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Cocchiara, Rubino e Di Mino. Storie di amicizie e di libri sussidiari per la cultura regionale

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 02:17 In Cultura,Letture | No Comments

img_20201218_0001di Alessandro D’Amato

Ministro della Pubblica Istruzione nel corso del primo governo fascista, nel 1923 il filosofo Giovanni Gentile fu promotore di una riforma degli ordinamenti scolastici che storicamente viene ricordata con il suo nome e accusata da molti critici di essere inattuale, avendo determinato un vistoso passo indietro del sistema degli ordinamenti scolastici. Tra gli obiettivi principali della legge, si ricorda il tentativo di avviare un processo di alfabetizzazione di massa delle classi popolari, anche attraverso una vera e propria azione di stravolgimento dell’istruzione elementare e secondaria.

All’interno di tale processo, le scuole medie furono protagoniste, ad esempio, di una sorta di sostanziale rivoluzione, rappresentata dall’istituzione delle ‘scuole complementari’. In queste ultime, l’istruzione fu impartita a un livello più basso, poiché la frequenza di tali plessi era destinata esclusivamente ai ceti popolari. Facilmente e liberamente istituzionalizzabili nei territori in base alle esigenze, esse non consentivano l’accesso a gradi di istruzione superiore. D’altronde, l’obiettivo esclusivo che in tali istituti ci si proponeva di raggiungere era costituito dallo sbocco lavorativo dei giovani studenti. Poi, via via a salire, la riforma prevedeva la presenza di istituti tecnici, industriali, licei ginnasi e licei scientifici. Vi erano, inoltre, gli istituti magistrali (ricomprendenti scuole complementari-normali e ginnasi magistrali), oltre ad alcuni licei femminili. In particolare, le scuole complementari prevedevano, all’interno dei programmi didattici, l’introduzione di materie e libri di testo finalizzati allo studio del dialetto e all’apprendimento della cultura regionale. Da questo punto di vista, «la riforma Gentile permise al dialetto e alla cultura regionale di trovare riconoscimento nella scuola. All’interno di una finestra che va dal 1923 al 1928 circa venne ufficialmente aperto uno spazio mediato fra cultura egemone e culture subalterne» (Dimpflmeier 2013:92) [1].

In questo frangente, infatti, studiosi e ricercatori di storia locale si dedicarono alla stesura di sussidiari fruibili dai giovani destinatari, frequentatori delle scuole elementari e complementari delle varie regioni italiane. I particolarismi di ciascuna piccola patria (Cavazza 2003) di cui l’Italia era costituita, pertanto, furono messi in evidenza attraverso raccolte di testi e monografie che collimavano con l’obiettivo mussoliniano di rafforzare lo spirito identitario nazionale, attraverso il riconoscimento dei particolarismi regionalistici: «una rifondazione intima dello Stato, in cui l’identità locale, regionale e municipale, la vera “italianità” ancora da conoscere, veniva utilizzata per rafforzare l’identità nazionale» (ivi: 94).

cocchiaraNel vasto insieme dei libri sussidiari pubblicati in tutto il Paese, in Sicilia si segnalarono due iniziative editoriali che videro per protagonisti quelli che all’epoca erano un giovane studente di Legge e due appassionati di storia e cultura locale. Giuseppe Cocchiara, Benedetto Rubino e Calogero Di Mino divennero, in tal modo, interpreti di un’amicizia e di due esperienze pubblicistiche che si innestarono proprio all’interno del contesto storico appena descritto. Dei tre protagonisti pocanzi citati, il solo Cocchiara riuscì a emergere nel panorama culturale nazionale: conseguita la laurea in Legge nel 1926, abbandonò immediatamente le velleità da avvocato, per assecondare la sua passione e approfondire gli studi di folklore.

Dapprima a Firenze e poi a Oxford, Cocchiara ebbe modo di frequentare o seguire gli insegnamenti di personaggi come Michele Barbi, Pio Rajna, Raffaele Corso, Raffaele Pettazzoni, Arnold van Gennep, Robert R. Marett e James George Frazer, solo per citare alcuni tra i più conosciuti. Nel corso degli anni, tali esperienze si rivelarono cruciali per la sua futura formazione e per quella maturazione intellettuale, a seguito della quale risultò tra i primi vincitori, in Italia, di un concorso a cattedra universitaria di Storia delle tradizioni popolari (nel 1949); quindi, a divenire preside della facoltà di Lettere dell’ateneo di Palermo, a collaborare con la casa editrice Einaudi nell’ambito della celebre «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» (meglio nota come Collana viola) e, tra gli anni cinquanta e sessanta, a scrivere alcuni tra i capisaldi della letteratura demologica italiana, tra i quali, per brevità, ricordiamo soltanto Storia del folklore in Europa (1952), Il Paese di Cuccagna e altri studi di folklore (1956), Popolo e letteratura in Italia (1959) e Il mondo alla rovescia (1963).

Pur se meno noti, Benedetto Rubino e Calogero Di Mino furono due importanti protagonisti della scena culturale dell’epoca, per lo meno in ambito regionale, e le rispettive figure meriterebbero un’attenzione maggiore da parte del grande pubblico, per la profondità d’analisi e la capacità di intuito che entrambi manifestarono in quegli anni e nel corso delle rispettive carriere. A metà degli anni venti, i due instaurarono con Cocchiara un’importante e feconda amicizia, che vide intersecarsi reciprocamente interessi e attività di studio, poi confluiti all’interno di due libri sussidiari per la cultura regionale, entrambi scritti a quattro mani, ad uso dei nuovi indirizzi scolastici introdotti a seguito della riforma Gentile.

395071_447528638615542_563972801_nCon Benedetto Rubino, Cocchiara instaurò un rapporto prolungato, testimoniato da 41 lettere e cartoline ricevute tra il luglio 1923 e il 1949. Farmacista di professione, Rubino (San Fratello, 1881 – Acquedolci, 1955) si era dovuto trasferire temporaneamente a Palermo nel 1922, a causa della devastante frana che, in quell’anno, distrusse l’intero piccolo centro di San Fratello. Egli, dunque, non fu un professionista degli studi folklorici, ma da questi fu fortemente attratto, tanto da riuscire a sviluppare «un modello di ricerca folklorica che, pur rimanendo di fatto ancorato a una dimensione regionale, rivela ancora oggi notevoli aperture antropologiche e registra di fatto posizioni quanto mai interessanti riguardo all’attenzione rivolta ad aspetti relativi alla cultura materiale in Sicilia poco studiati prima di allora» (Todesco 2001: 32).

Oltretutto, così come sostiene lo stesso Sergio Todesco, è assai probabile che Rubino avesse avuto modo di conoscere personalmente Pitrè durante gli anni della frequentazione della facoltà di Farmacia a Palermo. Molto prolifico dal punto di vista delle pubblicazioni, nel 1914 diede alle stampe la sua opera principale, Folklore di San Fratello, impreziosita proprio da una prefazione dello stesso Pitrè (1914). Fu anche solito raccogliere testimonianze della cultura materiale, che in quegli anni non di rado consegnò al medico palermitano, affinché quest’ultimo arricchisse le collezioni del proprio Museo Etnografico Siciliano, con elementi di provenienza nebroidea.

img_20201218_0002Scorrendo la corrispondenza intercorsa tra i tre protagonisti di questo contributo, scopriamo che fu proprio Cocchiara a fungere da “anello di congiunzione” tra gli stessi Rubino e Di Mino, come testimonia una lettera del farmacista sanfratellano, citata nella tesi di laurea di Maria Cristina Ferro dedicata all’opera di Calogero Di Mino (Ferro 1996-1997). Questa tesi, di buonissima levatura e ottimamente documentata, costituisce probabilmente ancor oggi il miglior contributo in circolazione relativamente alla figura dell’intellettuale originario di Sciacca: «Poeta e critico letterario, uomo di scuola e autore di opere teatrali, latinista ma soprattutto folklorista convinto e appassionato, Calogero Di Mino, (…), è stato un intellettuale dai molteplici interessi» (ivi: 1) [2]. Laureatosi in lettere a Palermo, con una tesi su Sviluppo e realizzazione del folklore italiano, di cui fu relatore Giovanni Alfredo Cesareo, a partire dagli anni del secondo conflitto mondiale Di Mino (Sciacca, 1888 – Roma, 1975) si trasferì a Roma, dove visse per il resto dei suoi anni e dove insegnò lingua e letteratura italiana in numerosi licei. Si dedicò a lungo alla ricerca folklorica, individuando nel teatro popolare, in particolar modo legato al tema delle rappresentazioni sacre, e nel folklore marinaro il proprio ambito privilegiato di ricerca, condotta tuttavia sempre nel solco della tradizione metodologica inaugurata da Pitrè. Nonostante Di Mino non riuscì ad aprirsi ai più moderni orientamenti di ricerca[3], egli non fece mancare il proprio contributo – attraverso articoli su quotidiani – nel dibattito attorno all’opportunità del riconoscimento del folklore come disciplina autonoma. A testimonianza della serietà con cui approcciò la propria attività, ricevette anche degli incarichi di prestigio: nel 1925, Raffaele Corso lo coinvolse nelle vicende editoriali de «Il Folklore Italiano», che in quell’anno vedeva la luce [4]. Lo stesso Corso, nel 1949, ne favorì la nomina a membro del consiglio direttivo del Comitato Italiano Arti e Tradizioni Popolari.

s-l640Nel settembre 1952, a Napoli, fu relatore al Congresso di Studi Etnografici Italiani (organizzato e presieduto dallo stesso Corso), con un intervento dal titolo Riti e feste del mondo classico nella Sicilia d’oggi. Nel biennio 1952-53 fu riordinatore della biblioteca del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, diretto da Paolo Toschi. In quegli anni fu anche segretario, a Palermo, della Società Siciliana di Storia Patria e, a Roma, della Società di Etnografia Italiana. Nel 1954, partecipò, ancora su invito di Corso, al Congresso Internazionale di Etnografia e Folklore di Napoli, con un intervento dal titolo Miti e leggende, usanze, canti e proverbi della Marina di Sicilia. Nel 1965 ricevette il “Premio della Cultura” dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’impegno e l’attività di Di Mino furono estremamente apprezzati da Cocchiara, Corso e Toschi, con i quali egli stabilì relazioni epistolari. Nei confronti di Raffaele Corso, tale relazione si trasformò, nel corso degli anni, in sincera e duratura amicizia. Diverso il caso del rapporto intercorso con Giuseppe Cocchiara: a tratti intenso e contraddistinto da un fraterno affetto, esso si interruppe bruscamente a causa di divergenze determinate dalla collaborazione tra i due. L’epistolario tra Cocchiara e Di Mino si compone di 24 lettere inviate dal primo [5] e di sole due lettere a firma Di Mino [6]: la sproporzione tra questi dati lascia intendere che buona parte della corrispondenza attribuibile allo studioso di Sciacca sia andata irrimediabilmente persa. Ci si domanda (senza tuttavia essere in grado di fornire una risposta) se non possa essere stato lo stesso Cocchiara a distruggere tali lettere, dopo la burrascosa interruzione dell’amicizia con Di Mino, considerato in modo esplicito, più volte all’interno delle lettere disponibili, come un “fratello maggiore”. Calogero Di Mino, difatti, era di ben 16 anni più anziano di Cocchiara. Nonostante questa differenza anagrafica, tra i due si stabilì immediatamente un rapporto di estrema confidenzialità, testimoniato dal vezzeggiativo, “Liddu” con il quale, da subito, Cocchiara si rivolse al più maturo corrispondente.

popolo-canti-nella-sicilia-oggi-girando-demone-77b1373b-97c1-40a8-9251-3076c9895032Non abbiamo elementi per stabilire come i due entrarono in contatto. Possiamo ipotizzare che a fare da pontiere possa essere stato proprio Corso, il quale condivideva con Di Mino l’esperienza di consulente per la casa editrice Sandron, fondata nel capoluogo siciliano nel 1839 [7]. È certo, oltretutto, che Cocchiara, Rubino e Di Mino ebbero modo di frequentarsi piuttosto assiduamente a Palermo tra il 1922 e il 1923, come lasciano intendere diversi riferimenti ai reciproci incontri presenti in varie lettere scritte a Cocchiara da Benedetto Rubino. Subito dopo la pubblicazione di Popolo e canti nella Sicilia d’oggi, avvenuta a inizio luglio 1923 [8], Rubino gli inviò una cartolina postale, per complimentarsi: «Congratulazioni vivissime e saluti affettuosi, estesi comune amico Di Mino» (lettera di B. Rubino a G. Cocchiara, 07 luglio 1923). Ancor più efficace nel testimoniare la genuinità del rapporto tra i due è una lettera del settembre 1923, in cui Rubino cerca in tutti i modi di consolare Cocchiara, al quale evidentemente la direzione di un periodico aveva opposto un diniego circa la possibilità di pubblicarne un contributo:

«Che importa che un giornale, una rivista ti chiuda tempestivamente le porte, che un critico occhialuto, un letterato celebre sputi il suo veleno contro di te? Tu hai ingegno e volontà, tu hai la tua pietra al sole, e nessuno, per quanto perverso e invidioso, potrà ostacolare il tuo cammino. (…) continua, caro Peppino, a battere la tua strada, a solcare il tuo campo, il nostro campo, e siano le tue orme, i tuoi solchi profondi, e del resto non preoccuparti. Verrà il giorno che questi signori che oggi ti guardano, ci guardano dall’alto in basso, ci guarderanno con altro occhio, invidioso sempre, ma meno arcigno e tronfio di quello con cui ci guardano al presente» (lettera di B. Rubino a G. Cocchiara, 20 settembre 1923).

Pochi giorni dopo, Rubino si trova costretto a riscrivere a Cocchiara per rispondere a una lettera che, evidentemente, si era intanto incrociata con quella nel frattempo. Una lettera molto importante poiché rivela alcuni inediti risvolti relativi a un lavoro che li vide impegnati in quegli ultimi mesi del 1923 e per buona parte dell’anno successivo:

«ho sotto gli occhi la tua del 18 e mi trovo perfettamente d’accordo con te circa l’opportunità di pubblicare una raccoltina di favole religiose e canti popolari adatta alle scuole primarie. Però c’è la difficoltà della distanza: come faremo a predisporre il lavoretto e a consultarci a vicenda? Potremmo noi farlo per corrispondenza? Comunque, scrivi tu come si potrebbe combinare: io sarò sempre a tua disposizione» (lettera di B. Rubino a G. Cocchiara del 23 settembre 1923).

Scopriamo così che fu il più giovane dei due a proporre la stesura di un volume da scrivere a quattro mani, che, focalizzandosi su tematiche legate alla vita tradizionale e al mondo contadino siciliano, fosse confacente con quanto previsto dalla riforma Gentile. Già alla fine di novembre Cocchiara e Rubino erano al lavoro per predisporre un testo da destinare all’insegnamento nelle classi della scuola complementare (e non primaria, come invece ipotizzato nella succitata lettera), con una prestigiosa casa editrice alle spalle disposta a farsi carico della stampa del volume e con un titolo ben individuato:

«Sta bene tutto quanto mi hai scritto intorno all’accettazione di Sandron e ai criteri informativi del nuovo volumetto. Però sarebbe bene, secondo me, far precedere prima gli usi e costumi, piuttosto che l’esposizione delle novelle e delle poesie, anche per riguardo al titolo che trovo scritto a lapis nell’ultima pagina dei programmi, che mi sembra molto adatto: Usi e costumi, novelle e poesie del popolo siciliano» (lettera di B. Rubino a G. Cocchiara, 26 novembre 1923).

Il volume fu pronto all’incirca dopo un anno [9] e proprio grazie alla mediazione di Calogero Di Mino fu pubblicato per i tipi della Sandron. Su di esso ha soffermato il proprio sguardo Sergio Todesco, che lo ha definito come un lavoro

«che costituisce un interessante esperimento di saggistica antropologica per le scuole e [che] rivela al contempo una lucida strategia di fornire alla società siciliana un efficace strumento di appartenenza. (…). Con tale opera – il cui sottotitolo è, significativamente, “esposizione critica ad uso delle scuole complementari” – i due folkloristi si prefiggevano appunto di immettere lo studio delle tradizioni popolari siciliane in un circuito fruitivo scolastico, facendo del folklore isolano una vera e propria materia di studio ed al contempo, come già rilevato, una strategia di educazione all’identità» (Todesco 2001: 35-36).

Suddivisa in quattro parti [10], l’opera costituisce un sicuro progresso rispetto a Popolo e canti nella Sicilia d’oggi, pubblicato un anno prima. Cocchiara, che qui poteva contare sul sostegno di un Benedetto Rubino sicuramente più maturo e riflessivo, dava quindi prova di cimentarsi in quello che sarebbe stato il suo terreno più fertile. È indubbio, infatti, che le sue capacità compilatorie e di sistemazione del materiale bibliografico a disposizione furono sempre particolarmente spiccate, tanto da condurlo, nel secondo dopoguerra, verso quell’impegno storiografico che, ancora oggi, costituisce un punto di riferimento nella storia disciplinare. Nelle poche pagine di introduzione al libro, del resto, gli autori sostanziarono il carattere diacronico della disciplina, evidenziandone tanto la modernità metodologica quanto la capacità di approcciare oggetti di studio contemporanei:

«tutti questi fatti, che costituiscono il patrimonio folklorico dell’Isola, nascondono avanzi di antichissime tradizioni, agli occhi dello storico di ieri scomparsi o intraveduti appena, agli occhi del mitologo o del sociologo di oggi palpitanti di vita e ricchi d’inattese rivelazioni» (Cocchiara – Rubino 1924: 5).

Nonostante le buone intenzioni e l’ottimo lavoro di cernita dei materiali da includere all’interno del volume, tuttavia questo appare eccessivamente invischiato nella trappola dell’idealismo con cui la realtà isolana veniva rappresentata. In particolare ciò si ravvisa laddove i due parlano di canti e poesie popolari: è qui, infatti, che l’opera si ammanta di una sorta di anacronistica atmosfera tardoromantica:

«Tali sono i canti popolari in Sicilia. Di essi può affermarsi che nessun documento umano offra un eguale interesse sociale, psicologico, estetico. Onde ha ragione il Pitrè quando dice che essi sono gli archivii del popolo, il tesoro della sua scienza, della sua religione, della sua teogonia e cosmogonia, della vita dei suoi padri, dei fasti della sua storia, l’espressione del suo cuore, l’immagine del suo interno nella gioia e nel pianto» (ivi: 7-8).

La corrispondenza di Cocchiara con Rubino e Di Mino testimonia del grande rimaneggiamento che ci fu dietro la costruzione di questo libro. Di non minore importanza, inoltre, l’instancabile opera di revisione del testo, prima che lo stesso fosse mandato definitivamente in stampa. In particolar modo, quest’ultimo aspetto fu determinato dalla necessità di ridurre al minimo la presenza di refusi. Esemplificativa dei rapporti di serena amicizia tra i tre studiosi, è in tal senso una lettera trasmessa da Di Mino a Cocchiara nel settembre 1924, con la quale si suggeriva al giovane studioso di mettere da parte la fretta per l’uscita del libro, per concentrarsi maggiormente sulla revisione delle bozze, fondamentale per dare alle stampe un lavoro migliore:

«Caro Cocchiara, avrai a quest’ora le bozze di Usi e Costumi. Credo che ti avranno scritto che le bozze debbono seguire questa via: prima le avrai tu, che le spedirai a Rubino, Rubino le spedirà alla Casa. Per la seconda correzione saranno spedite solamente a Rubino. Per il bene che ti voglio – bada che non è una dichiarazione di amore, poi che tu sei brutto più di me – ti consiglio di correggere bene. Il tuo articolo sul Castello di Mistretta fu un disastro. Non lasciarti vincere dalla fretta di arrivar presto, diversamente perdi quello che in poco tempo hai guadagnato. Il mio è un consiglio di un fratello maggiore e per l’età posso dartelo» (lettera di C. Di Mino a G. Cocchiara, 23 settembre 1924).

2560020100558_0_0_0_441_75Dalla lettura di queste poche righe, risulta evidente come, in questa fase di correzione delle bozze, l’editore si fidasse più di Rubino, al quale sarebbe spettato il secondo e definitivo turno, che non di Cocchiara, il quale nel recente passato non aveva dato il meglio di sé nello svolgimento di tale mansione. Poche settimane prima, del resto, la versione definitiva di un suo pezzo consegnato al «Giornale di Sicilia» e dedicato al castello di Mistretta era risultato pieno zeppo di refusi: un vero disastro, secondo l’opinione schietta ma sincera di Calogero Di Mino. Lo stesso Di Mino, del resto, conosceva perfettamente pregi e difetti di Cocchiara, anche perché poche settimane prima i due avevano collaborato alla realizzazione di un’ulteriore pubblicazione: un sussidiario destinato alle scuole primarie, che ebbe per titolo Ove il cedro fiorisce. Libro sussidiario per la cultura regionale, anch’esso edito dall’editore Sandron:

«La cura redazionale dei testi è stata sostanzialmente seguita da Di Mino che, residente a Palermo, poté tenere personalmente i contatti con l’editore Sandron. La sua più matura esperienza gli permetteva di dare consigli e suggerimenti all’amico Cocchiara, (…). L’Almanacco Ove il cedro fiorisce vide la luce presso Sandron nel 1924, solo dopo l’autorizzazione data dal Ministero. In anni difficili come quelli del fascismo, non era indifferente l’ansia che gli autori manifestavano nell’attesa dei giudizi della Commissione Ministeriale, che doveva valutare i loro lavori sottoposti a censura» (Ferro 1996-1997: 35-36).

Scorrendo la corrispondenza di Di Mino, scopriamo del disappunto di Cocchiara per il titolo attribuito al libro scritto insieme: mutuato da un componimento di J.W. Goethe [11], Ove il cedro fiorisce risultava per Cocchiara troppo simile a raccolte poetiche pubblicate da altri autori in quegli stessi mesi:

«Il titolo! È di Goethe. Lo so. Ed è certo di una delicatezza massima. Siccome, però, in questi ultimi mesi si son pubblicati parecchi volumi, portanti il titolo “Nel paese della zagara” (Mori) “Ove fiorisce la zagara” (Fiorentino) ad esso avrei preferito quello più semplice, e meno poetico, di “Sicilia nostra” o di “Sicilia”» (lettera di G. Cocchiara a C. Di Mino, 25/09/1924).

Questa nota di contenuta insoddisfazione per il titolo scelto per l’opera elaborata insieme a Di Mino seguiva, in realtà, una precedente lunga lettera in cui tra i due iniziava ad emergere qualche screzio. Dalla lettura di questa, si comprende la delusione di Cocchiara nell’aver saputo, da terze persone, che Di Mino aveva già percepito da parte di Sandron la sua parte di compenso dovuto per la pubblicazione dell’opera, mentre egli era ancora in attesa della cifra pattuita. A tal riguardo, Cocchiara provò a contattare un intermediario presso la casa editrice che, evidentemente, informò Di Mino della vicenda. Quest’ultimo dovette così interpretare il fatto che Cocchiara non si fosse rivolto direttamente a lui come una mancanza di fiducia e di rispetto nei propri confronti. Risentitosi non poco, scrisse a Cocchiara una lettera molto severa, forse addirittura offensiva; lettera cui quest’ultimo fa riferimento:

 «Ma tu valuta bene le cose, e vedi se ieri non c’era l’animo che ho io, di farti prendere quel dispiacere che ti sarà sicuramente preso, e del quale io non posso che chiederti perdono. Mi dispiace intanto di dover conservare di te una lettera che è per me poco onorifica! Ma bada che se un’altra volta mi scrivessi “Scrivi a Sandron per informarti”… non crederò più, non dico alla tua amicizia, che per me è sacra, ma alla tua sincerità, che giustamente ti arroghi. Apprendo la quantità di lavoro che hai fatto all’Almanacco. E non ti dico nulla! Perché non avrei che dirti. Solo, però, ti prego di far rivedere a me le seconde bozze. Ed ora abbiti un forte abbraccio e giudica pure come vuoi quel Peppino che non si meritava la tua lettera» (lettera di G. Cocchiara a C. Di Mino, 08/09/1924).

Il rapporto tra Cocchiara e Di Mino, per settimane improntato su una solida e fraterna amicizia, subiva dunque un brusco arresto. E, nonostante nei mesi successivi sarebbe apparso ricomposto e tornato sui binari di una normale cordialità reciproca, era tuttavia destinato a una rottura definitiva. Lo strappo finale avvenne nel dicembre 1928, non appena Cocchiara venne a conoscenza dell’azione legale intrapresa da Di Mino nei confronti di Laura Lattes [12], amica dello stesso Cocchiara, accusata di plagio per aver utilizzato dei brani proposti dallo stesso Di Mino all’interno di Ove il cedro fiorisce. Che il rapporto non fosse più ricomponibile lo si intuisce sin dal tono iniziale, freddo e distaccato, con cui Cocchiara si rivolge al proprio interlocutore. Per la prima volta dall’inizio del loro rapporto epistolare, non viene utilizzato il confidenziale “Caro Liddu”, sostituito da un insolito “Mio carissimo Di Mino”:

«Mio carissimo Di Mino, Mi scrivono i Sandron di una lettera nella quale mi si informa di una tua citazione alla mia amica Laura Lattes per il Racconto di tuo padre, copiatoti. Ora io non ho sottomano il corpo del reato e non posso quindi giudicare le cose come stanno. So bene che il racconto è tuo (e questo l’ho pure dichiarato in una lettera ai Sandron) ma d’altra parte siccome il racconto fa parte di un libro scritto in collaborazione sarebbe stato bene che tu, per delicatezza, mi avessi avvisato. Comunque, tu caro Di Mino, sei padronissimo di citar chi vuoi; ma io bada non mi posso unire con te in nessuna citazione, per più di un motivo. Son sicuro anche che questa mia dichiarazione tu non l’avrai affatto a male e che essa serva a farti vivo con me» (lettera di G. Cocchiara a C. Di Mino, 11/12/1928).

La lettera si chiude, poi, con lo stesso tono formale con cui si era aperta. Il consueto “tuo Peppino”, posto in calce ad ogni precedente missiva, era qui sostituito da un inaspettato “tuo Cocchiara”, che lasciava poche speranze circa la possibilità di recuperare un rapporto ormai logoro e giunto ai ferri corti. Cocchiara evidentemente si era sentito più volte posto ai margini. Una prima volta, nelle tempistiche con cui l’editore aveva erogato i compensi destinati ai due autori dell’opera scritta insieme a Di Mino; quindi, nella correzione delle bozze di entrambi i libri pubblicati con Sandron. Infine, goccia in grado di fare traboccare un vaso evidentemente già colmo, l’iniziativa legale intrapresa nei confronti di Laura Lattes, senza aver prima consultato l’opinione di Cocchiara. Evidentemente, Di Mino era considerato quantomeno corresponsabile in ognuna di tali vicende.

Tornando al volume Ove il cedro fiorisce, essa fu un’opera sostanzialmente compilativa, comprendente alcuni testi della tradizione letteraria siciliana, scelti dai due autori con l’intento di divulgarne la conoscenza presso il più giovane pubblico delle scuole. In una lettera di Raffaele Corso, che era stato convinto sostenitore della riforma Gentile, possiamo leggere parole di sincero elogio per il risultato ottenuto da Cocchiara e Di Mino:

«Ho percorso fuggevolmente “Dove il cedro fiorisce” [sic!] ed ho avuto un’eccellente impressione. Conosco la bella terra del cedro nei suoi paesaggi ed abitanti, nelle leggende e nei canti, nonché nelle varie manifestazioni del genio del popolo suo; ma sento di meglio poterla conoscere attraverso le pagine dell’Almanacco, vibranti dalla prima all’ultima di quella poesia che costituisce la fiamma perennemente accesa sul focolare della famiglia siciliana (lettera di R. Corso a C. Di Mino, 04 gennaio 1925) [13].

Al di là delle valutazioni positive annotate da Corso, il volume appare nel complesso come un’opera di non particolare rilievo nella bibliografia degli scritti di Cocchiara. Sin dalle intenzioni iniziali il libro si caratterizza per un intento chiaramente divulgativo, senza alcuna altra aspirazione. Del resto, in considerazione del target cui il volumetto era destinato, non poteva essere altrimenti. Ciò non di meno, le vicende che ispirarono la sua stesura ci consentono, oggi, di aggiungere un ulteriore, piccolo tassello alla ricostruzione della storia degli studi di folklore, se non altro per quanto attiene al contesto regionale siciliano.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Sul riconoscimento di dialetti e cultura regionale a seguito della riforma Gentile e sull’influenza, su di questa, esercitata dalla cosiddetta “pedagogia folklorica” di Giuseppe Lombardo Radice, si rimanda anche a M. Coppola, Dialecte et culture régionale dans la réforme de l’école italienne en 1923. Débats et questions autour d’une nouvelle discipline scolaire, in «Lengas. Revue de sociolinguistique», 83, 2018 (en ligne).
[2] Si ringrazia l’autrice della tesi, dott.ssa M.C. Ferro, per aver messo a disposizione il proprio lavoro di ricerca, dal quale è tratta la maggior parte delle informazioni relativa alla vita e alle attività di Calogero Di Mino.
[3] «In ambito demologico, Di Mino rimase fedele alla tradizione pitreana, che non lo rese partecipe allo sviluppo che gli studi del folklore conobbero nell’immediato dopoguerra, con l’apertura al dibattito dell’etnologia internazionale» (Ferro 1996-1997: 46).
[4] Le lettere di Raffaele Corso a Calogero Di Mino, conservate presso la Biblioteca Comunale di Mazara del Vallo, sono in tutto 62 e coprono un arco temporale che va dal 1923 al 1958.
[5] Conservate presso la Biblioteca Comunale di Mazara del Vallo, esse sono interamente trascritte all’interno della citata tesi di laurea di Maria Cristina Ferro (1996-1997).
[6] Conservate, come il resto della corrispondenza ricevuta da Cocchiara, presso l’omonimo Archivio custodito al Museo Etnografico Siciliano ‘G. Pitrè’ di Palermo.
[7] Fondata a Palermo nel 1839 da Decio Sandron, la casa editrice iniziò la propria attività con la traduzione italiana di testi francesi. Alla morte del fondatore, subentrò nel 1873 il figlio Remo, «che svilupp[ò] la produzione scolastica secondo criteri modernamente industriali, costituendo un organico catalogo per le scuole del giovane Regno d’Italia e promuovendo la preparazione degli insegnanti attraverso la pubblicazione di riviste didattiche e di saggi pedagogici» (cfr. sito web http://www.sandron.it/casa_editrice.htm). Per lungo tempo, almeno fino al 1925, Sandron sarà probabilmente l’editore italiano più aperto alle istanze europee: in quello stesso anno, la morte di Remo Sandron e una disastrosa alluvione, con conseguente crisi economica, determineranno un lungo periodo caratterizzato da enormi difficoltà. Soltanto a partire dal 1943, dopo il trasferimento a Firenze della sede, la casa editrice Remo Sandron cominciò una lenta risalita che, tuttavia, non portò mai la stessa a ripercorrere i fasti di inizio secolo (Tommasi 1997).
[8] Popolo e canti nella Sicilia d’oggi. Girando Val Demone (R. Sandron, Palermo 1923) fu la prima monografia data alle stampe da Cocchiara e costituì anche la sua unica prolungata e organica esperienza di ricerca sul campo. In essa, il giovanissimo studioso, non ancora ventenne, raccolse un corpus di canti popolari (prevalentemente contadini) nei territori del Val Demone, a lui familiari, essendo nato e vissuto a Mistretta.
[9] Lo testimonia questo passo di Rubino: «Carissimo Peppino, oggi ho spedito al Sandron le bozze del nostro libro. Contrariamente a quanto ti avevo scritto ieri o ieri l’altro, ho dovuto ritardare la spedizione di qualche giorno, perché ho voluto curare maggiormente questa volta la fusione tra la prima e la seconda parte, come mi raccomandò ultimamente Di Mino, e correggere maggiormente il testo delle novelle e delle poesie in dialetto» (lettera di B. Rubino a G. Cocchiara, 07 ottobre 1924).
[10] Parte I: “Vita domestica e sociale” – Parte II: “Feste e spettacoli” – Parte III: “C’era, c’è, e ci sarà” (dedicata alle credenze magico-religiose e ai relativi simbolismi) – Parte IV: “Cu’ voli puisia” (dedicata a canti e poesie popolari).
[11] «Sai tu la terra ove i cedri fioriscono? / Splendon tra le brune foglie arance d’oro / pel cielo azzurro spira un dolce zeffiro / umil germoglia il mirto, alto l’alloro…» (J.W. Goethe, Evocazioni cit. in R. La Mesa, Viaggiatori stranieri in Sicilia, Cappelli, Palermo 1961).
[12] Nata in provincia di Venezia nel 1893, in una famiglia di origini ebraiche, Laura Lattes si trasferì a Vicenza nel 1900. Conseguito il diploma magistrale, frequentò l’università a Firenze, dove è probabile che ebbe modo di conoscere Cocchiara. Impegnata nell’insegnamento in varie città, riuscì a rientrare a Vicenza, nel 1934, per insegnare all’istituto “Don Giuseppe Fogazzaro”, nel 1934. A seguito delle leggi razziali del 1938, fu allontanata dall’insegnamento e costretta a insegnare nella “scoletta ebraica” di Padova e Venezia ad allievi espulsi dalle scuole di Stato. A metà anni venti, pubblicò diversi volumi con l’editore Sandron: nel 1924, la raccolta di racconti per l’infanzia Storie di Mirella; nel 1925, La strada fiorita. Corso di letture per le scuole elementari maschili e femminili; nel 1928, infine, Storie di Dodo. Morì a Vicenza nel giugno 1978.
[13] La lettera è interamente trascritta in Ferro 1996-1997: 128.
Riferimenti bibliografici
S. Cavazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, il Mulino, Bologna 2003.
G. Cocchiara – B. Rubino, Usi e costumi, novelle e poesie del popolo siciliano. Esposizione critica (con Benedetto Rubino), R. Sandron, Palermo 1924. 
C. Di Mino – G. Cocchiara, Ove il cedro fiorisce. Libro sussidiario per la cultura regionale, R. Sandron, Palermo 1924.
F. Dimpflmeier¸ Vivere la regione per vivere la nazione. La valorizzazione del patrimonio locale nei sussidiari per le culture regionali degli anni Venti, in S. Aru – V. Deplano (a cura di), Costruire una nazione. Politiche, discorsi e rappresentazioni che hanno fatto l’Italia, Ombre Corte, Verona 2013: 92-106.
M.C. Ferro, L’orizzonte intellettuale di Calogero Di Mino, tesi di laurea (relatore A. Buttitta), Palermo, Università degli Studi di Palermo a.a. 1996-1997
B. Rubino, Folklore di San Fratello, Reber, Palermo 1914
S. Todesco, Benedetto Rubino, un folklorista periferico, in «Paleokastro», II, 6, novembre 2001: 31-36.
R. Tommasi, La Casa Sandron, la Storia, l’Europa. 1839-1997, Sandron, Firenze 1997.

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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è funzionario demoetnoantropologo al MiBAC. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015).

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