di Giovanni Gugg
Nel cuore di Sorrento, tra il vociare dei turisti e le vetrine eleganti del corso, la statua di Sant’Antonino Abate domina silenziosa la piazza centrale. Da secoli il santo protegge la città, la guida spiritualmente, ne incarna la memoria più profonda. Ma oggi quella statua sembra aver cambiato espressione. In una immagine che circola rapidamente sui telefoni, nei gruppi WhatsApp, sulle bacheche social dei sorrentini, il volto di Sant’Antonino appare coperto dalle mani. Come un uomo sopraffatto dalla vergogna o dal dolore, come un padre che non riesce a guardare ciò che i suoi figli hanno fatto.
Quella che potrebbe sembrare una semplice manipolazione digitale – una manipolazione ironica, provocatoria o dissacrante dell’intelligenza artificiale – è in realtà qualcosa di più: è un’immagine-simbolo, un’espressione rituale collettiva, una forma di rielaborazione culturale del trauma civico che ha colpito la città. L’arresto del sindaco in carica, Massimo Coppola, colto in flagranza di reato per corruzione nella sera del 20 maggio 2025, ha travolto non solo la politica cittadina ma anche il senso morale condiviso, lasciando spazio a un sentimento diffuso di incredulità, disorientamento e scuorno.
E ciò accade proprio nell’anno in cui Sorrento celebra il 1400° anniversario della morte del suo santo patrono, avvenuta il 14 febbraio dell’anno 625, dopo una vita in cui, secondo la tradizione, salvò la città da carestie, tempeste e invasioni. Un anno straordinario, ricco di eventi liturgici, rievocazioni storiche, mostre e pubblicazioni, pensato per rinnovare il legame spirituale e culturale tra il popolo e il suo protettore. In questo clima di solennità e memoria, l’irruzione della cronaca giudiziaria si fa ancora più dolorosa, quasi blasfema. E così, proprio in risposta a questo strappo, emerge un’immagine digitale, diventata virale in poche ore: la statua di Sant’Antonino con le mani sul volto. L’immagine, di cui non conosco l’autore, nasce come meme, cioè come una creazione visuale condivisa e trasformabile, spesso ironica, destinata a circolare sui social network come forma di commento collettivo e immediato. Ma in questo caso, il meme non serve solo a sdrammatizzare. Al contrario: strappa forse un sorriso, ma poi lascia un silenzio più profondo. L’ironia cede il passo alla malinconia, la risata si incrina. Il gesto del santo che si copre il volto diventa allora non solo un atto di dolore, ma una forma estrema e struggente di identificazione collettiva. È il santo che si vergogna con noi. È la città che, per un attimo, si guarda allo specchio e si copre il volto.
Ricordo un mio viaggio nella Polonia sud-orientale di una quindicina di anni fa, durante il quale visitai il Museo Etnografico di Rzeszów. In una delle sue sale più sobrie, mi colpì profondamente una piccola statua lignea, scolpita in modo semplice eppure potentissimo: il Chrystus Frasobliwy, “Cristo Pensieroso” (o “Addolorato”). Seduto su una roccia, con il gomito appoggiato al ginocchio e il volto sostenuto dalla mano, Gesù appare assorto, dolente, quasi scoraggiato. Lo sguardo è basso, distante, perso nella contemplazione del dolore umano.
Questa figura appartiene al cattolicesimo popolare slavo, e in particolare alla tradizione contadina della Polonia. È una delle immagini religiose più diffuse nei villaggi e lungo le strade rurali, spesso scolpita da artisti anonimi e collocata in piccole edicole lignee accanto ai campi, ai crocevia o alle case. Non rappresenta il Cristo glorioso o il giudice escatologico, ma il Cristo vicino, che condivide la sofferenza, che riflette sul male, sull’ingiustizia, sull’impotenza e sulla solitudine degli uomini.
Iconograficamente, il Pensive Christ (nome con cui è noto anche in ambito internazionale) si diffonde tra XIV e XV secolo nell’Europa centrale, con esemplari attestati in Slesia, Boemia, Moravia e Germania orientale, fino a diventare una figura ricorrente nell’arte sacra vernacolare. Una delle versioni più note è il Cristo Pensieroso di Seeberg, oggi conservato nel museo del castello di Ostroh (Repubblica Ceca), testimonianza della diffusione di questa immagine in tutto l’ambito slavo-germanico. In alcuni casi, la figura è rappresentata con una corona di spine, in altri con un bastone e un cappello da pellegrino, segno del suo camminare accanto agli uomini.
Secondo alcune letture folkloriche e teologiche (Vykoukal 2009: 192-193), il Chrystus Frasobliwy rappresenta Gesù nel momento che precede la Crocifissione, immerso in una meditazione dolorosa sulla Passione imminente. In altre interpretazioni, come emerge dalla commovente poesia “Chrystus Frasobliwy” di Maria Majchrzak, pubblicata nel 1992 sulla rivista etnografica polacca «Twórczość Ludowa» (Creatività Popolare), la figura assume i tratti di un Cristo pellegrino e contadino, che cammina tra le messi, si mescola alla terra e ai suoi lavoratori, e partecipa alla sofferenza degli ultimi:
«[…] Idzie Jezus poprzez łany, / poprzez pola mazowieckie, / wspomniał sobie swój Nazaret, / gdy był z matką, gdy był dzieckiem. […] Utrudzony siadł Zbawiciel / przy rozdrożu na kamieniu. / Świętą głowę wsparł rękami, / serce szarpie ból straszliwy, / tak pozostał na rozstaju: / Sam Pan Jezus Frasobliwy […]»
(«Gesù cammina tra le messi, / attraverso i campi della Masovia, / ricorda la sua Nazaret, / quando era con la madre, quando era bambino. […] Sfinito si siede il Salvatore / a un bivio, su una pietra. / Appoggia il capo santo alle mani, / il cuore lacerato da un dolore terribile: / e così rimane, al crocevia: / il Signore Gesù, Pensieroso»).
Nel villaggio polacco di Koziegłowy esiste persino un museo interamente dedicato a questa figura (Muzeum Chrystusa Frasobliwego), segno della sua importanza simbolica, in cui il Christus im Elend (“Cristo in difficoltà”, in tedesco) è una delle rare raffigurazioni in cui la divinità appare non solo sofferente, ma anche umanamente pensierosa e preoccupata, quasi fragile, vulnerabile, vicina.
Quella figura contadina del Cristo mi è tornata alla mente quando, dopo l’arresto del sindaco di Sorrento, mi è arrivata da più parti l’elaborazione grafica della statua di Sant’Antonino in piazza Tasso: il santo appariva con le mani sul volto, in un gesto di sconforto profondo, come se non potesse più guardare, anzi come se si vergognasse con noi. È certamente un meme come tanti sul web, nati per commentare un fatto con leggerezza, ma in questo caso l’ironia si è incrinata quasi subito e il sorriso si è trasformato in malinconia. Perché quella rappresentazione grafica non è solo satira né solo provocazione, ma un gesto rituale spontaneo, un modo per dire, collettivamente, ciò che le parole non riescono a esprimere. È un’immagine che si è caricata di senso via via che è stata condivisa, commentata, guardata, traslandosi poi in una icona di un dolore pubblico.
Mi sembra che il Sant’Antonino che si copre il volto a Sorrento, seppur in chiave del tutto locale e meridionale, si iscriva pienamente in quell’iconografia della compassione e della partecipazione al dolore collettivo. La statua non benedice, non salva, non protegge: è ferma, bloccata dal disonore che ha investito la città. Non guarda più, ma non perché si sia allontanata dal popolo, bensì perché condivide fino in fondo il peso del fallimento etico. È un santo disarmato, spogliato del suo potere simbolico, esattamente come il Cristo pensieroso, povero e nudo, scolpito nei villaggi contadini dei boschi e le valli dell’Europa slava e centro-orientale, tra Slesia e Galizia.
L’immagine manipolata di Sant’Antonino non è solo una reazione popolare all’ennesimo scandalo: è un’icona potente della crisi di senso. È scuorno che diventa preghiera muta, teatro urbano, antropologia visiva del lutto morale. È il modo in cui una comunità rielabora la vergogna, ridando voce – per immagini – al proprio disorientamento. Ma accanto al primo meme se ne è diffuso un secondo, elaborato dal videomaker Lino Esposito, che ha ulteriormente rafforzato la narrazione collettiva di un dolore civico tanto localizzato quanto universalizzabile. In questa nuova immagine – generata con intelligenza artificiale e caratterizzata da un’estetica che richiama l’animazione Disney-Pixar – vediamo Sant’Antonino seduto accanto a una sirena piangente.
È una composizione intensa e malinconica, che mescola spiritualità e mito. La sirena, infatti, è un chiaro riferimento alla figura mitologica da cui – secondo la leggenda – la città di Sorrento avrebbe preso nome. Non a caso, il territorio è conosciuto sin dall’antichità come “Terra delle sirene”, o “Siren Land”, per riprendere il titolo del celebre libro pubblicato nel 1911 dallo scrittore scozzese Norman Douglas.
In questa scena digitale, la sirena non incanta ma soffre; il santo non protegge ma condivide il dolore. Entrambi siedono, silenziosi, in un paesaggio interiore dove il mito si piega alla realtà e la vergogna diventa dolore condiviso. La scena è struggente: Sant’Antonino, con aureola e bastone, accarezza con delicatezza la creatura marina, che piange, seduta su uno scoglio, alle spalle della città. I colori caldi del tramonto rendono l’amarezza ancora più dolce e triste. È come se la sirena rappresentasse la Sorrento tradita, malinconica, incapace di cantare. E il santo, ancora una volta, non salva, non protegge, non interviene, ma consola, partecipa e resta.
L’immagine – proprio come quella della statua con le mani sul volto – è nata per essere condivisa, pensata per i feed dei social, in un registro inizialmente giocoso o ironico. Eppure, nel giro di poche ore, ha abbandonato ogni leggerezza per assumere i tratti di una dolcezza tragica. Ciò che affiora in profondità, infatti, non è più lo scherzo, ma un bisogno urgente e collettivo: ritrovare simboli, dare forma visibile a un sentimento altrimenti ineffabile, rendere condivisibile ciò che ferisce nel silenzio.
L’immagine del santo e la sirena è, a suo modo, una “pietà laica digitale” che, come ogni pietà, non redime, ma accompagna il dolore, lo rende dicibile e lo espone al giudizio e alla compassione degli altri. Si tratta di un gesto simbolico potente, nato per i social network ma rapidamente trasceso dalla dimensione ludica: un meme che ha perso l’ironia per assumere i tratti di un iconogramma civile, un’immagine di lutto morale e affettivo condiviso.
È un esempio emblematico di come l’antropologia visiva contemporanea – come indicano studiosi internazionali (Shifman 2013) e italiani – debba oggi includere anche i meme, le immagini AI, le reinterpretazioni affettive del sacro, come strumenti simbolici capaci di attraversare crisi, scandali e ferite civiche. In questa prospettiva, si può leggere anche l’analisi condotta da Giovanni Fiorentino durante la pandemia di Covid-19, quando descrive un’immersione deliberata nell’«arcipelago visivo» dei social media per ascoltare le immagini digitali, inseguendo quei frammenti – fotografie, meme, ibridi – che «si rinfrangono plenotticamente, scandendo il marzo globalizzato» e si addensano nell’immaginario collettivo, «nel rimosso e nel riconoscibile» (Fiorentino 2021: 40).
Queste immagini – mobili, metamorfiche, virali – sopravvivono e trascendono il medium, ci parlano anche quando sembrano nate per lo scorrimento distratto, ci colpiscono nel profondo quando attivano un’emozione pubblica. È in questo cortocircuito tra locale e globale, tra sacro e digitale, tra scuorno e icona, che si gioca oggi una parte importante della costruzione visuale del dolore civico. A Sorrento, in questa primavera stanca e dolente, tutto ciò ha preso la forma silenziosa di un santo che non guarda più, e di una sirena che piange accanto a lui. Entrambi generati da intelligenza artificiale, eppure profondamente umani.
La parola napoletana “scuorno”, come tutte le grandi parole dialettali, non ha un equivalente esatto in italiano. “Vergogna” ne traduce solo una parte, forse la più superficiale. Ma scuorno è qualcosa di più: è uno stato d’animo stratificato, che comprende vergogna, pudore, frustrazione, umiliazione e senso di impotenza, ma anche qualcosa di profondamente collettivo, che si propaga per prossimità come un dolore morale condiviso. È un sentimento che non si esaurisce nella sfera psicologica individuale, ma si radica nella relazione sociale e affettiva, nello sguardo dell’altro che ci riconosce e, riconoscendoci, ci giudica. Non si prova scuorno da soli: lo scuorno si sente quando si è parte di un contesto, di una comunità, di una rete di appartenenze che viene improvvisamente esposta, tradita, messa in discussione.
In napoletano, scuorno è spesso accompagnato da un gesto del volto, uno sguardo abbassato, un silenzio denso. È uno di quei sentimenti che, più che dirsi, si incarnano nei corpi e nei comportamenti quotidiani. Ed è proprio questa corporeità silenziosa ad aver trovato una sintesi simbolica nell’immagine – diventata virale – della statua di Sant’Antonino con le mani sul volto. Quella scena dice l’indicibile: un santo che, invece di proteggere e benedire, condivide il disonore e si ritrae come farebbe un padre deluso, un nonno umiliato.
Il termine ha ricevuto attenzione anche a livello nazionale grazie al libro di Francesco Durante, Scuorno (vergogna), uscito nel 2010, che ne esplora il valore come categoria dell’anima del Sud. Nelle sue pagine, lo scuorno è inteso non come difetto ma come spia sensibile di un’etica condivisa, un sentimento che ci avverte quando qualcosa ha violato il codice dell’onore comunitario. Non è un caso che Durante evochi lo scuorno non solo di chi commette un errore, ma anche – e soprattutto – di chi lo subisce di riflesso, per contiguità, per affetto, per appartenenza. Come accade in una famiglia o in un paese: quando uno cade, ci si vergogna tutti.
Nell’esperienza dei campani, si è provato qualcosa del genere in uno dei momenti più strani e tragici della storia regionale recente: la crisi dei rifiuti del 2008, quando, sebbene non ci fossero vittime dirette e non c’era sangue, tutti sentirono quella congiuntura come una tragedia simbolica, perché fu capace di abbattere il morale collettivo. Era uno scuorno che non nasceva solo dalla sporcizia per strada, ma dall’essere stati messi in cattiva luce davanti al mondo intero, come incapaci, come colpevoli di qualcosa che non si riusciva nemmeno a nominare. La vergogna, in quei giorni, era visibile negli sguardi, nelle conversazioni trattenute, nella difficoltà a spiegare cosa stesse succedendo. Proprio come ora.
Nel caso dello scandalo giudiziario di Sorrento, quindi, scuorno diventa la parola giusta per nominare un dolore civico profondo, che non è rabbia né solo delusione, ma un sentimento di disonore condiviso, che si propaga dal gesto illecito di un singolo all’intera comunità. È la sensazione di essere stati traditi, ma anche di aver fallito come collettività e come città. È un’emozione densa e muta, che chiede silenzio più che spiegazioni, pudore più che analisi. E per questo – come il santo – ci si copre il volto.
Questa dinamica si lega a una struttura di sentimenti che affonda le sue radici nella cultura mediterranea, dove – tramite simboli come la Madonna Addolorata e il Cristo Flagellato, i santi martiri e quelli dolenti – il dolore condiviso è spesso il primo passo verso la rielaborazione comunitaria della crisi. Gli studi classici sull’onore e la vergogna – da Julian Pitt-Rivers (1966) a Michael Herzfeld (1985), da David Gilmore (1987) a Zeba Crook (2009) – hanno mostrato come, in molte società dell’Europa meridionale, la faccia pubblica dell’individuo sia inseparabile da quella del gruppo di appartenenza. L’onore non è una qualità interiore, ma una reputazione pubblica, continuamente negoziata e riflessa nello sguardo dell’altro. E la vergogna – o più precisamente, nel caso napoletano, lo scuorno – rappresenta il rovescio di questa costruzione: è la rottura del patto simbolico, il venir meno della dignità visibile, l’esposizione di una colpa che ricade non solo sul singolo, ma sull’intera collettività.
Come osserva Andrea Mubi Brighenti (2008), «l’onore collettivo diviene più visibile nelle situazioni di forte interdipendenza sociale, in cui il comportamento disonorevole di un membro del gruppo si riverbera su – ed eventualmente compromette – l’onore di tutti gli altri membri» (ivi: 38). In questi contesti, caratterizzati da dimensioni ristrette e densa interconnessione sociale, si rafforzano legami fondati su fedeltà, conformismo e tradizione, e ogni frattura diventa una ferita condivisa. Lo scuorno, dunque, non è solo un’emozione, ma un sintomo relazionale: si manifesta quando un evento – come l’arresto del sindaco – infrange un codice comune, mettendo in imbarazzo l’intero corpo sociale, che si ritrae per pudore, si interroga, si giudica.
Lo scuorno ha anche una funzione sociale, perché ricorda i confini morali della comunità, segnala quando è stato oltrepassato un limite, richiama a un ordine condiviso che non è quello della legge scritta, ma quello della decenza, del rispetto, della dignità. Ecco perché è una categoria che sfugge al diritto, ma non alla cultura. L’arresto di un sindaco, in quanto figura pubblica e rappresentativa, non è solo un fatto penale, ma una lesione del patto simbolico tra governanti e governati. E lo scuorno è la spia culturale di quella rottura.
Nel corso della storia, le statue dei santi – ma anche i monumenti dedicati ad altre personalità politico-culturali – non sono mai state solo oggetti d’arte o elementi ornamentali (Candau 2002), perché spesso, come nel Sud Italia, esse hanno anche una funzione rituale e rappresentativa: sono presenze agenti, figure che vegliano, segni della protezione divina, ma anche specchi emotivi della collettività. Quando si snoda la processione di un santo, non lo si sposta soltanto fisicamente, ma si mobilita un’identità collettiva, dacché si attiva un sistema simbolico che definisce i confini del “noi”. Per questo motivo, l’immagine digitalmente alterata di Sant’Antonino va letta come molto più di una provocazione: è un atto di riformulazione iconografica, una reinterpretazione popolare e spontanea del potere delle immagini sacre, capace di restituire al santo una nuova forma di presenza e vicinanza.
L’iconografia classica raffigura Sant’Antonino come un abate benedicente, con pastorale e piviale, spesso in atto protettivo o miracoloso. La statua che si erge al centro di Piazza Tasso, snodo simbolico e urbanistico della città, è uno dei segni più riconoscibili dell’identità sorrentina. Realizzata in stile neoclassico, ha attraversato il tempo come presidio silenzioso della fede e della memoria collettiva. Di recente, però, questa statua è stata anche oggetto di restauro fisico, come nel 2014, quando è stata ripulita e consolidata nell’ambito di un primo intervento e, ancora, nel dicembre 2024, quando è stata nuovamente restaurata grazie al finanziamento di Federalberghi Penisola Sorrentina: un atto pubblico e collettivo di cura della memoria e della sacralità urbana, inserito nel contesto del 1400° anniversario della morte del santo patrono. Ma quest’anno, nel marzo 2025, è stata restaurata anche la seconda grande statua di Sant’Antonino, posta in un’altra piazza della città, quella tra la Basilica a lui dedicata e il Municipio, in un luogo liminale tra sacro e civico. Anche in questo caso, la statua è stata solennemente benedetta e restituita al popolo, in una cerimonia che ha riattivato il legame tra la cittadinanza e la sua figura protettiva. Due restauri, due ritorni alla luce, due riti pubblici di rinnovamento dell’icona urbana. Ma proprio ora che le statue sono più splendenti che mai, la città si scopre moralmente ferita, come se l’involucro simbolico fosse stato restaurato mentre il contenuto civico cedeva sotto i colpi della cronaca.
In questa prospettiva, l’immagine della statua di Sant’Antonino con le mani sul volto si carica di un valore simbolico profondo: non è solo un gesto di dolore, ma un modo per esprimere la fragilità collettiva in un momento di crisi morale. Il santo non appare più come un’autoritas distante, ma come una figura empatica, capace di farsi carico del disagio civile, della delusione diffusa, del sentimento di sconfitta che aleggia tra i cittadini. Il suo gesto, mutuato dal linguaggio corporeo della vergogna, ci interroga sulla natura stessa della responsabilità pubblica, suggerendo che anche i simboli possono soffrire, tacere ed esitare. Lo scuorno, pertanto, non è semplicemente la reazione a un reato, ma diventa una modalità emotiva attraverso cui una comunità prende coscienza della propria vulnerabilità e cerca di ricostruire un senso condiviso. Come ricorda Francesco Durante, la vergogna è anche una richiesta di giustizia: non soltanto punizione, ma riparazione, riconoscimento e restituzione. E in questa città ferita, dove le statue sacre nello spazio pubblico sono state appena restaurate ma la fiducia pubblica vacilla, le parole continuano a circolare, le immagini si trasformano, e il dolore collettivo diventa materia viva di una possibile rigenerazione etica.
Ogni città ha i suoi traumi, ma ogni città ha anche le sue risorse per affrontarli. Il tempo, però, è breve e, con il passare dei mesi, riemergeranno inevitabilmente le logiche di potere e di interesse: le reti di amicizie, i favori, le alleanze silenziose che strutturano da sempre il tessuto informale del potere locale cercheranno nuovi spazi e strategie per tornare a governare. Per questo, se un’alternativa vuole davvero nascere, deve farlo adesso, in questo spazio ancora aperto della crisi, prima che tutto si richiuda secondo dinamiche già note. L’occasione è fragile, ma reale: la consapevolezza prodotta dallo scuorno può diventare il seme di un’etica pubblica rinnovata, se accompagnata da scelte coraggiose, da volti nuovi, da pratiche diverse.
Tuttavia, non basta cambiare i nomi, perché è necessario ripensare i contenuti e i metodi. Un conto è il “chi”, ma altrettanto importante è il “cosa” e il “come”. Non serve solo sostituire i protagonisti, bisogna interrogarsi seriamente sulla direzione da intraprendere: quali siano le criticità da affrontare, quali le priorità per il futuro, e se sia necessaria una correzione di rotta, forse anche radicale. Del resto, ogni crisi è anche una soglia: può essere solo trauma, ma può anche diventare occasione. Come osserva Mara Benadusi (2013), uno shock genera sconcerto e sofferenza, ma può anche attivare forme inedite di intraprendenza; la calamità stessa, pur nella sua distruttività, può creare «le condizioni di un’esplosione di dinamismo senza precedenti». Da qui, l’urgenza di trasformare lo sconcerto in progettualità, la delusione in proposta, lo scuorno in energia etica. Ma perché questo accada, bisogna interrompere il flusso della consuetudine, creare un tempo di transizione consapevole, in cui interrogarsi collettivamente su quale futuro vogliamo davvero costruire.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
Riferimenti bibliografici
Benadusi, Mara (2013), “Cultiver des communautés après une catastrophe. Déferlement de générosité sur les côtes du Sri Lanka”, in Revet, Sandrine & Langumier, Julien (a cura di), Le gouvernement des catastrophes, Parigi, Editions Karthala.
Candau, Joel (2002), La memoria e l’identità, Napoli, Ipermedium libri.
Crook, Zeba (2009), Honor, Shame, and Social Status Revisited, in “Journal of Biblical Literature”, vol. 128, n. 3, The Society of Biblical Literature.
Douglas, Norman (1972), La Terra delle Sirene, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane.
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Fiorentino, Giovanni (2021), “Arcipelago Covid 19. Per un atlante visuale, e sociale, della pandemia”, in “Mediascapes journal”, 17/2021; disponibile online: https://rosa.uniroma1.it/rosa03/mediascapes/article/download/17589/16767/35887
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Majchrzak, Maria (1992), Chrystus Frasobliwy, in “Twórczość Ludowa”, 1-2: 4; disponibile online: https://biblioteka.teatrnn.pl/Content/29737/TL_1992_1-2.pdf
Mubi Brighenti, Andrea (2008), Tra onore e dignità: per una sociologia del rispetto, in “Quaderni del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale”, vol. 40, Università di Trento; disponibile online: https://iris.unitn.it/retrieve/handle/11572/359356/606081/quaderno_40.pdf
Pitt-Rivers, Julian (1966), “Honour and Social Status”, in Peristiany, J. G. (a cura di), Honour and Shame: The Values of Mediterranean Society, Chicago, University of Chicago Press.
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Shifman, Limor (2013), Memes in Digital Culture, The MIT Press Essential Knowledge series, Cambridge (USA).
Vykoukal, Jiří (a cura di) (2009), Gothic Art in the Cheb Region, Gallery of Fine Arts, Cheb (Rep. Ceca).
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.
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