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Cledonomantica. Forme e pratiche femminili dell’interrogare e del conoscere
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2017 @ 00:54 In Cultura,Società | No Comments
di Giuseppe Giacobello
Dal greco kledòn (‘presagio’, ‘augurio’, in particolare ‘rumore’, ‘voce’, ‘invocazione’, ‘grido’), la cledonomanzia è una modalità divinatoria applicata a parole, frasi, dialoghi e a qualsiasi fenomeno, soprattutto sonoro, percepito casualmente durante specifici rituali di propiziazione. Con atteggiamento di fiducia devozionale, quelle parole fortuite, quelle frasi, quei dialoghi colti al volo, come altri eventi concomitanti ma svincolati dal rito, diventano segnali di presagio attribuiti a divinità contattate con apposite preghiere; vengono pertanto adattati per analogie alla vicenda che ha originato la consultazione e quindi decifrati come responso: come se costituissero una chiave della circostanza personale che ha spinto a ricorrere alle divinità per saperne di più; come se, di quella circostanza personale, fossero trasfigurazione allegorica disponibile all’approfondimento, se opportunamente interpretata.
Attestazioni si hanno già tra antiche civiltà mediorientali e mediterranee. Sul piano della relazione religiosa, ad esempio, eloquente è un brano di un trattato mesopotamico di fisiognomica, custodito al British Museum di Londra:
Tra gli epigrammata callimachei (III secolo a.C.) c’è invece un rilevante episodio su Pittaco d’Irra, uno dei rinomati “Sette Savi”, vissuto tra il VII e il VI sec. a.C.:
Altre testimonianze sulla cledonomanzia, o più propriamente sugli òmina, sono nel De divinatione di Cicerone (44 a.C.). Rientrano tra le argomentazioni di Quinto, fratello dell’autore, chiamato in difesa delle arti divinatorie, e predispongono retoricamente la confutazione svolta nella seconda parte proprio da Cicerone, più che scettico. In margine alla controversia, il racconto di una consultazione eseguita da due donne per le scelte matrimoniali della più giovane:
Pausania, infine, il noto periegeta del II sec. d.C., in Graeciae descriptio (VII, 22, 2-3) accenna all’oracolo di Ermete Agoràios a Fere, in Acaia:
Senza approfondire i singoli contesti religiosi o stabilire connessioni storiche tra loro, alcune tracce dell’antichità sono state riprese solo per un primo accesso alla cledonomanzia. In epoche più recenti questa pratica non ha ricevuto particolari attenzioni, malgrado interessanti riscontri letterari in età moderna: due per tutti, Don Quijote di Miguel de Cervantes (1605, 1615) e Filumena Marturano di Eduardo De Filippo (1946), come esempi d’inserimenti occasionali in trame altrimenti orientate, e, ancora due per tutti, Il viaggio a San Vito di Federico De Roberto (1890) e I scuti di San Nicola di Silvana Grasso (1993), nei quali la consultazione divinatoria assume un peso narrativo centrale.
In ambito folklorico, ricerche in territorio siciliano hanno invece condotto a una documentazione più omogenea che nel 1615 offre uno dei primi riscontri a Racalmuto (attuale prov. di Agrigento). Una guaritrice cinquantenne, vedova, registrata come Isabela la Bosca, fu incarcerata dall’Inquisizione spagnola per “reati di fattucchierìa” (hechizería). Dal sommario del processo, apprendiamo che Isabella deteneva una riconosciuta competenza terapeutica (hera publica voz y fama que la dicha rea hera hechizera). Tra le testificazioni d’accusa, emergono rilievi su divinazioni finalizzate a diagnosi o prognosi. Quattro testimoni, ad esempio, riportarono che Isabella,
L’autorità qualificò quei fatti con «lieve sospetto d’eresia»; ma Isabella, operatrice comunitaria personalmente coinvolta (certi dissapori tra lei e alcuni testimoni furono probabilmente all’origine della vicenda giudiziaria), era chiamata anche in emergenze erotico-sentimentali caratterizzate da una casistica ricorrente di speranze, mediazioni, incontri, partenze, lontananze, ritorni, abbandoni. In episodi del genere, malgrado inevitabili conflitti, un orizzonte culturale condiviso predisponeva percorsi di esplorazione rituale (la cledonomanzia tra questi) che evidenziano reti ideali tra donne. E donne furono le testimoni che riferirono l’episodio di maggiore interesse. Una volta una di loro, non avendo notizie del marito, lontano da quattordici anni, si rivolse a Isabella; questa le insegnò un’orazione per farlo ritornare e sollecitò affinché «uscissero a dirla fuori dal paese in campagna, come in effetti fecero, vicino a una croce, dove dissero: “Ah, croce delle vigne e diavolo delle messi, do tre ordini ardenti che me lo mandino, subito”, e che lo facessero tre volte se non veniva alla prima e avendo pronunciato le dette parole si udì una voce che disse: “Vengo subito”, e entro poco tempo venne il detto uomo».
Le vicende proseguirono fino al 5 aprile 1617, quando fu disposto che l’imputata fosse condotta con abiti da penitente e insegne di strega a un Auto de fé e che lì fosse letta la sua sentenza, comprensiva di abiura e reclusione per dieci anni.
Sempre per un preliminare orientamento, esaminiamo un documento riportato da Pitré (1881). Durante un’esecuzione divinatoria itinerante svoltasi a Erice (TP) il giorno di san Giovanni,
La breve testimonianza ericina, pur privandoci di molte notizie su quella singola vicenda, è rappresentativa di una decodifica frequente: s’inizia con un accostamento analogico (in questo caso, metonimico) tra l’elemento scelto come presagio (la parola ‘chiavi’) e la circostan- za all’origine della consultazione (prigionìa del figlio); dopodiché, l’orientamento semantico attribuito a quell’elemento durante il rituale (canticchiare beffardo di un mancato ritrovamento di chiavi) è correlato alla situazione personale, ottenendo così un responso (smarrimento delle chiavi= impossibilità di aprire la porta = permanenza della reclusione).
Le attestazioni complessive fanno però emergere un quadro più articolato di cerimoniali, procedure interpretative e referenti devozionali, valorizzando tra XIX e XX secolo preziosi contributi demologici (M. Alesso, V. Fiorenza, V. Graziano, E. S. Hartland, C. Naselli, G. Pitrè, G. Ragusa Moleti, C. Simiani, A. Varvessis e altri) e consuetudini tramandate ancora in pieno Novecento. Al pari di altre divinazioni, la cledonomanzia veniva e, ancora in pochi casi, viene praticata in ambito quasi esclusivamente femminile. Donne per lo più erano e sono le portatrici delle tecniche tradizionali; a donne, soprattutto, rimandano i percorsi esistenziali di questa singolare investigazione del quotidiano.
Pur dotati di caratteri omogenei, i quadri devozionali sono diversi. Quale probabile matrice morfologica, prevale il culto delle ‘Anime sante’: complesso di sovrapposizioni mitico-religiose in cui si avvicendano ‘anime di morti implacati’, ‘anime dei morti in modo violento’, ‘anime dei giustiziati’ o ‘dei corpi decollati’ e quindi ‘anime del Purgatorio’. Per diffusione viene poi san Giovanni, nella duplice agiografia di Battista (a conferma di una plurisecolare tradizione che nella notte di vigilia del suo genetlìaco solstiziale, e non solo in Sicilia, ha istituito un momento elettivo per le divinazioni) e di Decollato (sorta di patronato per le anime dei morti “incontrollabili”). Ma con aspetti altrettanto interessanti, sono stati individuati culti meno diffusi, relativi a san Giorgio, san Pantaleone, san Vito, santa Marta, san Giuliano, sant’Antonio da Padova e a declinazioni della figura di Maria, come la Madonna di Monserrato e la Madonna di Badalucco. E l’elenco è incompleto e solo rappresentativo.
Eseguita con modalità comuni, la cledonomazia è menzionata con nomi differenti, come scuta o scutu (ascolto, dal verbo scutari, ascoltare, soprattutto nella Sicilia orientale) oppure nimma/nnimma/animma/nnirma/nnimmula o nimmu (enigma, soprattutto nel trapanese). Spesso ci si riferisce agli elementi individuati come presagio: oltre ai più comuni signu e signali, si può accennare a leccu (nel palermitano) oppure a fettu/feddu e a rifeddu (nel trapanese). Quasi dappertutto si usa nuvena (novena), per la ripetizione delle preghiere, nove volte consecutive, durante la propiziazione dei presagi, oppure per l’uguale ripetizione del cerimoniale in una stessa consultazione. Poiché di solito è previsto un trasferimento in luoghi sacri e si ricreano situazioni tipiche del viaggiu (pellegrinaggio) per devozione, allo stesso modo è denominato lo spostamento divinatorio: fari u viaggiu di santa Marta o di San Vitu e fari u viaggiu a santa Marta o a San Vitu stanno per «eseguire una consultazione itinerante e chiedere i presagi a santa Marta» o «a san Vito».
Una parte cospicua di testimonianze orali colloca l’ultima intensa stagione cledonomantica durante il secondo conflitto mondiale. Eccone un esempio:
Parlando genericamente di divinazione, leggendo pure alcuni vocabolari, il riferimento è a vaghe previsioni o predizioni, a insolite acquisizioni, nel presente, di ciò che nel passato, nel presente o nel futuro è inaccessibile alla conoscenza ordinaria. L’inverosimiglianza di queste formulazioni è però lasciata in sospeso; come se riferissero tecniche consuete, prive dell’investimento ideologico che invece le caratterizza: assumendo l’adesione “prodigiosa” di chi si riconosce nella credenza divinatoria, sono concepite circostanze extra-ordinarie in cui acquisire informazioni altrimenti precluse.
Così decine di donne siciliane da me incontrate hanno asserito, argomentato e soprattutto narrato che, recandosi (essendosi recate) quel tal giorno, a quella data ora, in quel luogo convenuto, secondo la cerimonialità prescritta, avrebbero potuto ottenere (hanno ottenuto) un risultato non raggiungibile con strumenti abituali: «È san Giovanni Decollato che fa dire quelle parole a quelle persone e in quel momento»; «sono le Anime Sante che fanno udire apposta quel rumore che significa…»; «era la Madonna di Badalucco, travestita, che ci veniva a dare i segnali» ecc. Come hanno tenuto a precisare, la divinità contattata avrebbe prodotto sempre il disoccultamento dell’informazione richiesta e immancabilmente la realtà ordinaria, la cosiddetta realtà dei fatti, avrebbe poi ratificato il responso straordinario. Tutto, poi, sarebbe sempre accaduto così com’era stato segnalato prima.
Di fronte a questa convinzione diffusa, della quale non è in discussione la “buona fede”, cosa ne è dei termini che condizionano l’esistenza di ciascuno di noi? Perché la dimensione storica, come siamo abituati a configurarla, non giunge mai a intaccare i risultati delle officianti? Cos’è, a questo punto, una divinazione? Cosa succede nel corso di questo evento che per noi “miscredenti rispettosi” non può succedere? Non soddisfano le spiegazioni conformate a un generico rispetto umanistico per una delle tante credenze “altre”, riconducendo le “stranezze” alla distanza culturale o alle preclusioni scientifiche di “noi” osservatori esterni o laici. Oltre ogni abusata considerazione di generiche “distanze”, altrettanto rispetto umanistico può essere mantenuto per tentare di comprendere il senso storico-sociale di queste pratiche, senza relativistiche o inaccettabili concessioni al “paranormale”. Quasi a metà strada tra CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) e antropologia.
La questione può intanto ricondursi alla costante dialettica evento/documento. Nelle testimonianze antiche come nelle recenti, malgrado Cicerone e pochi altri perplessi, le fonti si mostrano adeguate a una prospettiva di ovvietà rispetto a ciò che comunicano. Non c’è da stupirsene. Nelle rievocazioni di episodi stupefacenti abbiamo scarse concessioni all’inverosimiglianza: com’è rispondente all’inevitabile filtro della loro funzione culturale, ma proprio per questo, se ci si pensa, più accreditabili in quanto documenti di credenza, di un convincimento condiviso che, con una sua coerenza, orienta quadri d’esperienza (Matera 2015).
Sempre la stessa questione può essere allora reimpostata. Un ‘documento’, ad es. il resoconto di una divinazione, non rimanda solo allo stadio informativo e cronologicamente successivo dell’evento avvenuto, ma anche e soprattutto, in quanto documento di credenza, a uno stadio ancora attivo, creativo, di quell’avvenimento e del suo rendersi culturalmente sensato. Non possono nettamente distinguersi fatti prima e resoconti poi, a cose avvenute. Ogni resoconto di poi è ancora dentro il processo con cui un fatto di prima è riconosciuto come avvenuto, con cui è in buona parte (ri)costruito e dunque con cui è pensato avvenire. Ogni fatto di prima è fatto anche e ancora poi, diviene fatto anche e ancora poi; ad esempio quando è raccontato ad altri, etnografi compresi, che poi, a loro volta, ancora vi (ri)costruiscono e vi (i)scrivono sopra (Clemente 2012).
Trascurando suggestioni irrazionali, ipotetiche ultra-conoscenze, e adottando una prospettiva linguistico-pragmatica, si può assumere come divinatorio un atto finalizzato all’acquisizione di un significato sulla base del quale agire (Cardona 1988); un atto – aggiungiamo – che riceve senso entro una cornice rituale, ma conduce all’acquisizione di un significato reinvestibile nell’agire quotidiano. Nonostante la sua mimesi funzionale, la divinazione non comporta ambigue trasgressioni cognitive; piuttosto, nella forma di una specializzazione codificata, si rivela un’esperienza entro cui operano le medesime rappresentazioni di conoscenza elaborate da una cultura nel suo insieme. Nessuna evasione, quindi, dagli abituali quadri di riferimento; al più un momentaneo stato d’emergenza, simbolicamente arricchito, alla fine del quale nulla è tolto all’umano, razionale, discernimento, alle sue prerogative storiche e soprattutto ai suoi limiti gnoseologici (Dei 1996, Dei-Simonicca 1990).
Persino a proposito delle divinazioni oniriche o di quelle concepite in stato di follia o di possessione, Platone esortava a distinguere tra dissennata divinazione, in quanto “trasmissione” prodigiosa di presagi, e assennatissima interpretazione:
Non fanno eccezione i percorsi cledonomantici. Si pone una situazione iniziale d’incertezza: sperimentata una carenza degli ordinari sistemi di riferimento esistenziale, per consuetudine si ricorre alla divinazione. Si tratta di un momento che può far scattare scambi confidenziali tra l’interessata e altre donne di quotidiano riferimento; da qui il ricorso alla cledonomanzia come scelta comunitariamente predisposta, con relativo sistema di agenti, utenti e fattori relazionali.
Segue l’esecuzione del rituale per individuare il presagio: la persona interessata (o il gruppo di partecipanti) attende il giorno devotamente assegnato (lunedì per le Anime Sante, martedì per santa Marta ecc.), il momento prescritto (più frequentemente a mezzanotte, oppure al tramonto o a mezzogiorno) e si trasferisce nel luogo consacrato per le orazioni propiziatorie. Talvolta, lo stesso trasferimento è caratterizzato da una pratica di preghiera e già in questa fase può avere inizio l’acquisizione dei presagi. Più comunemente, solo dopo esser giunti alla meta e avere prisintato la richiesta alla divinità, comincia l’attesa dei segnali. La preghiera, formalizzata in testi di tradizione orale, può svolgersi in vari modi: in alcuni casi l’officiante più esperta s’inginocchia ed esegue un novenario, mentre le altre si distribuiscono attorno, badando a esplorare il campo acustico e visivo; in altri casi, officiante e concelebranti recitano insieme le orazioni e dopo, sempre insieme, attendono eventuali segnali ominosi. Alla fine, ciò che è stato percepito diventa patrimonio comune, per la prognosi delle interpretazioni.
La determinazione prognostica del responso può seguire due strade: vi sono accadimenti per cui è già previsto un significato convenzionale (si pensi alle “smorfie” o ai “libri dei sogni”); ve ne sono altri con decodifiche più elaborate. In entrambi i casi si tratta di sistemi aperti: le ipotesi sono spesso più d’una, a volte antagoniste; l’iterazione del rito (fino a nove volte) può condurre a un tale assortimento di presagi polivalenti da richiedere riadattamenti equilibranti, dei quali, in questa fase, sono poste solo le premesse, in sospensione approssimativa, ipotetica, fino alla verifica extra-rituale. Questo momento congetturale “riconsegna” il rituale alla dimensione storica. Insieme a implicazioni proprie del culto (relazione di colloquialità votiva, preghiera ecc.), l’autorevole cerimonia non fa altro che introdurre gioco semantico in una dimensione solo momentaneamente bloccata (Vernant 1982). Lo scandaglio dei presagi e dei loro molteplici significati, l’ordine delle somiglianze (Sciascia 1983), rende la consultazione del divino un riesame analitico, più o meno consapevole, delle vicende esistenziali di partenza. Sollecitate dal prestigio emozionante di queste pratiche religiose, le novenatrici non fanno altro che ripercorrere, magari arricchendola, l’abituale enciclopedia personale, sebbene in circostanze di singolare “potenziamento”.
Nella cledonomanzia come in ogni modalità oracolare, la conoscenza non si determina diversamente dalle altre forme del sapere collettivo (Pignato 1987). I suoi effetti sulla prassi ordinaria sono pur sempre cose di questo mondo: donne che s’incontrano, si confidano e si confrontano tra loro, producendo, come sanno e come possono, spirienza (esperienza). Il vaglio dei presagi può portare a scoprire soluzioni già prima possibili ma non ancora elaborate. Situazioni dilemmatiche ricevono a volte l’impulso incoraggiante. Scelte cruciali, già “indiziate”, possono ottenere dal rito “autorizzazioni” socialmente più spendibili. Tenaci attese del compagno di una vita riescono a essere interrotte dall’affettuosa strategia interpretativa di madri, sorelle, amiche e da un presagio augurale intercettato “su misura” e sancito esegeticamente a maggioranza assoluta. Né si deve escludere — l’umana divinazione è anche questo — che interessi di parte e voleri coercitivi possano volgere abilmente la forza persuasiva del garante religioso a proprio vantaggio.
La ritualizzazione dei comportamenti non si esaurisce tuttavia con questo responso, per così dire, ancora propedeutico; restano da esaminare i modi in cui le celebranti ne gestiscono un’integrazione compatibile con la trama esistenziale e attraverso cui pervengono a una soluzione concordata e soprattutto raccontata, anche all’etnografo, come conclusiva. Non bisogna infatti dimenticare che viene rappresentata “divinatoriamente” solo la prima acquisizione di un “significato”; questo, poi, prodigioso quanto si vuol crederlo, richiede di essere ritradotto in coerenza fenomenica con la successiva esperienza quotidiana.
A cose fatte, la devota ritessitura biografica sa il fatto suo.
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