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Chi sono oggi i ragazzi di Barbiana?

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La scuola di don Lorenzo Milani

di Pietro Clemente

La legge dei piccoli paesi

Nel piccolo mondo dei piccoli paesi che stiamo cercando di costruire, anche con queste pagine, l’evento principale è l’approvazione del Senato il 28 settembre della legge sui piccoli comuni, detta anche giornalisticamente “legge sui borghi”.

È la legge 6 ottobre 2017, n. 158, per la Gazzetta Ufficiale:

Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni. (GU n.256 del 2-11-2017 ) entrata in vigore il 17 novembre 2017

Con parole che suonano epiche ai nostri orecchi, o scolpite nel marmo ai nostri occhi, si dice nell’articolo 1, quello delle finalità:

1. La presente legge, ai sensi degli articoli 3, 44, secondo comma, 117 e 119, quinto comma, della Costituzione e in coerenza con gli obiettivi di coesione economica, sociale e territoriale di cui all’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea e di pari opportunità per le zone con svantaggi strutturali e permanenti di cui all’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, promuove e favorisce il sostenibile sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale dei piccoli comuni, come definiti ai sensi del comma 2, alinea, primo periodo, del presente articolo, promuove l’equilibrio demografico del Paese, favorendo la residenza in tali comuni, e tutela e valorizza il loro patrimonio naturale, rurale, storico-culturale e architettonico. La presente legge favorisce l’adozione di misure in favore dei residenti nei piccoli comuni e delle attività produttive ivi insediate, con particolare riferimento al sistema dei servizi essenziali, al fine di contrastarne lo spopolamento e di incentivare l’afflusso turistico. L’insediamento nei piccoli comuni costituisce una risorsa a presidio del territorio, soprattutto per le attività di contrasto del dissesto idrogeologico e per le attività di piccola e diffusa manutenzione e tutela dei beni comuni.

Sono le finalità che tutti i movimenti che guardano alle zone interne del paese, ai piccoli comuni, ai comuni che hanno subìto catastrofi naturali, ai comuni che hanno subìto catastrofi umane come l’esodo, sentono proprie.

Eppure il 6 ottobre nessuno ha danzato nelle piazze, come quando vince la nazionale di calcio. E anche nelle pagine Facebook di noi appassionati del mondo piccolo dei piccoli paesi non ci sono stati squilli di tromba.

 Bobbio Pellice.

Bobbio Pellice (ph. P.Clemente)

In queste pagine di Dialoghi il deputato Giuseppe Romanini, che conosco bene e stimo come sostenitore del Museo Ettore Guatelli a Ozzano Taro, a Collecchio, a Parma, ce ne racconta il profilo, insieme a quello di una legge approvata il 26 ottobre, riguardante “Norme in materia di domini collettivi”. Un tema del quale si è parlato largamente ad Armungia, nel festival di quest’anno, tra studiosi e amministratori, proprio come risorsa anche per i piccoli comuni e per la biodiversità. Le comunanze o università agrarie, hanno vari nomi, sono legate alla storia degli usi civici, sono spesso presenti negli ambienti di montagna. E sono anche pratiche storiche di ‘beni comuni’. Oggi, quando l’idea dello sviluppo progressivo verso l’unificazione del mondo, come base di una grande trasformazione socialista, è annegata senza possibile salvataggio o nostalgia, questa ricchezza di diversità torna ad appassionare, non foss’altro perché – come i piccoli paesi – mostra tanti e diversi modi di essere della proprietà e delle forme della produzione e della vita. La storia sarda è rimasta legata al dramma sociale che fu l’editto delle chiudende, guidato dalla idea che la ‘proprietà perfetta’ fosse una cosa progressista e facesse uscire i sardi dal feudalesimo.

Ma allora perché non si festeggia? Come mai sono leggi votate quasi all’unanimità? L’impressione è che siano leggi di ‘principio’ e non di progetto finanziato, che chiederanno leggi ulteriori che per ora non si vedono. Speriamo di no. Per ora la vera legge dei piccoli comuni è ancora quella della loro tendenza all’abbandono, al crollo, al deserto.

Ho usato due espressioni: piccoli comuni e piccoli paesi. La rete che qui cerca di testimoniarsi riguarda i piccoli paesi. I comuni sono realtà istituzionali, hanno sindaci che non sempre amano queste problematiche, hanno reti loro dentro l’ANCI. I piccoli paesi invece non sono istituzioni sono – più o meno – comunità. Concetto ambiguo e difficile. Diciamo che i paesi della rete che stiamo costruendo aspirano ad essere comunità nel senso della Convenzione di Faro del 2005, che in questi giorni si sta cercando di sollecitare all’approvazione da parte del Parlamento. Sono quelle comunità che in Italia vengono dette di ‘eredità’, e che riguardano il patrimonio culturale materiale e immateriale (quello oggetto dei riconoscimenti anche dell’UNESCO). Noi ‘esperti’ le chiamiamo più spesso ‘comunità patrimoniali’. La rivista Antropologia Museale ha proposto nell’ultimo numero 37-39 del 2017 proprio una riflessione su “Le comunità patrimoniali”. L’idea che guida questo concetto è già praticata nelle realtà locali che hanno avuto dei riconoscimenti Unesco, basati sulla esistenza di una comunità e sul suo consenso informato. Ma la Convenzione di Faro dà a queste ‘comunità’ uno statuto riconosciuto dall’Europa:

      a. cultural heritage is a group of resources inherited from the past which people identify, independently of ownership, as a reflection and expression of their constantly evolving values, beliefs, knowledge and traditions. It includes all aspects of the environment resulting from the interaction between people and places through time;
    b.  a heritage community consists of people who value specific aspects of cultural heritage which they wish, within the framework of public action, to sustain and transmit to future generations.

È chiaro in queste parole un riconoscimento per l’azione di gruppi di persone che si fanno, diventano, ‘comunità patrimoniale’: una sorta di soprintendenza della società civile, nata dalla ‘agency’ di cittadini che hanno a cuore il patrimonio.

Oggi per chi vi opera, i piccoli paesi sono reti di associazioni attive sul territorio, e queste associazioni si sentono di rappresentare l’identità, non la istituzionalità dei luoghi, e quindi il paese e non il comune. Ma la legge sui piccoli comuni, se ben gestita, può essere l’occasione per mettere in rete varie realtà, e per affrontare quel gap di cittadinanza che ancora è assai forte per chi vive in queste amate e difficili ‘periferie’ non delle città,  ma rispetto alle città.

Questo senso di una comunità in cammino è forte nelle pagine che raccontano l’esperienza di Flamignano nel reatino, come una storia di persone che dopo le sconfitte della modernizzazione e dell’emigrazione tornano a investire sul proprio territorio, e nella loro azione lo ridefiniscono, lo attivano, proprio come fa una comunità patrimoniale.

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Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

Forse questa Italia delle iniziative locali non piace a tutti, molti ci sentono ancora il sentore dello ‘strapaese’ che tanto infastidiva Antonio Gramsci [1], molti pensano che c’è del leghismo, del kitsch, ma non tutti pensano che queste attività sono nate intorno agli anni ’90  e oltre, a 60 anni dalle note critiche di Gramsci, e sono nate tutte dalla esperienza della crisi dei processi di modernizzazione. Sono quindi comunità vaccinate, filosoficamente consapevoli – anche quando hanno qualche traccia di primordialismo – della diversità culturale che valorizzano. L’esperienza del REIL (Registro delle Eredità Immateriali Lombardia) che ho potuto vedere in un contesto pubblico di valorizzazione di comunità locali (merletto, campanari, carnevale, marionette, saperi della montagna…) mostra una alta consapevolezza di operare contro corrente, e di svolgere una attività di resilienza, finalizzata a resistere alle città, alle multinazionali, alle grandi correnti del commercio, e guardare di nuovo al mondo ‘dal quale veniamo’ o meglio, secondo il titolo di un film dedicato al Museo Guatelli, ‘al mondo che abbiamo perduto’ [2] da ritrovare  con la creatività, le tecnologie e l’esperienza di un nuovo tempo.

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Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

Forse sono le pagine di Vito Teti a darci il senso che nulla è perduto ma che tutto potrebbe esserlo. Il senso di una sospensione, di una occasione che ci è data, di invertire un processo ormai molto, troppo avanzato. Nello stile stesso della sua scrittura – sempre in movimento, in viaggio – Teti porta sempre con sé passato e presente, idee e spazio fisico, dirupi e mare, alberi e vento. In questo muoversi della scrittura sembra delinearsi un senso di speranza senza ottimismo. In luoghi che sono schiacciati dalla storia del loro traumatico e ciclico franare, del loro indimenticabile crollare – dal tempo della Roma repubblicana, a quella imperiale, alla decadenza dell’impero e alle  ‘immigrazioni’ barbariche, al Rinascimento, al neoclassicismo, al Romanticismo, all’epoca del moderno –  in queste terre, sempre, la terra ha tremato. Ma nel paese del vento e dell’olmo, è stato il vento a colpirmi con la sua potenza metaforica.

Col vento ci si vive; a Cagliari il vero vento è il Maestrale, dura sempre un numero di giorni dispari, va verso il largo, trascina tutto, sibila o urla, minaccia le barche e le navi.

Per Vito Teti i venti disegnano il cielo giocano e formano le nubi:

«le correnti e i venti che si formano e giocano tra terra e cielo, creano quei cirri e quelle pecorelle ora stabili ora volanti che sembrano volere distrarti, farti perdere e smarrire, incantato, indeciso se guardare il mare, le vallate, le colline, i monti, le casupole e le campagne che solo di rado diventano orti e ancora si offrono con le piante di ulivi secolari, di uva, di fichi e più in basso di agrumi».
 Bobbio Pellice.

Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

In una frase tutto è in movimento, e lo sguardo vede la pluralità ineludibile dei luoghi e delle storie. Teti ci conquista con le storie garibaldine di San Lorenzo, come se volesse ricordare che in vari tempi in Calabria il coraggio di alcune persone ha cercato di cambiare il verso delle cose. E continua a dirci che in ogni luogo c’è una storia di generazioni, anche invisibile, c’è una stratificazione cui riferirsi per tirare fuori dal passato le risorse che servono al futuro. Risorse come il coraggio, il fare azioni che non si lasciano intimidire, che guardano al cambiamento, che non accettano il senso comune e il suo pesante discorso.

Il vento è stato qui anche il vento della rivolta, il vento della lontananza (quello che cantava Modugno), il vento della fine. Ma in questo paesaggio di cielo e mare, di fichi e di uva e di agrumi, preferiamo vederlo come il vento della speranza.

È forse lo stesso vento che spinge Luca Bertinotti, e l’Associazione 9cento, che si occupa di paesi abbandonati, a titolare ‘Da borghi dimenticati a borghi ritrovati’, che somiglia alla ragione per cui nella nostra rete preferiamo parlare del ‘ritorno’ anziché della partenza. Che pure continua. Bertinotti presenta una davvero ampia esperienza di indagini, suggerisce tipologie, mostra che non ci sono regioni immuni dall’esodo e dall’abbandono dei paesi e propone un convegno  che accomuni esperienze plurali della società civile e della ricerca.

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Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

Le sue pagine interrogano anche la mia esperienza diretta di borghi abbandonati, che comincia con lo stage di didattica della ricerca in Val Germanasca [3] e tuttora continua quando vado in Val Pellice, la terra di mia moglie e di sua madre. È l’esplorazione del bosco e delle campagne di Bobbio Pellice che mi fa sperimentare anche il fascino dell’abbandono, quello dal quale ci guardiamo, perché pensiamo al ritorno, al riabitare, al frenare il dissesto sia idrogeologico che umano e sociale. Continuo a fotografare quelle rovine, che forse sono piuttosto delle macerie (tenaci), e mi chiedo se appartengo al mondo romantico degli ammiratori delle rovine, o al mondo nostalgico delle bellezze del passato. Ma non è così, io credo al presente delle piccole comunità minacciate e sospese nella loro capacità di cittadinanza e di vita. Credo anche alla loro voglia di cambiamento, di non essere solo dei custodi di forme precedenti. Di rileggere il loro mondo a modo proprio come sempre fanno i figli e i nipoti rispetto ai padri. Eppure quelle case di pietra, quei tetti di ‘gneiss lamellare’, Ortogneiss Lastroide,  detta pietra di Luserna (attività di estrazione molto vivace ancora, in cui opera  un importante gruppo di cinesi ), da un lato, aprendo le porte in legno non più curate, dicono a chi guarda: mai più così. Come si può più immaginare di vivere senza le tecnologie del caldo, della luce, le reti idriche, senza un eccesso colposo di ideologia (che pure si trova ancora in esperienze cominciate negli anni ’70). Nessuno di coloro che ci hanno abitato ci tornerebbe. Così è nelle poesie sul dolore del lavoro e sulla fatica della transumanza nel testo di Adriani, Morelli e Massimetti sulle lenticchie.  Così le donne di Armungia, che si scandalizzavano per il mio elogio delle antiche case in pietra e mi descrivevano la fatica ‘sporca’ del rifare i pavimenti in terra battuta, con fibra vegetale e deiezioni della stalla.

Eppure quelle case di pietra della Val Pellice si fanno guardare anche in un modo diverso suggeriscono anche un’altra domanda: dove hai visto una architettura ‘organica’ così equilibrata, una edilizia senza progetto così nitida, una arte popolare dell’abitare così equilibrata?

C’era la povertà, le malattie, il disagio, ma queste case erano a costi bassissimi, legate al mondo circostante, quasi parte di esso, fatte con arte da saperi esperti elaborati sul territorio. Non confondete la miseria con lo straordinario equilibrio (si può dire bellezza?) di questi edifici, dicono le case abbandonate di Bobbio.  E si immaginano imparentate alla lontana con le case di Armungia, e di tanti altri paesi citati nel saggio di Bertinotti, fino ai  casali peloritani:

«Un inestimabile giacimento di cultura e natura in gran parte misconosciuto, e in molti casi rinnegato e offeso, ecco cos’è l’arcipelago dei 48 casali peloritani di “mezzogiorno” e “tramontana”» (M. Sarica, vedi infra).
 Bobbio val di Pellice

Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

Mi dicono le case abbandonate di Bobbio: ti ricordi le letture giovanili di Frank Lloyd Wright sulla casa fatta di materiali del luogo, inserita nel paesaggio del luogo, quasi parte viva di esso? Queste case e questi borghi della Val Pellice da cui sembra la gente sia precipitata a valle quasi spinta da un cataclisma, contengono una razionalità edilizia incredibile. Legno, pietra, gneiss. Qui si usavano la fiamma, il fumo, il freddo, il bosco, la pioggia, si curava il fiume. Si viveva con cicli razionali di erbe foraggere e bestiame. Non è il fascino delle rovine, ma forse quello dell’incontro tra razionalità e equilibrio estetico che qui è evidente e che si perde nelle città. Quello che Leroi-Gourhan riconosceva come base di ogni bellezza: una estetica funzionale [4].

E così quelle case non ci affascinano come rovine (o almeno non solo), ma ci insegnano le ragioni della bellezza del mondo delle cose pratiche e di quello delle differenze culturali che si connettono alle differenze degli spazi, dei luoghi. In termini antropologici direi: ci trasmettono il senso di una civiltà passata che aveva uno straordinario equilibrio nel rapporto con l’ambiente e con l’abitare. È quanto ci racconta anche sul rapporto tra città e campagna, in un quadro molto più ampio, il testo di Mario Sarica sui peloritani:

«L’esito di questa ininterrotta relazione simbiotica fra “città” e “campagna”, fra “ascese” e “cadute”, un profilo identitario etnoantropologico messanensis singolare, in grado di fare interagire l’“alto” e il “basso”, il “colto” e il “popolare” , “urbanità” e “ruralità”, dentro un quadro simbolico e valoriale fondativo sostanzialmente condiviso dall’insieme variegato della comunità messinese, per intenderci, dalla classe del “contado” a quella “nobile-mercantile urbana” » (infra).

Questi grandi equilibri di civiltà del passato, sono anche l’oggetto della riflessione dei territorialisti contro l’urbanizzazione selvaggia e la perdita del rapporto tra città e zone interne.

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Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

A partire da un volume di Giacomo Becattini, economista, curato da Alberto Magnaghi, urbanista [5], questi temi del passato diventano obiettivi futuri di un mondo dei piccoli paesi che non vuole essere autoreferenziale:  si riflette sui territori come grandi depositi storici di risorse e competenze accumulate per generazioni, di saperi dimenticati, di funzionalità messe in ombra dal mercato mondiale e evidenziate dalla crisi. Tornare ai prodotti di un mondo vicino e qualitativo come quello delle zone interne rurali è quasi una necessità, anche se ancora non del tutto percepita. Anche la legge sui piccoli paesi difende giustamente il loro diritto alla vita e alle pari opportunità, ma non evidenzia che la resistenza e la rinascita dei piccoli paesi sono anche nell’interesse delle città sia perché le conseguenze dei rischi di dissesto le raggiungono, sia per tutti gli approvvigionamenti e la qualità del consumare e del vivere.

Pensando a un grande equilibrio in un piccolo paese di oggi mi viene in mente il comune di Pigna nella Balagna corsa (160 abitanti). Perché qui una comunità, per lo più di artisti e artigiani, insediata intorno al 1964 in seguito all’abbandono, ha creato un nuovo mondo, ma basato sul rispetto creativo delle razionalità esistenti in quello vecchio (vedi il testo di Toni Casalonga in Dialoghi Mediterranei n. 28).

Parigi e Barbiana

«Il signor Palomar è nella sua bottega dei formaggi di fiducia, per la precisione è in coda e aspetta pazientemente il suo turno. Vuole comprare quei formaggini di capra sott’olio, quelli conservati in quei bei vasi di vetro con tutte quelle spezie che galleggiano. Più che una bottega di formaggi, a onor del vero, questo negozio parigino è un museo, un luogo sacro. Già l’insegna – che recita “Spécialités froumagères” –  avverte che qui non ci si limita a mozzarelle e tomini, qui c’è tutto il sapere, l’essenza del formaggio.
Palomar si sente come un autodidatta davanti a un’enciclopedia: potrebbe classificare tutte le forme, le consistenze, i tipi di croste, gli ingredienti coinvolti nella pasta dei formaggi, come pepe, noci, uva passa, erbe, sesamo e muffe, ma ciò non basterebbe a raggiungere la conoscenza dei sapori – che è fatta principalmente di memoria e immaginazione. Il signor Palomar pensa che in ogni formaggio c’è un pascolo, un cielo, e un segreto diverso tramandato per ognuno da secoli e secoli. E allora tira fuori un taccuino e ad ogni nome di formaggio aggiunge una nota, una forma, un colore che gli faccia ricordare» [6].

L’idea di Calvino ricapitola, a partire dagli esiti finali (i formaggi), l’idea di Giacomo Becattini dei territori come dotati di risorse e differenze elaborate nei secoli e incorporate nella esperienza delle generazioni. Contiene un’idea del valore delle differenze culturali che oggi torna ad essere difficile. Infatti negli anni ‘90 era maturata la consapevolezza che la lotta per l’uguaglianza (il moderno) aveva avuto importanti successi, ma spesso a danno della lotta per la differenza (il post-moderno), e che quest’ultima oggi ha nuove e fondamentali ragioni. Oggi la crisi sta facendo decollare di nuovo grandi differenze sociali e quindi riattiva la reazione per l’uguaglianza. Ma date le condizioni di base della società attuale, di generazioni e luoghi, questa andrebbe coniugata in direzione della ‘coscienza di luogo’ piuttosto che non della ‘coscienza di classe’.

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Bobbio Pellice (ph. P. Clemente)

La Parigi del racconto del signor Palomar, può essere interpretata come simbolo dell’egemonia della diversità culturale e territoriale. Parigi, la città simbolo, la città-mondo, testimonia la grande diversità dei ‘pascoli, cieli, segreti’ che può mettere in scena. I formaggi sono i mondi locali, le zone interne, sono la biodiversità, sono la varietà del paesaggio, sono il lavoro e il know how, e la loro presenza a Parigi ricorda a tutti che il mondo che vale la pena di vivere si produce nelle periferie. A Parigi un giorno anche i formaggi di Barbiana potranno  stare  in vetrina, senza sentirsi da meno.

La crisi – si diceva – ha duramente rilanciato la domanda: “Chi sono gli ultimi?”. Quelli ai quali appartiene il regno dei cieli. O almeno la passione cristiana di Don Lorenzo Milani.

Per me ventenne gli ultimi erano I Dannati della terra, e lo sono ancora, e alcuni di loro vengono anche da altitudini montane come quelle eritree ed etiopi, e anche di più visto che  sono diventati pellegrini ad alto rischio di strade nel deserto, che portano a morire nel Mediterraneo o ad essere reclusi nei paesi che ci sia affacciano. Ma come accogliere questo nuovo mondo di ospiti dolorosi. Forse ancora una volta è alla coscienza di luogo che ci si deve rivolgere. Sono i grandi spazi dell’abbandono che forse possono essere aiutati a rinascere dai migranti. Già il Teatro Povero di Monticchiello è impegnato in un progetto che riguarda otto giovani africani. Già abbiamo racconti quasi mitici di alcuni paesi calabresi che accolgono migranti che fanno rinascere artigianati e orti.

Don Lorenzo è alle radici della mia storia. In lui coscienza di classe e coscienza di luogo si identificavano, i ragazzi di Barbiana erano gli ultimi per strato sociale e per luogo abitativo. Alla sua Lettera a una professoressa ispirai la mia prima relazione davanti a un’assemblea di studenti cagliaritani che, nel 1967, aveva già il sentore della primavera e del maggio del ’68. E a quelle parole sono tornato a Firenze nello spettacolo dei Chille de la Balanza, al San Salvi, l’ex ospedale psichiatrico della città. Così l’ho raccontato su Facebook:

«Siamo immersi in uno spazio scuro. Circa 20 persone. Davanti c’è Claudio Ascoli, c’è la sua faccia, la sua voce che sussurra ma a tratti è potente, urla, il suo corpo che si presenta a testimone di qualcosa, forse di una memoria, di una storia. Claudio Ascoli è “Chille de la Balanza”, con Sissi, Monica, Matteo e altri. Un teatro che viene da lontano (Napoli, gli anni ’70) e si è radicato qui.

Sono allo spettacolo teatrale Lettera a una professoressa che si svolge a San Salvi: l’ex Ospedale Psichiatrico di Firenze, dove passa ancora una frontiera per difendere la memoria e la storia  dell’istituzione e della liberazione dei matti

Era il 13 dicembre scorso, Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia. Il ciclo invernale è quello giusto per ricordare i morti, per averli ancora con noi. Don Lorenzo Milani è morto nel 1967, e l’opera collettiva Lettera a una professoressa è nata quasi insieme alla sua morte, come una rinascita. Quell’anno introducevo la prima grandissima assemblea studentesca cagliaritana – che apriva al ’68  – citando la Lettera dei ragazzi di Barbiana.

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La scuola di don Milani

Claudio Ascoli in scena – con don Milani – evocava un pezzo della mia vita. Giocava il libro in tantissimi modi, era lettore, conferenziere, prete che denunciava la scuola di classe, il suo era un recital, una conversazione, un pezzo di teatro anni ’70 con gli spettatori coinvolti nella scena, ma con anche una istallazione e una citazione iniziale e finale di una sorta di body art. Claudio era sé stesso – che vuole cambiare il mondo  – ed era Don Lorenzo che lo voleva almeno  educare. Sempre attorialmente perfetto. E Don Lorenzo era Christus furens più che Christus patiens. Lorenzo che toglieva la croce dalla stanza dove insegnava, per rispetto dei non credenti. Che attaccava gli insegnanti che stavano dietro solo ai Pierini figli di papà (come ero anche io, il sessantotto è stato in buona parte l’anno dei pierini rivoltati) e trascuravano i poveri. A me vecchio militante dismesso questo spettacolo faceva venire la voglia di tornare ad essere in un grande progetto comune. Ma quale? Esibendo il suo corpo, il movimento delle mani verso le immagini di un video con la voce di Don Milani, o verso l’installazione finale prodotta in scena con fiamma ossidrica, Claudio Ascoli sembrava volesse comunicarci qualcosa che non si può dire a parole, che dobbiamo cercare dentro noi stessi. Qualcosa di sacro aleggiava su di lui e su di noi, quel tavolo era anche l’ultima cena? L’ultimo giaciglio di Don Lorenzo? O era Agape e il sogno rinato di una commensalità delle genti del mondo?

La domanda che mi sono posto è, oggi, quando non esistono più ragazzi di Barbiana da molti decenni: chi sono i nuovi ‘montanari’, con la loro cultura che si misura con la modernità? Forse non ci sono più, forse sono i migranti. Per la mia parte sono anche un po’ i ‘piccoli paesi’ a rischio estinzione di cui mi occupo da qualche tempo. Dove le culture della diversità, travolte, vengono re-imparate per dare speranza di vita e far diventare centri quei mondi marginali. “Sortirne tutti insieme è la politica” – diceva il coro polifonico delle voci di Don Lorenzo e dei ragazzi di Barbiana – “sortirne da soli è l’avarizia”. E questo comunque resta sempre vero anche dopo i cinquanta anni che sono passati dalla morte del Priore e dall’uscita del libro».

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Ho cercato di confutare l’antipaese di Gramsci in un testo P. Clemente, Paese/paesi in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Struttura ed eventi dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1997: 5-39.
[2] Pietro Medioli, Il mondo che abbiamo perduto, Komedì produzioni, 2000,  il film ha una dedica di Werner  Herzog: «La bellezza degli oggetti della vita quotidiana che noi abbiamo ignorato ed il loro valore che noi non abbiamo riconosciuto ce li ha mostrati un semplice uomo di campagna nelle vicinanze di Parma. Il suo nome: Ettore Guatelli. Che l‘Italia abbia in quest‘uomo un tesoro vivente ce lo mostra il coinvolgente film di Pietro Medioli Il Mondo Che Abbiamo Perduto». 
[3] C. Bromberger, D. Dossetto, S. Dalla Bernardina, Gens du Val Germanasca. Contributions à l’ethnologie d’une vallée vaudoise, Grenoble, Centre Alpin et Rhodanien d’ethnologie, 1994, la ricerca era avvenuta nel 1981 e 1982
[4] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola: 1 Tecnica e linguaggio, 2 Memoria e tecnica, Einaudi, Torino, 1978.
[5] G. Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, con alcuni testi di Alberto Magnaghi, Roma, Donzelli, 2015
[6] Italo Calvino, Palomar, Milano, Mondadori, 1994 qui da:  http://www.mangialibri.com/libri/palomar
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la  Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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