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Consagra: una voce che gli architetti avrebbero dovuto ascoltare

per Consagra

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Pietro Consagra (ph. Gettyimages)

di Antonietta Jolanda Lima

Tra gli architetti e gli storici-critici dell’architettura unico è Bruno Zevi che rivolge una certa attenzione a Consagra, ma soltanto agli albori e sul finire del decennio Sessanta, su “Cronache di architettura”, trascurando quasi un ventennio precedente, quando il giovane artista (Mazara del Vallo, 6 ottobre 1920 – Milano, 16 luglio 2005) ne inala, vivendolo, il clima euforico, e avverte «la gioia di sentirsi italiano ed europeo insieme, comunista e artista d’avanguardia, libero dal potere». E si vedrà come il susseguirsi, pressoché ininterrotto e in tempi rapidi sempre più incalzante, di inviti e mostre, in lui maturino il rifiuto del realismo socialista, l’adesione all’astrattismo inteso come difesa dell’Europa, la spiritualità come provocazione, la fantasia come antidoto alla massificazione.

L’America in espansione dà «il fiato grosso» all’Europa, anche se l’arte di entrambe sarà presente nella Biennale di Venezia del ‘60, ultimo grande scontro in cui Consagra vince il gran premio per la scultura, quando è già in atto il suo riconoscimento europeo che – evidenzia Nello Ponente, critico e storico dell’arte, allievo di Lionello Venturi – ben chiarisce i due motivi alla base: il radicamento una condizione storica e la modulazione della forma intesa come «modulazione degli spazi e dei volumi negativi scavati sulle superfici, e senso della materia… Motivi, conclude, già esplicitanti una prima indicazione di validità estetica».

Alcuni anni prima, nel 1956, con la sua mirabile capacità di saper vedere pari alla sua chiarezza esplicativa, trasmetteva il senso autentico e profondo della concezione della scultura di Consagra come superficie plastica, Giulio Carlo Argan che così scriveva:

«…è inseparabile dalla materia, è mero fenomeno e presuppone, come proprio completamento, una profondità assolutamente empirica o fenomenica. Come lo spazio, empiricamente inteso, non è altro che profondità o distanza, così la forma plastica, in quanto fatto concreto o positivo valore d’esistenza, nasce sempre dalla superficie. L’unicità del punto di vista (e quindi non la pluralità) ne discende per conseguenza. La forma di Consagra conserva un pathos che giunge talvolta ad esasperazioni espressionistiche. Tutta la sua plastica è in fondo una lotta contro l’ossessione del piatto, contro la negazione dello spazio, contro la disperante angoscia di non sentirsi pienamente inseriti, integrati nel mondo… Perciò le superfici si segmentano e ritagliano, cercando di impegnare il vuoto in una coesistenza animata e perfino drammatica; perciò la superficie non è mai piano, gli strati plastici si sommano, crescono l’uno dall’altro, sollecitano la verifica tattile di una esistenza necessariamente frammentaria e dilacerata, ma proprio perciò incontestabilmente, quasi prepotentemente reale» (Argan 1956: 139-144 in Consagra 1989: 162-163).

Diversamente da Argan, solo un accenno minimo quello di Zevi del 5 giugno 1960 a proposito del monumento al sommergibilista a La Spezia, concorso ristretto a pochi artisti il cui insabbiamento suscita la sua indignazione per una Italia «da oltre un secolo offesa, vituperata, intristita, relegata ai margini della storia, sconfitta dal qualunquismo e dall’incompetenza in tema dell’arte» (Zevi, 1971 vol. 6: 545-47).

La crisi dell’informale e del post-informale già serpeggiante nell’estate del 1963, la Pop Art che fa «macero di tutto» mentre il trionfo travolgente dell’arte americana si libera definitivamente di quella europea dopo essersene nutrita, trovano Consagra in piena crisi. Ha da poco superato i quarant’anni e si sente «improvvisato a tutto», lui che proviene «da una periferia di una periferia in un’Italia appena entrata nel giro della cultura internazionale».

Crisi come valore, diceva Zevi. Crisi come momento di verità, scrive Consagra. Da Venezia all’Elba dove comincerà a scrivere la Città frontale, la cui prima mostra avviene a Milano che sente come la sua seconda città dopo Roma.

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Con il collezionista americano Arnold Maremont,  alla Biennale di Venezia, 1956 (ph. Giacomelli, Archivio Pietro Consagra)

Nel suo continuo andare e ritornare dagli USA in un’altalena ininterrotta tra il sentire la gioia della vita e il sentire di vagare nel buio «senza sapere più chi ero», in pieno a una depressione psichica ed economica, accetta nel 1967 l’invito di insegnare a Minneapolis, e la riflessione che gli genera l’architettura colorata con la quale si confronta gli fa comprendere che la città è un tema plastico affascinante, mentre l’ondata moralistica della contestazione giovanile mette in subbuglio il cosiddetto mondo civile occidentale, in cui la democrazia è ormai parola priva di senso (cfr. Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, 1964) investendo anche Venezia e la sua Biennale.

Pur essendo già riconosciuto nello scenario europeo in una Italia in cui inizia a diffondersi «quell’idea di architettura che condurrà alla distruzione del legame che essa deve avere con la gente e con gli spazi dai quali trova la sua ragion d’essere, il motivo della sua necessità» (Lima 2020), «che cosa ho portato io agli altri – si chiede – io che provengo da una terra di manovalanza? Ho esportato il mio carattere, ne ho fatto un valore e un mito». Ma cosa si porta dunque dietro il “Siciliano”? Quando si allontana dalla sua terra, scrive, si presenta da solo, alle spalle non ha niente che gli appartiene, giunge altrove per prendere, dando in cambio se stesso come un ladro senza cauzione. Vive povero in una Mazara povera quanto lui e la sua famiglia e il peso storico di ciò che è la sua terra d’origine, questa sua meridionalità graverà a lungo su di lui percependola come «una corrente contraria ad ogni riscatto». Fin da piccolo disegna, e senza interruzione crescendo. Lo aiuterà un Professore, chiamato scopritore di talenti. E inizierà così il suo percorso dentro l’arte.

Ma quel peso storico con il quale Consagra esprimeva il senso della sua origine e del suo trovarsi dentro l’indigenza, non soltanto familiare, non lo abbandonerà mai, spingendolo ad affermare che forse la frontalità da lui professata, direi come ragione di vita, gli apparteneva ancor prima di nascere, originando da quella stessa indigenza che segnava la terra e gli abitanti in cui si era trovato a nascere, e che lo spingeva, come sola possibilità, ad «usare materiale comprato a centesimi e fuori dalle fonderie classiche» che mai sarebbe riuscito a pagare. Poi, aggiungerà, «è venuta dietro di me».

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Consagra in fonderia, 1962

La frugalità diventa quindi valore per Consagra lungo il processo della sua formazione e crescita artistica, unita all’adesione a tutto ciò che gli sembra congruente con il tempo storico in cui vive, che lo induce a dare un legame tecnico alla sua scultura e a scartare i materiali tradizionali a favore di quelli industriali e poveri: laminati plastici o assi di legno, entro un processo che passa per il ritaglio, l’incollatura, la saldatura e l’inchiodatura.

Per quanti possano dimenticarlo, ci dimostra dunque Consagra che le radici contano. Non è casuale il fatto che nella struttura bidimensionale e non gerarchica delle piante, le radici sono fondazione e fondamento, formano e informano e ancor più di esse la parte ultima – l’inizio direi – che esplora, e comunica con e all’insieme.

E ciascuna ha le sue di radici, come per gli esseri umani. Basti qui pensare a tre grandi centenari, di analoga generazione: Zevi ha l’ebraismo e una famiglia borghese, Soleri le limitatezze economiche e il paesaggio torinese; De Carlo come Consagra la Sicilia che assimila dai nonni e dalla Piccola Sicilia dove erano migrati per cercare fortuna; il secondo in una città natìa – Mazara – povera come la sua famiglia.

Pur con gradazioni diverse la frugalità è in tutti e tre condizione intrinseca. E tra chi interpreta Consagra, ben lo esplicita Luca Massimo Barbero nella postfazione della autobiografia dell’artista, un piccolo memorabile libro che, a mio parere, chi si accosta a questo artista dovrebbe leggere. Scrive Barbero:

«Vi è in questo testo una matrice su cui Consagra insiste sin dall’inizio: una sorta di lealtà e onore di appartenere  a una terra come la Sicilia, la gratitudine per il primo sostegno al suo operare artistico che in essa gli viene tributato, che è anche la spinta di un malessere che lo porta a non volere restare culturalmente rinchiuso in questa terra di fuoco, per misurarsi invece da subito in quello che era l’agone della storia anche per altri giovani siciliani che hanno cambiato l’arte italiana: Roma…»,

ciascuno con il proprio “carattere”. Ma quale il suo in particolare, si domanda Consagra. Cos’è questo carattere, per lui siciliano?

«È un diritto umano a non subire le sopraffazioni, è il patrimonio della propria esistenza, la possibilità di scegliere e reagire con una propria coscienza che proviene dai contatti umani, dagli oggetti vicini e sognati, dalle avversità e dagli amori, dai propri sensi, dagli odori e dal tatto, dalla memoria dove si attacca, dall’attenzione dove si posa, dai desideri che si rinnovano, dal cervello che fantastica, dalla sofferenza e dalla accondiscendenza, dai genitori e dai fratelli, dagli amici, dai vicini di casa, dai parenti, dalle identificazioni, dal piacere e dal dolore, dal modo di sedersi su un gradino, dal modo di correre e saltare, da quello che ti piace guardare e che ti piace fare. Sei influenzabile e devi scegliere. Vivi di sovrapposizioni».
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Città Frontale. Tris trasparente n. 2. Edificio n. 4, Edificio n. 5, Edificio n. 6, 1968, acciaio inox, lastre tagliate, curvate e saldate, 43 x 150 x 50 cm (la scultura è stata realizzata in 3 pezzi unici). Collezione privata, Milano

Nel riprendere la voce di Zevi su Consagra, il 22 dicembre 1968, a proposito di un intervento che fa Pavia nell’urbano, sottolinea la validità di aver posto in modo clamoroso il problema dell’arredo moderno nei centri antichi, rinnovandone la fisionomia urbanistica con l’estromissione del traffico, di tutte le volgarità estetiche dalle insegne pubblicitarie e di avere voluto la presenza di opere scultoree di validi artisti tra cui, con Cascella, Carlo Mo e Mirko, Consagra che in quello stesso anno al ritorno dagli Stati Uniti pubblica La Città Frontale, in cui esprime la sua ribellione contro architetture ormai incapaci di esprimere una coscienza plastica in quanto asservite a necessità funzionali, proponendo in alternativa la sua idea di città aperta, accogliente, crocevia d’incontri e di bellezza.

Ma è nel successivo 27 aprile 1969 che si sofferma un po’ più a lungo su un artista che già ancor prima avrebbe meritato un suo interesse ben più ampio. Per il resto il mondo della cultura architettonica tace su un creativo il cui percorso, che incrocia altri talenti anche loro percorsi dalla tensione di esprimere il nuovo, in rapida ascesa da Palermo e poi Napoli, inala a Parigi «la fantasia di tutta l’arte moderna europea» di fronte ad opere cariche di futuro. Gli si apre «dentro un tumulto»: dall’iniziale modellare approda alla saldatura, lavora con assi e lamiere e con la fusione a sabbia, il suo studio diventa un’officina e dalla iniziale tendenza verticale si orienta verso l’orizzontalità; verso dove si sviluppano i rapporti distaccandosi così, lungo un processo di un fare permeato dalla corrispondenza tra mente e mano, dalla tridimensionalità conformando man mano la sua plasticità nella «tendenza bidimensionale». Nascono i Colloqui «per un rapporto diretto e frontale con l’osservatore» che nel suo insieme è società, sculture la cui «tensione è nello spazio definibile con l’orizzonte».

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Consagra, Colloquio pubblico, 1955 (Archivio Pietro Consagra)

Espone alla milanese galleria dell’Ariete plastici trasparenti di bronzo, alluminio e ottone, e Zevi nel cogliere l’utopia nella sua visione, ritiene la sua scultura parecchio complessa e carica di ideologie, senza tuttavia spiegarne la logica che la sottende, pur evidenziando il suo tendere ad offrire con la sua Città Frontale (1969) «l’immagine di una città nuova» che, nel porsi come «clamoroso dissenso o rifiuto», ha come fondamento un principio già presente anni prima: togliere l’oggetto dal centro ideale che per Consagra equivale alla tridimensionalità intesa come voglia di potere.

Non scrive su questo il grande critico, limitandosi piuttosto a sottolinearne la positiva vis polemica:

«Per superare gli attuali impianti urbani, tediosi, opprimenti, distruttivi, meschini, lo scultore ipotizza un paesaggio di setti variabili e fantasiosi, creati, non imposti al fruitore ma creati in partecipazione, in cui gli spazi e le funzioni interne emergono attraverso la plastica trasparente. Egli ne studia le esigenze tecniche, il flessibile rapporto tra città e autostrada, gli elementi piani delle zone residenziali, le cerniere delle infrastrutture e dei servizi, le sfasature degli edifici, il colore, l’illuminazione. Ma non è nei dettagli il valore dell’idea: importa soprattutto la veemenza dell’accusa contro un ambiente repressivo e la sincera, commossa fiducia in una prospettiva di radicale rinnovamento. Entro tale ambito la Città Frontale di Consagra dovrebbe sferzare gli architetti assopiti» (Zevi, 1973 vol. n. 14: 283-760).

Ma cos’è la scultura frontale? È forma prima che contenuto, e questo sin dagli anni cinquanta (Colloqui, Trasparenze, Spessori) è in lui «presente come umore e come istigazione formale, come classe estetica e come creatura sensibile, come emozione politica e come sentimento». Il passaggio è la città frontale: «una estensione provocatoria della mia scultura», chiarirà nel medesimo 1969 «… per uno scultore un’emozione plastica della vita, una fantasia realizzabile e ambigua oltre l’opera d’arte, un rischio moralistico che deve essere come una nuova responsabilità».

Nello svolgimento della frontalità la rigidezza della linea retta inizialmente dominante, che lo stesso Consagra ritiene riverbero dell’interiorità del suo essere connessa al rifiuto di accettare una società che non gli piace, inizia ora a cedere a «raccordi curvati» che man mano si dissolveranno «in un fluido scorrimento tra i piani, arginati dall’emozione che frastaglia e dissemina accenti», in un’Italia in cui i principali eventi della ricostruzione nelle due principali scuole di architettura – la romana e la milanese – si perdono nel colloquio, ancora oggi non risolto di tradizione e innovazione.

Un chiarimento potrebbe trovarsi in anni tardi, alla fine degli Ottanta, quando scrive:

«un oggetto su un tavolo costituisce un centro, un suo centro indipendente dal centro geometrico del tavolo. I due centri possono coincidere o no. Se non coincidono nasce conflitto tra di essi. Si può dire che entro una certa area, cioè entro una certa vicinanza, i due centri hanno un rapporto di accoppiamento. Fuori da tale rapporto, cioè nelle condizioni di lontananza, i due centri si contrastano fino a creare un disturbo, una dissociazione. Sul tavolo possiamo porre altri oggetti e questi costruiscono altri centri e il centro reale del tavolo non ha più senso, perde il suo valore. Possiamo dire che il centro contenuto dentro l’oggetto ha un potere di accentramento superiore al centro geometrico. …Poi c’è da considerare la dimensione …Centralità e dimensione insieme creano un moltiplicatore di valori automatico che si doveva imporre nella coscienza del potere, per rappresentare il potere».

Ritiene quindi Consagra che la tridimensionalità della architettura contemporanea (Cultura, Potere, Business) abbia cessato di essere quello strumento di spiritualità e di cultura che caratterizzò le fasi più belle della creatività non soltanto italiana (Consagra 1989: 141).

Ma ancor prima, negli anni Settanta questo convincimento gli si era già radicato profondamente diventando cifra dell’intera sua attività di artista, intellettuale, polemista. Nel 1969 la sua accusa era contro il funzionalismo e il praticismo, la retorica e la demagogia, la mancanza di fantasia e senso critico, come dimostrano – aggiungo io – tutte le cosiddette architetture dei palazzi condominiali: scatoli e scatoloni con balconi raramente usati, incapaci di cogliere i semi positivi di Le Corbusier nella Unité.

Frattanto la speculazione edilizia già da anni aveva messo le sue lunghe e avide mani sul territorio tutto, e cineasti come Rosi e scrittori come Calvino accusandola la divulgavano al mondo, in gran parte consenziente. Era ormai in atto l’obbedienza alla legge del mercato, un processo inarrestabile che ha approdato ad un oggi in cui tutto è merce, anche gli esseri umani. Ed è un’accusa questa contro l’operare architettonico che continuerà a ribadire, aspettando forse che con tale stimolo ripetutamente reiterato, alla cecità si sostituisca finalmente il saper vedere.

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1987, con Palma Bucarelli, G. C. Argan e F. Menna (Archivio Pietro Consagra)

Con analoga veemenza sin dal 1945, con il suo memorabile libro Saper vedere, l’architettura provoca e sollecita Zevi, la cui carta del Machu Picciu, votata il 12 settembre 1977, è un autentico Manifesto del come intervenire in modo responsabile e creativo nel paesaggio tutto. Appena un anno prima Consagra, nel sintetizzare la genesi e le dinamiche storiche della tridimensionalità, sottolineava il tradimento della sua antica positiva applicazione da parte di un «razionalismo che avendo mediato il minimo spazio con la massima efficienza, con la perdita della bellezza come fine ultimo, l’incapacità di creare magia, la mancanza di immaginazione senza la quale non c’è invenzione». E all’alba del nuovo decennio chiarisce ancora: «La razionalità rifiuta le mie immagini… accuso quindi gli architetti di avere trascurato l’individuo che guarda, a favore dell’individuo che usa l’edificio. Ho sentito involutivo il funzionalismo economico, strutturale, politico dell’architettura da cui si può uscire solo con il richiamo all’arte delle immagini. Penso sia il momento che gli artisti vengano coinvolti per salvare la città dall’abbrutimento».

Ora, se Zevi da architetto, non solo era mal digerito dalle accademie universitarie ma anche dalla prevalenza degli architetti operanti nella progettazione, pur le une e gli altri riconoscendone il grande talento internazionalmente riconosciuto, ancor più questo avveniva nei confronti di un artista che si scagliava contro il fare degli architetti, quando si pensi a come la formazione universitaria li forgiava da studenti, rendendo valore la separazione tra le diverse discipline, nonostante a parole se ne invocava il confronto, e quindi coartando la visione olistica e la fecondità di un confronto fra artisti (arte astratta) e architetti. Lo pensava possibile nel 1956 Consagra, vedendo che l’architettura «iniziava a muoversi verso» la sua umanizzazione. Ma, ma man mano, nel percorrere i cambiamenti del mondo e osservandoli con l’attenzione che lo contraddistingueva, questa fiducia inizierà a venir meno scomparendo del tutto nell’ultimo scorcio degli anni Ottanta. Scrive nel 1988: «Addio architetto, addio architetto sensibile, libero pensatore, umanista, interessato alle vicende della cultura e dell’arte. Malevic era stato profeta quando volle fuggire in una traiettoria cosmica con i suoi ‘planiti’. Il suo suprematismo era una postazione di lancio contro l’edificazione utilitaristica della città, ma gli architetti non ne sono stati influenzati. Il condizionamento è stato più forte del senso».

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Inchiostro su carta. Primo progetto per il Teatro di Gibellina (Una immagine), 1972, inchiostro su carta filigranata “Extra Strong”, 22 x 27,8 cm. Collezione privata, Milano

Tranne positivi ma rari fuochi accesi nel mondo, l’architettura è cieca di fronte alla sua crisi e l’Italia, nonostante l’apparente benessere, già da tempo cova i germi di un malessere profondo rifiutato dai più, segnato da corruzione e distacco tra architettura e società. Si accrescerà negli anni Novanta e chi sa e vuole vedere percepirà l’angoscia inquietante di un mondo, che, prendendo a prestito Shakespeare, percepirà a dir poco «malamente intessuto, fugace in tutte le sue cose come le nuvole del cielo».

Ma Consagra sa e vuole vedere. Sufficienti per questo le sue accorate, incisive, spesso taglienti, riflessioni in pagine memorabili, a volte plasmate dall’ansia e dalla tristezza nei confronti di tanti che privi del dubbio perdono anche la capacità di auto-critica; non solo non vedono ma non si sanno vedere, incidendo così negativamente sull’autentica fioritura della vita. Tra essi, la maggior parte degli architetti, dirà nel 1993,

«artisti in passato in prima linea nell’edificare segnali del mondo civile da rendere visibili tra regole e invenzioni, impegnati nel capolavoro… quando tra le tendenze estetiche si verificò la travolgente proposta del Costruttivismo e del funzionalismo, l’avanguardia degli architetti si è svincolata da quell’attenzione al colloquio considerandolo superfluo, adescamento, piaggeria. Ma ciò diventò col tempo una trappola, una gabbia senza possibilità di uscita: un isolamento letale nella ripetitività di un unico gesto perenne…. Il colloquio simbolico è stato fatto fuori. Si costruisce uno stadio o un teatro con lo stesso indirizzo mentale. Se gli architetti facessero uno sciopero contro se stessi noi saremmo con loro. Con gli artisti mai più, architetti mai più».

Tre anni prima, il 30 giugno 1990, una critica dura, a mio parere giustificata, sul cubo di Aldo Rossi (Pritzker dell’architettura; incredibilmente a parere di Consagra, di Zevi e pochi altri tra i quali anch’io) dedicato a Sandro Pertini nel centro di Milano: «Gregotti scrive di estraneità dalla pratica artistica dell’architettura, Paolo Portoghesi lo difende, un’opera che certamente non andrà in cantina» e quindi come tutto ciò che si costruisce «diverrà città a dispetto del bello e del brutto. Gli architetti perciò ci fanno paura. Noi artisti almeno passiamo attraverso critici, galleristi, mostre, collezionisti, aste, musei, sotterranei, stanchezze, crisi, dimenticatoi». Gregotti, già dal suo Territorio dell’architettura del 1967 oggetto quasi di culto dentro e fuori l’Università «quando parla d’arte non si capisce cosa vuol dire».

Ma la provocazione dell’artista già di lunga durata nei confronti degli architetti non cessa.

L’ottobre successivo, annota che Manhattan vive una nuova era, avviandosi a innalzare ovunque un grattacielo, esplicitandone la natura invisibile e visibile, economica e spaziale: «…Superbo paladino del potere economico, gli si sono accostati nuovi grattacieli che con altri accostati formano immense muraglie. Fare parte della muraglia significa partecipare di un valore aggiunto che si è rilevato il più consistente tesoro di New York. La muraglia si configura come la più potente alleanza economica…. Da noi i centri storici stanno rannicchiati nel terrore degli assalti. Troppi occhi si aprono con cupidigia».

Decisamente contro l’architettura dunque, Consagra, perché «non ignora, accetta il potere… Si fa apprezzare nel mercato delle prestazioni come un prodotto pacifico che opera in modo chiaro una collaborazione idilliaca, una guida illuminata. …. Per l’architetto non ha senso la crisi. Quanto più si inserisce nel potere tanto più si sentirà riuscito e utile».

Il motivo di questo suo essere contro? Voleva che gli architetti e l’architettura ritornassero ad essere umani. Nell’apprezzare epoche in cui l’architettura aveva espresso la bellezza arricchendo territori, luoghi, città – sin dalla preistoria – dal tardo antico e dal Medioevo quando il progettare non era né massificato, né asservito al potere, la sua accusa feroce al funzionalismo razionalista e all’intero apparato delle convenzioni e delle abitudini, a qualsiasi scatola ideologica e architettonica, coercitivi tutti della libertà, non si rivolgeva ai grandi creativi del movimento moderno, e meno che mai agli espressionisti, la cui tensione espressiva è da Consagra condivisa, ma piuttosto alla peste dell’International Style seguita poi dal saccheggio futile della storia da parte del postmodern.

02_03_2010_inivitoconsagra-carta-di-materaOstile alle accademie e alle false estetiche del bello ideale, il decennio antecedente agli Ottanta lo trova impegnato a Matera, tra giugno e settembre. Vi espone lungo un percorso che dai Sassi raggiungeva l’altipiano affacciato sull’abitato – il Murgico –: undici sculture in lamierino saldato e dipinto differenziati ciascuno dalla diversità del colore ­ marrone chiaro e scuro, grigio chiaro, rosa scuro. Sono i Ferri Bifrontali. Con basi a sostegno ampie e piatte, una orchestrazione di forme diverse alternanti il rettilineo e il sinuoso, il concavo e il convesso, la mostra dell’artista si lega alla nota Carta di Matera, promossa da artisti creativamente tra i più vivaci e impegnati, dallo stesso Consagra a Cascella, Bonalumi, Dadamaino, Dorazio, Rotella, Turcato e molti altri: il cosiddetto “Fronte dell’Arte” a difesa dei Sassi dall’assalto della speculazione.

I Ferri, possedendo due facce identicamente fruibili, rientrano nel gruppo di sculture attraverso cui Consagra esplora, sperimenta, verifica e studia lungo l’intero arco della sua attività la bifrontalità – doppia e identica visione su entrambi i lati –, con la precisa volontà di eliminare la tridimensionalità, negando in tal modo la classicità di una lunga tradizione. Innovava in tal modo senza mai cedere alla cristallizzazione di un concetto o di una forma. Era un andare sempre avanti, in modo inarrestabile; un bisogno che chi entra nelle pagine di Vita mia lo percepirà come genetico. E lungo le dinamiche di questo processo i materiali e il colore sono anch’essi costruttori di arte.

«Li scelgo tutti diversi», dirà dei primi, per il desiderio di trasferire le immagini da un’apparenza all’altra. «Diversificate le sento più vicine a ciò che non esiste». Anche questo è istanza di coinvolgimento, di colloquio.

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Ghibli Città Frontale. Facciata rosa nove finestre, 1995, legno dipinto, elementi tagliati, assemblati e dipinti a pennello e aerografo, 170 x 146 x 14,5 cm. Collezione privata, Milano

Allo stesso modo, diversi anche i colori, e mai quelli puri della prima avanguardia del Novecento: i rossi, i senape, i salmone, i neri, il beige, i marrone, e sempre intensi, detonanti nello spazio e allo sguardo, quando definisce le sue sculture con la vernice; ma sono anche i colori naturati nei materiali, come avviene con i marmi. Un magnifico artigiano della scultura questo singolare e innovativo artista che già nei nascenti anni Cinquanta aveva chiaro il voler dimostrare come la scultura fosse una lingua necessaria, e quindi per lei impossibile quella morte che a parere di Arturo Martini era già in atto.

Avviandomi a questo punto alla conclusione, una breve riflessione su Consagra e la Sicilia. In tempi diversi, la incrocia in momenti particolarmente significativi. Quattro volte, con tre città – Mazara, Palermo, Gibellina – e con un territorio Castel di Tusa – aperto alla grande dimensione del paesaggio; e questa terra, un tempo lontano determinante crocevia culturale e commerciale, è dai suoi interventi luogo in cui l’ambiente viene profondamente mutato, determinandosi con le sue opere una relazione nuova tra oggetto, spazio, persone, società.

La prima è quella in cui nasce, da dove si distacca ancora ragazzo e dove più volte torna ormai apprezzato dovunque nel mondo, e alla quale vuole lasciare la sua indelebile impronta con un’opera ancor più provocatoria nei confronti dell’architettura: una facciata nuova per Piazza della Repubblica, cuore storico dell’insediamento.

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Progetto di Facciata per il Palazzo Comunale di Mazara del Vallo. Ultima versione, 2002, legno dipinto, tavole tagliate, incollate e dipinte, 32,6 x 48,5 x 2 cm e base 1 x 46 x 1 cm. Collezione privata, Milano

L’intervento di Consagra ripropone concettualmente quanto fatto da Leon Battista Alberti in una importante chiesa di Roma, ma ne accresce ulteriormente la provocazione. Nega la precedente sovrapponendole la sua. Una stesura di finestre di marmo in rilevato tutte diverse. Le colonne tortili che la sostengono riattualizzano un elemento architettonico di antica tradizione, che dal decimo secolo, – tempio di Salomone – passano al romanico, poi a Giulio Romano – palazzo Te – approdando nel Seicento nel baldacchino di San Pietro di Bernini e nella chiesa di santa Maria della Misericordia di Lisbona firmata da Guarini, e infine, scomparse per tre secoli, riprese da un artista. Le finestre rinnegano la tipologia prettamente architettonica di genesi antica, con rimando palese al grande Gaudì, unico tra gli architetti della nascente modernità a porsi il problema. La Soprintendenza ai Beni Culturali di Trapani dà parere negativo e, a distanza di decenni, nel 2003, Consagra ripresenta senza successo un secondo progetto rielaborato.

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Palermo, 1973, mostra al Palazzo dei Normanni (Archivio Pietro Consagra)

La seconda città è Palermo, dove frequenta il liceo artistico e dove nel 1973, dopo il tema dell’attraversamento sperimentato alla Biennale di Venezia l’anno precedente, il cui obbiettivo era il coinvolgimento in modo diverso dello spettatore, nel Palazzo dei Normanni il tema della frontalità viene declinato creando, con grandi e articolate sculture in marmo, una dissonante ma felice contraddizione tra solidità – del materiale – e smaterializzazione-visione.

Gibellina nuova è la terza, che il sindaco Ludovico Corrao aspira a far divenire una capitale, capace di manifestare alla cultura internazionale come una città nuova debba essere una miscela indissolubile di arte e architettura. Nascono tre progetti di Consagra: due nel 1972, a guisa di grande porta l’una – la Stella in acciaio alta 28 metri – che introduce nell’urbano, un Teatro Trasparente, l’altro, di forte carattere innovativo avendo un palcoscenico bi frontale e due opposte platee che consentono agli spettatori di osservarsi. Dopo poco più di un decennio, nel 1983, il Meeting, «edificio frontale in muratura, ferro e vetro, derivante anch’esso da un progetto del 1972 che, nel profilo a curva continua, palesa la sua struttura portante e all’interno, al posto delle scale, ha dei camminamenti inclinati» (Biografia Archivio Consagra).

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Porta del Cremlino n. 11, 1990, legno dipinto, lastre tagliate, incollate e dipinte, 40,5 x 65,5 x 11,8 cm e base 3 x 74,5 x 21,7 cm. Collezione privata, Milano

Castel di Tusa infine, nel cui libero paesaggio aperto all’orizzonte, Consagra, realizza la prima opera del parco ideato da Antonio Presti in memoria del padre: una grande scultura bifrontale che guarda la polifonia variegata della natura, ancora splendida perché non raggiunta dalla mano prevalentemente devastatrice di umani incolti e asserviti al potere.

Concludo infine con una testimonianza diretta costruita da alcuni momenti-eventi che mi sono particolarmente cari, avendomi donato con la conoscenza diretta e viva di Pietro Consagra anche la sua amicizia, quella vera, autentica che avviene con il ri-conoscimento reciproco. Mi soffermo su due.

Il primo mi riporta da Carmela, la sorella di Pietro, nella casa di Palermo, uno spazio frugale e familiare, dove si stava bene. Carmela trafficava in cucina per cucinare il riso, mentre io e Pietro parlavamo tra domande, le mie, e risposte, le sue. Ogni tanto sonnecchiava con il suo solito cappellino floscio in testa. Carmela ascoltava, e ad un certo punto, mi viene e mi dà in mano un piccolo libro sdrucito. «Leggilo» mi dice. È Vita mia e mi ci infilo dentro per la prima volta, curiosa di sapere. Non mi emoziono soltanto, piango anche. Pietro dorme e quello in cui “entro” è struggente e forte, potente come un pugno nello stomaco, come quando mente e mano scorrono tra parole che ti tolgono il fiato o ti trovi sempre in silenzio con qualche capolavoro di Raffaello o di Michelangelo. E mi sembra questo grande artista di conoscerlo da sempre.

Il secondo momento è nella sua officina-casa a Roma, se non ricordo male lungo la Flaminia. Mi fa vedere il suo lavoro, soffermandosi a lungo sul ‘come’, una banale parolina per molti, importantissima, invece. Frugale e aperta ai possibili, come il non finito. Poi, un piccolo pasto anch’esso di riso come la prima volta e lì, mentre mangiamo con il sole che filtra da grandi e alte vetrate, mi accorgo che Pietro “fa con le labbra il cucchiaino”, come direbbero le madri quando i loro piccoli accennano al pianto. Si accorge che lo guardo, e mi dice: «Mi commuovo di me».

Ecco la sua bella e rara autenticità. Un dono meraviglioso. Gli appartiene e me lo dona.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti bibliografici
Giovanni Maria Accame, Gabriella Di Milia, a cura di, Pietro Consagra Scultura e architettura, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1996
Archivio Consagra, pietroconsagra.org; foto opere di Pietro Consagra (per gentile concessione della professoressa Gabriella Di Milia, direttrice dell’Archivio).
Pietro Consagra, Vita mia (1980, Feltrinelli), Skira editore, Milano 2017
Pietro Consagra, Architetti mai più, Pearo editore, Milano 1993
Anna Imponente, Rosella Siligato, a cura di, Pietro Consagra, Arnoldo Mondadori, Milano 1989
Bruno Zevi, Cronache di Architettura, Laterza, Bari-Roma 1971-1973, vol. 6: 545-547; vol. 13: 209-211; vol. 14: 283.

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Antonietta Iolanda Lima, architetto e professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo, ha insegnato conoscenza e rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nei decenni 60-70 anche l’elaborazione progettuale, poi lasciata, seppur con dolore, dando priorità alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura, promotrice di numerose mostre ed eventi, autrice di saggi, volumi e curatele, tra i quali meritano di essere ricordati: L’Orto Botanico di Palermo: intreccio tra mondo vegetale e mondo architettonico, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio,1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. contemporanea Monacelli Press, New York, – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri. La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (ital./inglese); Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.

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