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Chi di rubbar non sa, non vada a mare …

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2022 @ 01:25 In Cultura,Società | No Comments

Pescispada catturati nella tonnara di Bonagia, anno 1998 (ph. Ninni Ravazza)

Pescispada catturati nella tonnara di Bonagia, anno 1998 (ph. Ninni Ravazza)

di Ninni Ravazza [*]

In questa storia non ci sono epigoni di Ermes, il dio dei ladri. Non di cinquanta vacche sottratte ad Apollo scriverò, né di audaci furti perpetrati nottetempo quando uomini e dèi hanno affidato la mente al sonno [1]. Abbandonata l’epica per una molto più prosaica cronaca di fatti minimi, modesti, condannati al ruolo di miserando corollario di grandi imprese, faremo un viaggio nel mondo ignoto ai più delle piccole furberie messe in atto da marinai e pescatori per approfittarsi di un granello di quella ricchezza che vedevano sfilare davanti ai loro occhi, sui vascelli delle tonnare o sulle tolde delle feluche armate a corallo, potendone solo percepire l’odore acre e desiderato.

Storie marginali ma che hanno fatto da corollario alla storia della marineria, tanto da fare dire al palermitano Marchese di Villabianca, acuto cronista del XVIII secolo, «chi di rubbar non sa non vada a tonni», a significare la valenza sociale ed economica per le classi subalterne dei piccoli furti commessi nelle tonnare: «… la turba tutta marinaresca […] oltre alla paga meritata dai lor sudori, credono spettargli per diritto d’antiquato abuso, e di nulla parte di cortesia che non conoscono i marinari, tutta quella robba che furtivamente e di soppiatto ai sguardi de’ custodi possono cattarsi» scrive in uno dei suoi Diari Villabianca, secondo il quale il trito motto prima riportato «quieta e serena in tutto e per tutto la giustamente commossasi loro coscienza» [2].

Coevo di Villabianca e anch’egli profondo osservatore del rapporto fra uomini e natura, ma nell’altra grande isola mediterranea sede di importanti tonnare, la Sardegna, anche l’abate Francesco Cetti nel 1778 scrivendo della pesca del tonno riserva intere pagine alla prassi del furto nelle tonnare: «… si può dire, che ognuno è ladrone alla tonnara […] Il furto non vi è una ignominia, né un delitto soggetto a pene: il rubatore colto col corpo del delitto soggiace solo a perderlo, né questo perde, se già il tiene dentro della baracca». C’era un patto tacito tra proprietari delle tonnare e tonnarotti, dice Cetti: «La mercede che il padrone accorda alla sua gente, per patto, non corrisponde alla fatica […] e perciò il padrone permette la ruba, sotto la condizione di non essere scoperta: e perciò come a cosa mezzo lecita non le si dà l’odioso nome di furto, ma si chiama semplicemente busca» [3].

Francesco Carlo D’Amico, duca d’Ossada, nobile siciliano che tra Sette e Ottocento fu proprietario di “ubertosi” impianti nel messinese e vero appassionato di questa pesca, conosce benissimo gli artifici messi in atto dagli operai per impossessarsi della parte più preziosa del tonno: «Alcuni Padroni di Tonnara per ovviare le frodi nel tagliare la sottile, e fare resultare un maggior prodotto delli scorcilli convengono, con li maestri di dar loro il 5 o il 6 per ogni cento barili di sottile, o in barili di scorcilli, o in denaro» [4].

Grosso Pescespada catturato nella tonnara del Secco, anni ’50 (ph. Valeria Plaja, dal libro “San Vito lo Capo e la sua Tonnara …”)

Grosso Pescespada catturato nella tonnara del Secco, anni ’50 (ph. Valeria Plaja, dal libro “San Vito lo Capo e la sua Tonnara …”)

I furti di parti del tonno o di piccoli pesci “scamali” finiti tra le reti venivano chiamati “procacci” codificandoli e dunque quasi riconoscendone la liceità, o quantomeno assimilandoli a una prassi consueta e in quanto tale non censurabile perché rientrava nella “panatica” dei tonnaroti: «Li Musciari, che sono quelli, che assistono alli Rais, hanno per tutto l’intiero corso della pesca oncie 5 od oncie 5.15 e grani otto di pane il giorno franchi, e li furti chiamati da loro procacci», scriveva il duca D’Ossada nel suo “Osservazioni” [5].

Comportamenti siffatti presuppongono sempre un rapporto ravvicinato, “fisico” addirittura, tra modesto pescatore/marinaio addetto ai lavori più umili e produzione abbondante e ricca della pesca: in questo senso la prassi del “furto” assume un rilievo economico – ma anche letterario, come abbiamo visto – soprattutto in due pratiche alieutiche dove alla ricchezza del “padrone” fa da contraltare la miseria dei lavoratori, cioè la pesca del tonno e quella del corallo. Anche in altre circostanze nell’attività di pesca vengono registrati accadimenti simili, ma certamente senza la rilevanza economica (e pure sociale) che hanno avuto nelle due pesche “speciali” di cui parliamo (l’indebito appropriamento di piccoli pesci catturati con la rete o con la fiocina non intacca se non minimamente il valore del pescato).

Del corallo parleremo in una seconda parte dello scritto, qui restiamo nel mondo delle tonnare e dei tonnaroti attingendo le notizie da fonti documentali e narrazioni orali a riprova che a distanza di secoli, fors’anche millenni, a mare nulla si distrugge, tutto continua a scorrere pressoché identico a se stesso come se il tempo non passasse. Una cultura – in senso lato – che cresce stratificandosi, non cancellando ciò che c’è stato prima.

Lo sventramento di un Pescespada nella tonnara di Bonagia, anno 2001 (foto Ninni Ravazza)

Lo sventramento di un Pescespada nella tonnara di Bonagia, anno 2001 (ph. Ninni Ravazza)

La “busca” nelle tonnare trapanesi

Il 1912 è un anno particolare per la tonnara del Secco a San Vito lo Capo, allora di proprietà della famiglia Foderà di Castellammare del Golfo, che possedeva anche l’impianto di Magazzinazzi e deteneva quote di quello di Scopello (tre delle quattro grandi tonnare del golfo, l’altra era Castellammare; i proprietari erano tutti imparentati fra loro).

Quell’anno spariscono non interiora o tagli di tonno, ma decine di chili di pesce “scamale”, quei pescetti senza squame (da qui l’appellativo) di valore minimo che pure finivano tra le reti ed erano destinati a premio per la ciurma dei tonnaroti (“aghiotta”), a regalìe o al mercato quando la quantità lo suggeriva. Un avvenimento davvero minimo che non avrebbe trovato spazio nella storia se don Nenè Bergamini, amministratore di casa Foderà, non lo avesse registrato con dovizia di particolari nel “Giornale” quotidiano della tonnara, che è arrivato fino a noi ed è diventato il cuore dell’unico libro dedicato a quell’impianto [6].

È il 5 maggio e fra le reti salpate all’alba finiscono 1.182 chili di “Sarelli” (Sugarelli), 20 chili di “Uope” (Boghe), 50 “Bisi” (Tombarelli); questi ultimi vengono regalati alla ciurma (30) e inviati come regalo a persone di San Vito (20). I Sugarelli e le Boghe vengono mandati a Castellammare del Golfo con una “mociara” della flotta, comandata da tale Leonardo Galante, per la vendita. Al tirar le somme, però, l’amministratore registra un notevole ammanco, e di questo chiede conto al comandante della mociara:

«Alle ore 8 interrogavo il Galante per giustificarsi della mancanza di sarelli in Kg 172 e delle ope in Kg 8 minacciandolo finanche di farglieli pagare. Il Galante giura e spergiura che ne lui ne i suoi compagni ne hanno preso ne venduto e porta a testimoniare Salvatore Compagno di S. Vito marinajo ajutante e il Nipote di Munna che con lui era andato a Castellammare con i 50 bisi più la moglie di Vito Di Stefano ns. dispensiera che con la stessa mociara erasi recata al paese. Dice ancora essere testimoni Santi Mattarella, Peppino Vasile ed Altro di quanto gliene rubarono i ragazzi a Castellammare tanto che Santo e Vasile diverse volte si misero a cimento con detti ladruncoli» annota nel Giornale Nenè Bergamini, che però non crede alla versione dei marinai: «Intanto il fatto inesplicabile è che qui detto pesce fu da me pesato esattamente con la ns. basculla, che oggi presente Rais Cicco ed Arcangelo ho scandagliato in mille modi trovandola con mia soddisfazione esattissima con la stadera bollata, e quindi ammettendo uno sfrido anche del 5 per % su Kg 1182 sarebbe Kg 60 ammettendo anche un furto a manate di cui 10 a 20 Kg, sarebbero un ammanco di 70 a 80 Chili; mancarono invece 172 quindi per mia considerazione debbo dire
1°  O che il Galante abbia venduto a qualche barca di palangaro lungo la via d’accordo tutti
2° O che la stadera di Castellammare aveva un romano cambiato
3° O che Santi Mattarella e Vasile sopraffatti dalla marmaglia si siano fatti rubare di faccia a faccia e per vergogna davanti al Padrone si faccia ricadere la colpa sul Galante conduttore della mociara.
Il Rais è convinto per conoscenza che ha del Galante che questo non sarebbe capace d’una simile azione. Quindi si rimarrebbe nella 2 ipotesi volendo prestare fede ai giuramenti di Galante e alle asserzioni degli altri. Questo è quello che mi risulta della ns. inchiesta. Il Rais continuerà ad indagare ma è mia convinzione che non riuscirà a nulla. Si dovrebbe più tosto domandare a Santo se è vero il fatto del furto dei ragazzi e dire con la massima franchezza più o meno l’entità di esso» [7].
Pio Solina e il rais Mommo Solina a Bonagia, anno 1995 (ph. Ninni Ravazza)

Pio Solina e il rais Mommo Solina a Bonagia, anno 1995 (ph. Ninni Ravazza)

Non è semplice quantificare il danno finanziario per l’ammanco dei pesci perché nel Giornale di quell’anno non vengono registrati gli introiti dalla vendita del pesce minuto, tuttavia lo stesso amministratore due anni dopo, stagione di pesca 1914, indica il prezzo dei pesci scamali più o meno assimilabili ai Sugarelli e alle Boghe: in quest’anno le sarde vengono vendute a 0,55 lire al chilo, le acciughe a 0,75 lire (il tonno a 1,25 lire al chilo): al massimo, dunque, i 200 chili tra Sarelli e Uope avrebbero fruttato circa 110 lire.

I dispiaceri per l’amministratore Bergamini però quell’anno non si esaurirono nei pesciolini spariti. In tonnara è da sempre consuetudine eviscerare i Pescispada (delicati e preziosi) in barca, riservando al proprietario la “surra” (ventresca) che i tonnaroti del Golfo chiamavano “gola”: la carne della pancia che va dall’apertura anale alle branchie e che va tagliata sapientemente per non rovinare il pesce molto richiesto sul mercato (altrove, a Trapani e Bonagia per esempio, questa parte viene chiamata “ancidda”).

Il 15 giugno 1912 viene pescato un pescespada di 140 chili, le cui uova pesano oltre 15 chili; la “gola” viene mandata con una barca a Castellammare dove è consegnata al Padrone Leonardo Foderà, cui però perviene solo una piccola striscia di ventresca, e il giorno seguente addirittura si perdono le tracce delle “gole” di altri due Pescispada più piccoli del primo catturati in mattinata e inviate come di regola a Foderà, che per questo chiede conto al suo amministratore Bergamini che annota diligentemente tutto quanto avviene. 

«Verso le ore 18 telefona il Padrone anzi di mattina prima il Padrone mi avvisa che la gola del grosso pesce spada di Kg 140 che mandaj con la barca di Cosimo Randazzo il giorno avanti avendola pesata gli risultò ½ Kg e ½ rotolo e mi domanda spiegazione del fatto. Io rispondo per la verità che la gola era stata tagliata un po’ stretta e non come si doveva all’arte ma non avendola pesata non potevo precisare il peso di essa, pur non di meno ricordando precisamente la forma di essa anche per averla appesa al muro quando me la salirono sopra ed essendo rimasta la forma cioè il segno della parte inferiore venendo qui detta gola avrei potuto dire se era realmente quella che era partita di qua, ma che pesasse ½ rotolo mi sembrava veramente poco, quindi si restò di mandarmi qui detta gola per controllarla»; – per Nenè Bergamini però le ambasce quel  giorno non erano concluse: «Alle ore 18 come dissi avanti mi telefonò dicendomi il Padrone che le altre 2 gole mandate con la mociara non gli sono pervenute. Chiamo Castellammare a Galante il quale mi dice di averle date a Battiata chiamato Battiata dice di averle date ad un ragazzo a tenerle e in mezzo gli amici scomparve il ferriolo. Cose dell’altro mondo che non si erano mai sentite. Comunque domani venendo la mociara qui prenderemo una determinazione per punire il Galante e il Battiata facendogli pagare le 2 gole e di …  facendogli una buona fraterna» [8].

In questo caso non di guadagno sembrerebbe potersi parlare per la sparizione delle “gole”, ma piuttosto di una sorta di rivalsa di chi quel prodotto mai e poi mai se lo sarebbe potuto permettere, una sorta di smacco al “Padrone”.

Tonnara di Libia, anni ’30 (grazie all’avv. Nicola Di Vita)

Tonnara di Libia, anni ’30 (grazie all’avv. Nicola Di Vita)

I “procacci” di Allah

Tutto il mondo è paese. Fino agli anni ’70 del secolo scorso le tonnare di Libia (e Tunisia) erano di proprietà italiana, e italiani erano i rais e i capibarca mentre buona parte della ciurma era araba. Tonnare estremamente pescose, ciascuna con caratteristiche proprie, alcune pescavano non molti tonni ma enormi, altre tanti ma più piccolini. Il comune denominatore era la grande quantità di pesci “scamali” catturata, soprattutto Palamiti e Alletterati ma anche Alalunghe, tunnìdi dal peso di 5, 10 e più chilogrammi. Migliaia di esemplari che venivano in piccola parte venduti in fresco ma primariamente inscatolati ed esportati in Italia. Una ricchezza complementare per gli imprenditori che nella voce “catture” inserivano a pieno titolo questi pesci.

Dal 1962 al ’65 Pio Solina, capobarca del rais di Bonagia Mommo Solina col quale costituiva una delle coppie di tonnaroti più famose dell’intero Mediterraneo, andò a lavorare nelle tonnare libiche del Principe di Paternò, a Zanzur e Marsa Thela; lui stava sempre sulla barca dei rais che ne apprezzavano la competenza e anche la grande capacità di mantenere i rapporti umani con la ciurma, fossero i tonnaroti italiani o arabi. Questi ultimi in occasione di ricche pescate di pesci scamali solevano portarsene il più possibile a casa, e per farlo li nascondevano nei larghi pantaloni legati alla caviglia; alla conta finale veniva a mancare così qualche decina di chili di Tombarelli, Alalunghe e Palamiti. Poca cosa di fronte alle migliaia che se ne pescavano, ma non tutti i rais tolleravano questa usanza, un po’ per fedeltà al padrone e un po’ per affermare la propria autorità.

Uno degli anni in cui Pio Solina lavorò in Libia, nella tonnara di Zanzur fra le reti finirono migliaia di Palamiti, pesci da 10 chili in media, tanti da fare delle mattanze solo per loro; rais era il favignanese Giuseppe Rallo, estremamente rigido quanto a regalìe alla ciurma. Già una prima volta aveva risposto picche alla richiesta di mangerìa da parte dei tonnaroti arabi e questi gliel’avevano giurata. La volta successiva nella camera della morte finirono più di 500 Palamiti enormi, tutti di peso superiore ai 10 chili, e anche in quella occasione la ciurma chiese di approfittare di questa ricchezza invitando il rais a «girare la faccia a tramontana» (guardare dall’altra parte mentre loro si dedicavano al piccolo furto), ma il rais Rallo fu ancora irremovibile: «con me non si tocca niente!». Al ritorno a terra però, stranamente, sembrava che le barche stessero per affondare per quanto erano basse di bordo e lo stesso rais Giuseppe Rallo si interrogò sul possibile motivo pensando che gli scafi fossero pieni d’acqua. Cosa avvenne in realtà lo racconta Pio Solina che un paio di Palamiti li avrebbe voluti per mangiarli con gli altri capibarca siciliani: 

«Ma quale acqua? sotto le tavole la ciurma araba aveva nascosto decine e decine di palamiti, per poi andarseli a prendere di notte. Gli arabi me l’avevano detto: se capita di nuovo, facciamo andare le barche a fondo tanti palamiti ci nascondiamo […] Quando arrivammo a terra, mentre stavano scaricando i pesci dalle barche, a Zanzur arrivarono anche i tonni mattanzati in una tonnara più a levante, altri 500 pesci; i tonni erano assai, ed era impossibile sventrarli e pulirli tutti in giornata. Noi avevamo una ghiacciera in cemento, e ci chiesero aiuto per ghiacciare i tonni. Andammo in sei, tutti tonnaroti di Bonagia, tanto ci avrebbero pagato a parte per quel lavoro! […] Mancando noi gli arabi furono chiamati a lavorare dentro lo stabilimento, e i palamiti restarono tutti nascosti dentro le muciare, così di notte mi vennero a cercare, Pio – mi dissero – i palamìti chi avemo ‘nbarca ‘un ni li putemo pigghiari, arrestaro dda, com’avemo affari? dumani ammatino como facemu? Dicisti chi ‘nni vulivi due, un ti li poi pigghiri tutti?». Il capobarca Solina si trovò in grande difficoltà: «Si trattava di dodici palamiti, pesci dai 10 ai 15 chili l’uno, quasi tonnetti. E come facciamo? basta, son dovuto uscire di notte dalla ghiacciera dove ancora lavoravo, mi feci aiutare da un altro, e andai a parlare col guardiano di notte, che girava sempre armato di fucile: Viri chi stamo facenno ‘sta cosa, c’è ‘ppaura chi senti rumure e spari? Il guardiano ci rassicurò, e così pigliammo una lancia e raggiungemmo le muciare con i palamiti, li pigliammo e li scaricammo in una caletta, mettemmo i pesci nei sacchi di iuta, e ce li portammo in spalla nella nostra baracca, e li tagliammo per salarli, ma avevamo poco sale e andarono tutti a male. Per farli sparire e non fare sapere niente al rais e ai padroni li nascondemmo nella spiaggia seppellendoli sotto la sabbia, ma quando arrivò il vento di scirocco li scummigghiò, e dalla sabbia affacciarono tutte le loro spine …» [9].
Nino Castiglione, anno 1985 (ph. Ninni Ravazza)

Nino Castiglione, anno 1985 (ph. Ninni Ravazza)

Il semplice furto delle “tracchie” di un paio di tonni, l’ammasso di grasso e spine alla base delle pinne pettorali del pesce, scarto senza mercato solitamente riservato agli uomini di fatica addetti allo sventramento, a volte è costato il licenziamento ai “malfattori”.

Negli anni ’70 del secolo trascorso don Nino Castiglione, proprietario della omonima ditta trapanese di trasformazione del pescato e della tonnara di Bonagia, negò le tracchie dei tonni che aveva acquistato a Favignana ad alcuni operai che le avevano chieste dopo avere trasportato i pesci allo stabilimento: «si regalano le cose avute gratis, queste le ho comprate e pagate» disse per motivare il diniego. Da lontano però si accorse che due operai avventizi avevano nascosto quattro “tracchie” nella loro auto e l’indomani quando questi si presentarono al lavoro li mandò a casa, licenziati in tronco. Castiglione era solito fare generosi regali ai suoi lavoratori, ma in ditta non tollerava alcun tipo di furto, procaccio o busca che fosse [10].

Perseo il ladrone

Fin qui le piccole ruberie operate in tonnara, che hanno avuto risalto letterario essendo inserite in un contesto socio-economico molto rilevante, investigato da antropologi, biologi, economisti, storici e quant’altro. C’è però un’altra attività alieutica ove il furto è stato ampiamente praticato soprattutto negli ultimi cinquanta, sessant’anni: la pesca del corallo effettuata dai sommozzatori in grado di raccogliere rami del valore anche di milioni di lire (oggi migliaia di euro) ciascuno. Riuscire a trafugare uno solo di quei rami, o frammenti dei rami più grossi, ha significato incrementare notevolmente il guadagno dell’approfittatore che solitamente è stato un marinaio o l’armatore della barca corallina, senza escludere neppure gli stessi sommozzatori corallari che in qualche caso rubavano al compagno di pesca il frutto delle immersioni.

In questo caso non ci sono documenti atti ad ufficializzare quella che non era una prassi ma un furto bello e buono, ma tante testimonianze orali raccolte qui e là nei porti e sulle barche, alcune delle quali potrebbero acquisire entro breve tempo dignità letteraria con la pubblicazione delle memorie di chi ha vissuto in prima persona alcuni degli avvenimenti che di seguito si narrano, e che fino ad oggi sono del tutto inediti.

Mattanza in Libia, anni ‘60 (grazie alla famiglia del rais Giotto/Luigi Grammatico)

Mattanza in Libia, anni ‘60 (grazie alla famiglia del rais Giotto/Luigi Grammatico)

Per meglio comprendere le dinamiche in cui si sono registrati i casi oggetto di queste narrazioni, va ricordato che all’inizio (metà anni ’50) i sommozzatori corallari venivano portati sul luogo di pesca con le loro barche da marinai che in precedenza avevano trovato fra le reti i rami di corallo di cui sconoscevano il valore; successivamente molti corallari si sono dotati di comodi motoscafi sui quali imbarcavano uno o più marinai per l’assistenza e i lavori di fatica (ricarica delle bombole, cucina etc.); in alcuni casi, come nella pesca nei mari del Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco), i sommozzatori erano obbligati a fare società con armatori locali, unici abilitati a rivendere il corallo. In tutte queste circostanze si registrava una notevole differenza nei guadagni: marinai e pescatori erano pagati “alla parte” (10-15 per cento del ricavato) con in più a volte un minimo di stipendio fisso, agli armatori andava una percentuale del ricavato o del prodotto. Chi guadagnava più di tutti era il sommozzatore corallaro, che però si assumeva tutti i rischi di un’attività altamente pericolosa, con immersioni che spesso andavano oltre i 100 metri di profondità (e infatti i morti nella categoria si contano a decine). Resta il fatto che la ricchezza prodotta anche da un solo ramo di corallo era un miraggio per chi se la vedeva passare tra le mani lasciandogli solo le briciole [11].

La barca delle donnine nude

Paolo Bencini e Giovanni Maianti hanno formato per decenni una delle coppie più famose di corallari italiani; livornesi entrambi, hanno pescato in tutto il Mediterraneo raccogliendo migliaia di preziosi rami di corallo. Negli anni ’70 lavoravano nei mari di Carloforte dove la mattina spesso incrociavano la barca di Carlo D. con a bordo bellissime ragazze che preferivano prendere il sole della Sardegna senza alcun tipo di costume. Al di là della piacevolezza dell’incontro, i due corallari si chiedevano perché il collega si portasse sempre dietro alcune ragazze, che magari gli facevano ritardare l’uscita dal porto rifiutando di svegliarsi all’alba, e una sera a cena lo chiesero al diretto interessato; la risposta fu semplicissima: «con loro a bordo il marinaio non può rubarsi il corallo mentre io sono in decompressione, sott’acqua appeso alla cima della barca».

La tentazione era certamente forte: la mancanza di uno o due rami di corallo per ogni immersione difficilmente sarebbe stata scoperta dal sommozzatore, ma avrebbe regalato un notevole guadagno al marinaio che da solo poteva nasconderli tra le sue cose e poi portarseli a terra. Ovviamente i marinai infedeli erano pochi, e spesso i sodalizi col corallaro sono durati decenni creando sincere amicizie resistenti agli anni e all’usura di un lavoro difficile e pericoloso.

Ninni Ravazza in decompressione dopo una immersione a corallo, anno 2005

Ninni Ravazza in decompressione dopo una immersione a corallo, anno 2005

Sul “Rob”, un grande yacht che andava sul banco Scherchi [12] per la pesca del corallo, una volta si ritrovarono alcuni dei migliori sommozzatori italiani che avevano fatto società portando con loro anche i marinai precedentemente imbarcati sulle rispettive barche, nell’occasione lasciate in porto. Un giorno mentre erano in navigazione verso Trapani, dopo una lunga bordata di pesca, Sandro il proprietario della barca chiamò Salvatore, il marinaio che Paolo Bencini si era portato dietro, e lo invitò ad andare a prendere quel “pacchetto” che teneva nascosto sotto il materasso; il ragazzo barcollò, divenne tutto rosso ma alla fine fu costretto a obbedire e tornò in plancia con un sacchetto pieno di preziosi rami rossi. Li aveva sottratti dai coppi dei corallari messi ad asciugare … a denunciarlo era stato Manlio, l’altro marinaio da tempo imbarcato sul “Rob”, che lo aveva visto traccheggiare nottetempo. Salvatore giurò e spergiurò che lui non aveva fatto nulla e che qualcuno gli aveva giocato un pessimo scherzo ma nessuno gli credette e al ritorno a terra venne mandato via. Bencini si ricordò allora delle tante volte che il marinaio appena tornato a terra si eclissava dicendo che andava in lavanderia con la roba sporca … ora scopriva che tra i panni portava via anche la sua “busca” di corallo! «Chissà quanto corallo ha rubato a me e Giovanni Maianti mentre noi eravamo sott’acqua e lui da solo in barca», mi dirà raccontandomi quei fatti.

Corallo del Banco Scherchi (proprietà Paolo Bencini)

Corallo del Banco Scherchi (proprietà Paolo Bencini)

Quei rami venduti due volte

Raimondo passeggiava per le strade di Biserta senza un impegno preciso. Il mare era agitato e non si poteva uscire per la pesca del corallo che all’inizio degli anni ’80 era ancora abbondante nei mari di Tunisia. Con Sergio sommozzava sulle alte falesie sommerse dell’isola Galite dove a cento e passa metri i rami preziosi erano lunghi ed eleganti come le dita di un pianista, e di colore rosso sangue come la linfa vitale che ci attraversa il corpo. Alcuni rami particolarmente belli li portava a mente, ricordava perfettamente quando con la piccozza li aveva staccati dalla roccia e aveva sentito il loro suono cristallino mentre cadevano nel coppo. Quelli, i più grandi e belli, non li avevano consegnati alla guardia della dogana addetta alla pesatura del corallo, lui e Sergio se li erano nascosti a casa chiusi in uno scatolone occultato tra l’attrezzatura, se li sarebbero portati dietro al ritorno in Italia e li avrebbero venduti come fossero d’oro.

A quei rami meravigliosi pensava quando passò davanti alla migliore gioielleria di Biserta che ne esponeva in vetrina di altrettanto belli, quasi uguali, anzi identici … entrò come una furia e chiese al gioielliere chi glieli avesse venduti. «Come, non lo sai? il tuo compagno di pesca, Sergio» rispose l’uomo, che era pure proprietario di barche armate a corallo. Raimondo corse a casa, aprì il pacco e ci trovò solo pochi rami di dimensioni minori. Raggiunse Sergio nell’albergo dove assieme ad altri corallari italiani stava guardando in tivù la partita dell’Italia contro il Brasile – era il 1982 – e lo afferrò per il collo giurando che glielo avrebbe staccato se non avesse recuperato tutti i “loro” rami di corallo. Il compagno di pesca, che da allora diventò “ex”, si fece prestare un po’ di soldi dagli altri corallari (i suoi li aveva spesi tra cene e safari) ma non riuscì a ricomprare tutti i rami che aveva venduto e Raimondo si dovette accontentare del poco recuperato. Qui non c’entravano i marinai né i pescatori, il furto lo aveva perpetrato un sommozzatore ai danni di un altro sommozzatore col quale condivideva i pericoli dell’immersione profonda.

 I sommozzatori corallari Paolo Bencini e Giovanni Maianti, anni ‘80

I sommozzatori corallari Paolo Bencini e Giovanni Maianti, anni ‘80

Il corallo evaporato

Paolo Bencini ha pescato anche in Algeria, terra difficile per mille motivi. Lì i sommozzatori stranieri dovevano fare società con un armatore locale se volevano lavorare. Ne valeva la pena perché il corallo era tanto e di ottima qualità, ma ogni cosa a mare ha il suo prezzo …Con l’armatore Hassim il corallo pescato a El Kalle veniva pesato attentamente dopo averlo asciugato, poi conservato in cartoni che venivano sigillati e portati a casa dell’algerino; dopo la pesa i due si dividevano i biglietti col numero delle scatole e il peso del corallo in ciascuna di esse. Capitava ogni volta, però, che arrivati ad Algeri per la vendita da ogni scatola mancassero quattro o cinque chili di corallo, per un totale di venti, venticinque chili a partita. «Il corallo non ha le ali per volare» si lamentava Paolo, ma ogni volta era la stessa storia, Hassim faceva spallucce e l’italiano doveva fare buon viso a cattivo gioco. Era il prezzo da pagare.

Infine, una storia piccola piccola vissuta personalmente. L’anno 1979 ho pescato il corallo sul banco Scherchi con un bellissimo motoscafo messoci a disposizione da Cesare Cozzolino, un importante commerciante di Torre del Greco; con noi (al comando Rudy, poi io Giovanni e Mimmo) c’era un marinaio di nome Gianni, bravissimo e bellissimo tanto da fare strage dei cuori delle ragazze che passeggiavano per la marina di Trapani. Il suo stipendio era di 500 mila lire al mese, più un regalino in caso di pesca buona. A ciascuno di noi Gianni raccontò della madre malata, del suo bisogno di soldi per curarla, del suo desiderio di regalarle un ramo di corallo prima che morisse … ci chiamava in disparte ben attento che altri non sentissero e si raccomandava di non dire nulla perché si vergognava a chiedere.

Noi tutti gli regalammo dei soldi extra, e anche qualche bel ramo di corallo, finché il capitano Rudy, che era pure suo parente, non ci chiamò e ci chiese se avessimo per caso fatto dei regali al marinaio. Presi di sorpresa rispondemmo di sì “perché poverino …”. Poverino un corno imprecò Rudy, che ci rassicurò sulla salute della mamma di Gianni e ci domandò se avessimo capito perché ogni volta che tornavamo in porto il ragazzo se ne corresse a terra portando con sé una borsa di “roba da lavare”. Il giorno dopo Gianni si ritrovò sbarcato, con le valigie gettate sul molo. Una ragazza che passava da lì, chiaramente impietosita, lo invitò a salire sull’automobile, e da allora non ho mai più avuto sue notizie.

Paolo Bencini, anni ‘80

Paolo Bencini, anni ‘80

Miseria e nobiltà

Le “storie” riportate, a cui si potrebbe aggiungere la perquisizione sulle donne che negli anni ’50 lavoravano in una grande industria ittica trapanese e che spesso si portavano a casa nascosti tra le vesti o nelle calze sgombri e scatolette di tonno, narrano dell’eterno scontro fra capitale e lavoratori, in questo caso traslato in una realtà dove comunque la “industria” è ben diversa dalla “fabbrica”, qui il “padrone” ha i vestiti macchiati dal sangue dei tonni squartati o è il capitano di una barca acquistata passando le notti a tirare le reti cariche di sarde e acciughe che impregneranno per sempre la sua pelle, nel migliore dei casi è un uomo che rischia la vita sommozzando a profondità abissali. Sempre, comunque, c’è da una parte la ricchezza (tonni o corallo) e dall’altra l’indigenza dei semplici lavoratori cui non resta che il ruolo di spettatori. In realtà questi ultimi rischiano ben poco non essendo cointeressati negli investimenti (industria o barca o reti) e non affrontando le impegnative immersioni alla ricerca dell’oro rosso.

Sono storie che non fanno la storia, perché diversamente da tante altre legate al mondo del mare nulla hanno di epico, di romantico, di affascinante. Se nei rais che si affidano in silenzio al loro Dio per una buona pesca si può riflettere l’omerico Achille che da solo vede e parla con la Dea Atena [13], e nei sommozzatori corallari che scendono negli abissi si può riconoscere l’eroe sumerico Gilgamesh che si immergeva nell’Apsu per raccogliere la pianta dell’eterna giovinezza [14], nei tonnaroti che rubano le tracchie e nei marinai che trafugano frammenti di corallo scorgiamo solo l’incapacità dell’uomo di elevarsi al di sopra del ruolo che la società gli ha assegnato al momento della nascita.

O, chissà, è invece proprio questa dicotomia a spiegare la storia. Nino Castiglione era figlio di un modesto rigattiere ed è diventato un grande capitano d’industria; Paolo Bencini da ragazzo faceva il fornaio ed è diventato uno dei più famosi corallari. Persone dalla mente “colorata” [15]. Il Mare ancora una volta si rivela uno straordinario contenitore in cui gli uomini intrecciano le loro vite che poi prenderanno ciascuna la propria sliding door, un ineguagliabile creatore di storie in cui dunque possono rientrare anche quegli avvenimenti marginali che abbiamo narrato e che ad una prima valutazione appaiono “non storia”.

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[*] Desidero ringraziare di cuore due sommozzatori corallari che mi hanno fatto partecipe delle loro avventure (e disavventure): Raimondo Meles e Paolo Bencini; quest’ultimo ha redatto, rigorosamente a mano, uno straordinario diario della sua vita, che ho avuto il privilegio di leggere e che spero un giorno possa divenire un libro. Dai loro racconti ho attinto le notizie sui furti dei preziosi rami di corallo. I marinai che lavorano in tonnara vengono appellati “tonnarotti” negli impianti sardi, “tonnaroti” in quelli siciliani o gestiti da siciliani come in Libia. 
Note
[1] V. Inno omerico ad Ermes (qui nella traduzione di A. Rendo)
[2] Francesco Maria Emanuele e Gaetani, Marchese di VILLABIANCA, Le tonnare della Sicilia, ms. del XVIII sec., qui nella edizione Giada (a cura di Giovanni Marrone), Palermo 1986: 49-50
[3] Francesco CETTI, Anfibi e pesci di Sardegna, Sassari 1778, qui nella edizione Ilisso (a cura di A. Mattone e P. Sanna), Sassari 2000: 431-432
[4] Francesco Carlo D’AMICO, duca d’Ossada, Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino dei tonni …, Messina 1816 (ne esiste una ristampa anastatica a cura di Gioacchino Lipari, Trapani 2016): 84
[5] Ibidem: 157
[6] Ninni RAVAZZA, San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore, Magenes, Milano 2017
[7] Ibidem: 34-35
[8] Ibidem: 42
[9] Ninni RAVAZZA, Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni, Magenes, Milano 2007: 177-178
[10] Ninni RAVAZZA, Il Signore delle tonnare, Magenes, Milano 2014: 108
[11] Notizie, cronache e aneddoti sull’attività dei sommozzatori corallari si trovano in: Ninni RAVAZZA, Corallari e Storie di corallari. Le avventure degli uomini che hanno sfidato l’abisso, rispettivamente Magenes, Milano 2004 e Magenes, Milano 2019
[12] Il Banco Scherchi è un’ampia piattaforma rocciosa che sorge a ovest della Sicilia, vasta circa 20 miglia; la zona più vicina alla “terraferma” si incontra a poco più di 70 miglia da Trapani
[13] Iliade, I: vv. 265-268
[14] L’Epopea di Gilgamesh, Tavola XI: vv. 265-275
[15] Prendo a prestito la definizione da Piero CITATI, La mente colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, Milano 2002.

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Ninni Ravazza, giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e libri sulla vita dei pescatori di tonni e di corallo, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2019); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019). Dal libro “Diario di tonnara” è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. È autore di numerosi altri studi dedicati al mare, per i quali ha vinto premi nazionali e internazionali.

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