti a rischio in aree degradate e si è plasmato culturalmente l’eccesso di violenza non gestito consapevolmente dai ragazzi.

Si tratta, infatti, di discipline che regolano il gesto, la forza, il controllo, la posizione del corpo nello spazio, l’aggressività, come apertura verso l’altro, nel rispetto dell’altro, mutuato anche da concezioni che hanno a che fare con il mondo orientale e con culture profondamente diverse dall’Occidente; ma questa contaminazione ha prodotto un positivo risultato educativo e di crescita del sé. In particolare, è risultata potenziata la consapevolezza cinestesica attraverso un lavoro lento e graduale; si conosce la posizione del corpo nello spazio insieme ad uso particolare degli arti. Quando si diventa bravi, forti e potenti, il controllo degli arti diventa forza espressa con velocità e precisione, come quando si tira un calcio velocissimo al viso dell’avversario, ma non lo si deve colpire. Si scatena una carica a livello neuronale che è uno stimolo potente di velocità che dura un battito di ciglia mentre sta per giungere al bersaglio, ma che bisogna fermare un attimo prima. Ci si addestra così al controllo assoluto di cui il soggetto è unico responsabile.

Dalle numerose interviste emerge un microcosmo relazionale nel quale si definiscono le diverse idee di corporeità e di benessere attraverso il confronto tra allenatori, maestri, (in qualche caso allenatore-genitore) e ragazzi a partire dal comunicare con “il corpo al corpo”. Le aspettative e la responsabilità di costituire un modello sono forti e l’ambiente educativo che si crea è fondamentale per poter innescare un corretto rapporto corpo-mente.  Da questo punto di vista, lo sport è occasione formativa nel senso che il soggetto è posto nelle condizioni di mobilitare le proprie motivazioni e le proprie capacità in vista di determinati risultati. Lo sforzo per ottenere risultati presuppone intenzionalità e, dal punto di vista educativo, implica che i soggetti siano aiutati a diventare consapevoli. I temi affrontati nelle interviste sono stati: l’uso del corpo, la figura dell’educatore e il gruppo, l’importanza della scelta sportiva, i valori condivisi. Per quanto riguarda la scelta della pratica sportiva è ovvio che i ragazzi sono influenzati dagli amici, dai familiari, dal contesto culturale e mediatico che propone un certo “eroe sportivo”, ma emerge, insieme a questo, un altro dato interessante: i ragazzi, a dispetto di quello che pensano gli adulti, sono molto attenti alle trasformazioni psico-fisiche che lo sport genera in loro e hanno aspettative sempre maggiori.

Lo sport permette di recuperare un corpo alienato. La sensazione è che mentre la moda e i mass media propongono corpi nudi, efficienti, scattanti ed energici, l’adolescente non ha la capacità di gestire il proprio corpo programmato per una serie di prestazioni che non è in grado di attuare. L’attività sportiva permette di vivere in presa diretta con questo nuovo spazio che cercano di abitare, rende possibile la sperimentazione di limiti e conquiste, in un continuum senza fine.  Ma la pratica sportiva non può prescindere, in special modo nella fase adolescenziale, da una definizione sessuata e di genere e di come (le interviste lo confermano) stia radicalmente cambiando l’attività sportiva nelle ragazze, soprattutto nella scelta dello sport e nei risultati. Cadute le tradizionali differenze stereotipate tra sport maschili e femminili, finalmente si sceglie rimuovendo il peso dei luoghi comuni e ascoltando le libere inclinazioni.  Così non tutte le ragazze scelgono la ginnastica artistica, ma sempre più spesso si orientano verso il calcio o il karate. Del resto i successi sportivi italiani al femminile di questi ultimi anni hanno evidenziato la tenacia, la caparbietà, la perseveranza del femminile nelle pratiche di allenamento e di come si possa coniugare anche maternità e sport.

Sempre più spesso questi centri sportivi sono i contesti dei nuovi riti di passaggio (Segalen 2002), nei quali coesiste anche l’idea di fatica, sacrificio, prestazione, risultato. Ogni disciplina sportiva ha una sua ritualità che definisce uno stare al mondo di cui l’adolescente ha bisogno ora che gli antichi riti di passaggio si sono logorati.  I nuovi rituali sempre più distaccati dalla religione e dalla comunità di appartenenza diventano una celebrazione individuale del collettivo. Lo sport, come gli hobby e le associazioni, ha la capacità di aggregare in spazi e tempi diversi comunità disseminate sul territorio, unendole in un tempo rituale nel quale è coinvolto anche il gioco con le sue regole che hanno a che fare con le funzioni sacrali, magiche, divinatorie.

bodybuilder-pixabayTuttavia, se per un verso l’attenzione alla cura del corpo è stata promotrice di una sana pratica sportiva in tutte le fasce d’età, in altri casi si è trasformata in un vero e proprio culto del fisico con corpi gonfiati e costruiti. Da qui la paradossale doppiezza e contraddittorietà degli esiti dei modelli. Da una parte il corpo “pompato” e super visibile del body builder e dall’altro quello “asciugato”, quasi invisibile, delle modelle. Da una parte l’artificio per addizione sulla scorta di un vitalismo energetico nerboruto, dall’altro un artificio per sottrazione ispirato ad uno stile asciutto e penitenziale. Un’equilibrata relazione mente-corpo, secondo Damasio  (2003), deve partire dalla capacità di rappresentare il proprio stato corporeo nella mente; le emozioni si esibiscono  nel teatro del corpo, i sentimenti in quello della mente, prima vengono le emozioni, poi i sentimenti. Da questo postulato si capisce meglio che il corpo è cultura (ovvero costruzione di sé), emotività (elaborazione), intelligenza (manifestazione di sé), e diventa inscindibile la relazione cognitiva tra intelligenza emotiva e intelligenza corporeo- cinestesica, rendendo il corpo il migliore veicolo culturale di cui siamo dotati.

La chiarezza e la coscienza dell’interazione emotiva e corporea come elaborazione cognitiva e culturale deve alimentare, allora, modalità educative alternative destinate a realizzare nuove costruzioni dell’identità soggettiva che la collettività oggi richiede. Alcune Federazioni nazionali degli sport citati hanno promosso progetti pilota per formare nuove figure professionali per affiancare educatori e insegnanti, come quello dell’educatore sportivo scolastico; sono stati promossi seminari su neuroscienze e sport da combattimento. In tal modo, è stato chiarito che i giochi di lotta migliorano l’autostima, attraverso il superamento di ostacoli e difficoltà crescenti, producono uno scarico di aggressività in modo positivo, promuovendo ed elaborando l’autocontrollo. Tutti gli sport di contatto e di situazione, se sono proposti in modo corretto, non esaltano e non stimolano la violenza, ma al contrario portano alla consapevolezza del pericolo, al controllo dell’aggressività e al rispetto delle regole.

Allo stesso tempo, molte federazioni si sono adoperate per dare la possibilità a giovani migranti di essere riconosciuti ed accolti come cittadini italiani e realizzare così processi virtuosi di integrazione non meno che opportunità di lavorare con passione ad un proprio progetto di vita. È stato così per Aziz Salah, e la sua voglia di riscatto attraverso il body building. In fuga dalla Libia in guerra, continua a coltivare la sua passione per questo sport fino a diventare un body builder professionista. Sbarca in Sicilia, raggiunge Napoli e con l’aiuto della federazione e del contesto favorevole può ricominciare ad allenarsi in palestra grazie ai soldi portati con sé dalla Libia e a riprendere il suo lavoro di personal trainer: «Anche qui in Italia alcune persone si sono fidate delle mie qualifiche e hanno scelto me come loro istruttore personale».

5Nuove soggettività, plasmazioni corporee, contagio

La nuova educazione al ben-essere si definisce anche attraverso la rimozione delle paure e la vittoria sulla malattia e sul contagio. Il desiderio della legittima conservazione della salute è la nuova metafisica ratificata dalla odierna paura dell’infezione virale; l’involucro deve essere protetto, reso efficiente e inattaccabile. Esauritesi nelle derive totalitarie del Novecento le utopie (compresa quella globale della conquista della Terra), uno dei pochi sogni e, nello stesso tempo, delle poche incognite rimasti è il microcosmo del corpo umano (seppure deriva del sogno illuminista della macchina-corpo) intorno al quale si sono accesi secondo Sloterdijk (2014) diversi interessi: i sogni della medicina che modificano i corpi e agitano gli spiriti; l’ossessione dello sport, che nell’arco della vita tiene sempre più in forma il fisico, proteggendoci dalla paura della morte e della contaminazione virale.

È l’intreccio tra biotecnologie, chirurgia estetica, sport e salutismo a reggere l’universo emergente del ventunesimo secolo, oggi reso più problematico e angosciante dalla pandemia. Ci sarebbe, dunque, sempre di più il riconoscimento di una necessità “costitutiva” dell’essere umano di definire, migliorare, potenziare, costruire sfere, ambienti, che proteggano gli individui in un involucro di purezza e immunità, sulla spinta regressiva verso un virtuale grembo materno. Come sostiene anche Luhmann (2001) l’immunità e, dunque, la conservazione sono dati che determinano una concezione meta-biologica, regolata dall’idea di una vita umana integra. Il tutto confluisce in una nuova disciplina scientifica che è la neuro-psico-immunologia, che sta strategicamente a cavallo tra scienze dei sistemi, scienze umane e scienze della natura.

I corpi contano e si “materializzano” ovvero contano e significano. Corpi che contano (Butler 1996) nella misura in cui la materia non è un dato irriducibile ma ha una storia, e il legame tra materialità e corpi che contano è indissolubile. Materia, dunque, come matrix (utero nella traduzione da Seneca), matrice ovvero creatrice di senso e non più sesso e natura forzatamente inscritti in un genere sessuato, stabilizzato in una dialettica dicotomica. Anche il sesso è costruito e non un già dato. Corpo desiderante e deresponsabilizzato, o corpo culturale responsabilmente costruito dal soggetto? Il dibattito è aperto. L’essere giovane, donna, uomo, diviene un elemento di visibilità sociale, nuova categoria della trasformazione socioculturale, sganciata dall’età anagrafica, dalla natura, sogno possibile e insidioso dell’immaginario antropologico. Ma in questa fase si inserisce prepotentemente una dialettica emergenziale e radicale: i corpi nel distanziamento fisico sono piegati alla nuova e antica strategia dell’immunità e del ben-essere. Una scienza insidiosa e contraddittoria che ridefinisce le posture legittime e rassicuranti, distanze tra i corpi, movimenti e rapporti spaziali misurati, una biopolitica del controllo sociale di stampo foucaultiano (cfr. Hall 1969)

Tuttavia lo sport non smette di essere una delle forme più efficaci di occidentalizzazione del mondo, filosofia e strategia che possono anche promuovere forme di assimilazione pervasiva dell’alterità. I grandi uomini delle foreste e degli altipiani, popolazioni di splendidi atleti, diventano troppo spesso i vagabondi delle bidonville e dei ghetti delle grandi metropoli occidentali. Questa trasformazione corporea si legge nel portamento, nella prostrazione del loro corpo a meno che non venga dato loro la possibilità di partire “alla conquista del mondo” diventando, se possibile, più occidentali degli occidentali, trasformandosi (questa è una delle poche possibilità date) in eroi dello sport mondializzato, grazie alla loro struttura fisica e agli atavici usi del corpo delle loro antiche culture di appartenenza.

Il corpo dell’atleta porta sempre di più i segni di questa contaminazione tra diversi universi culturali e canoni di prestanza fisica dando vita a meticciati inconsueti. Così da qualche anno il corpo dell’atleta, in particolare del calciatore, è sempre più disegnato con tatuaggi che ancora una volta rimescolano le carte tra natura e cultura, tra intimo ed esposto, tra culture occidentali e culture altre, culture popolari di cui quella sportiva è un esempio significativo, e quelle d’èlite. Il che potrebbe renderci forse un po’ più ottimisti sul come coniugare e le infinite diversità delle culture umane.

Senza dubbio la corporeità può essere definita sempre più un pasticcio ibrido nella tensione di colonizzare il vivente in un sistema che riduce le molteplicità o le complessità a livello di quantità plurali e le commercializza per dare vita a quello che Rosi Braidotti definisce soggetto nomade (Braidotti 2003).

All’alba del terzo millennio, la soggettività in generale, e forse ancora più quella femminile é un luogo paradossale, un complesso teatro ove giocano molteplici intrecci sociali, simbolici, discorsivi. È un corpo che non é più uno, ma piuttosto una vera molteplicità di strati, di pratiche e di discorsività corporee. Essere incarnati significa che siamo soggetti situati, capaci di inscenare una serie di (inter)azioni che sono discontinue nello spazio e nel tempo. Postmodernità e frammentarietà si coniugano non per disperdere patrimoni identitari ma per stratificarli e coniugarli in isole di senso che si solidificano e si disfano come magma a contatto con l’acqua. Nascono così, i nuovi territori, nuove identità che attingono, in ogni caso, senza che ne abbiamo piena consapevolezza, dalle nostre più antiche radici.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, la torre le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014). Minori migranti, nuove identità transnazionali (2020).

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