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C’è qualcosa di nuovo nei paesi dell’hinterland palermitano: il Manifesto “Chiamata alle arti”

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 01:07 In Cultura,Società | No Comments

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Carini (ph. Giuseppe Zito)

il centro in periferia

di Nicola Grato

Quando discutiamo di centri storici dei paesi abbiamo una immagine mentale che ne definisce le caratteristiche urbanistiche, storiche specifiche dei piccoli comuni dell’Italia interna; soprattutto in questi ultimi anni le problematiche relative alle aree interne hanno trovato ampio spazio nel dibattito culturale in Italia: tanti i progetti e le idee, tantissimi i libri e gli studi che possono rinvenirsi anche sulla Rete. Quando discutiamo di centri storici abbiamo forse inconsciamente la pretesa che questi possano essere riabitati da persone con un livello culturale medio alto, possano da queste stesse persone essere ristrutturati nell’aspetto delle case, dei bagli, delle strade riportate al loro “antico” splendore.

Ma i centri storici esistono anche nei paesi prossimi alla città cosiddetta metropolitana, in paesi con una media di 25 mila abitanti: questi centri antichi di questi paesi “metropolitani” ci suggeriscono alcune riflessioni, in particolare punteremo l’attenzione su un recente Manifesto scritto da alcune associazioni di Carini, grosso centro di quasi 40 mila abitanti a est di Palermo e distante dal capoluogo ventisei chilometri.

A Carini come in tantissimi paesi posti negli immediati pressi delle città capoluogo il numero di abitanti si è triplicato negli ultimi cento anni: mutamenti demografici, territoriali, azione della criminalità mafiosa (ricordiamo che Carini è uno dei comuni interessati dalla Autostrada A29, la cui costruzione – e in particolare la costruzione delle molte curve per risparmiare i terreni dei mafiosi – negli anni Settanta fu denunciata da Peppino Impastato) hanno modificato significativamente la composizione territoriale e demografica del paese.

Dicevamo di questo Manifesto intitolato “Chiamata alle arti. Un Manifesto per costruire”, due facciate raccolte in una agile brochure, parole che ci invitano alla riflessione sul luogo, nostra stella polare, chiave interpretativa del presente e possibilità di formulare ipotesi per il futuro. È firmato da quattro associazioni carinesi questo che potremmo definire ancor meglio Manifesto-pamphlet: “L’assurdo”, “Muoversi a Carini”, “da zero a cento” e dall’ “Associazione Nuova Carini”, la cui finalità culturale è chiaramente espressa e senza possibilità di infingimenti nella voce “Chi siamo” della pagina web “Falce e Castello”:

«Rifiutiamo una visione autoreferenziale dell’arte: al motto “ars gratia artis” contrapponiamo la nostra certezza che l’arte è militanza. Pertanto, concepiamo la pittura, il video, la fotografia e la scrittura come qualcosa di più che meri mezzi espressivi: sono una presa di posizione, una prospettiva non neutra di sguardo e d’intervento. Con questo spirito, promuoviamo e condividiamo le narrazioni che si generano rispetto ai processi di trasformazione della città di Carini e del suo territorio, valorizzandone gli aspetti di innovazione, creatività e rilevanza sociale».

Parafrasando Sieyès, potremmo dire che l’azione di queste associazioni sul territorio «aspira a diventare qualcosa», tende cioè a corroborarsi con la discussione aperta e democratica, con gli incontri e le manifestazioni artistiche e culturali, ma anche con azioni civili quali la pulizia dei luoghi, la progettazione partecipata e democratica, i laboratori rivolti ai bambini. Un’azione culturale e pedagogica che aspira a diventare riferimento politico per chi ha a cuore le sorti delle persone reali che abitano nei luoghi, per chi non parli dei territori come paesi di alimenti, “saperi e sapori”, paesi della domenica per turisti annoiati.

«Povertà materiale e culturale, insieme allo spopolamento dovuto alle mutazioni economiche e urbanistiche della città (e solo esacerbato dalla pandemia), hanno contribuito a determinare l’attuale condizione del centro storico, sempre meno vissuto dalla classe media e sempre più luogo d’incontro e di aggregazione di bambini e ragazzi, specialmente di sera. Questi, spesso di estrazione popolare, giocano a pallone, girano in bici o con gli scooter ad alta velocità, “provocano disordine”».

Questa la premessa del Manifesto, che è anche l’analisi chiara del disagio che si vive nei centri storici delle grandi città, luoghi che una certa classe politica spiccatamente borghese vorrebbe abitati dai ceti più abbienti: il denaro pubblico investito sul “recupero” dei centri storici ha in realtà foraggiato le imprese immobiliari recuperando di fatto soltanto pochissimi edifici.

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Carini (ph. Tiziana Testaverde)

Lo spopolamento ferisce, seca rapporti, contribuisce a depauperare i luoghi; la povertà materiale e culturale è il colpo di grazia preparato da politiche miopi e troppo strutturate sui rapporti di tipo economico. Nei paesi, e Carini è un paese nonostante il gran numero di abitanti, si sente forte il bisogno di riappropriazione dei luoghi, i luoghi che anche se abbandonati “significano”, sono il portato di relazioni tra persone, ci raccontano di rapporti sociali, scelte politiche; i luoghi, come ben sanno gli operatori di queste associazioni carinesi, non sono mai neutri, non sono carte bianche sulle quali disegnare vie, strade, fuochi e pertinenze. I luoghi sono fatti sì di pietre e malta, cemento e calce, ma soprattutto essi sono abitati da persone. Vito Teti chiarisce che

«Un rischio di tanta letteratura sui luoghi è che si scivoli verso una sorta di metafisica del luogo, di un luogo colto nella sua immobilità. Contro questo rischio, anche quando parliamo di “anima dei luoghi” e di sentimento dei luoghi, occorre ribadirne la “storicità”, coglierne i legami complessi, controversi, mutevoli che con esso si stabiliscono. Una città, come ricordava Calvino, non è fatta dai suoi edifici, ma dalle relazioni tra le persone, dal loro senso di appartenenza, dai legami orizzontali e verticali che stabiliscono con luoghi, persone, cose e memorie».

Per andare oltre la retorica bisogna occuparsi dei luoghi, sentirne le connessioni col pianeta, fare un’azione politica militante nei paesi: questo non ha evidentemente nulla a che fare con la spartizione di cariche, col maloseme del familismo politico, ma con la partecipazione democratica; ancora dal Manifesto di Carini:

«L’assenza di un’analisi genera mostri: l’atteggiamento astorico appiattisce lo sguardo sulla condizione attuale, rinuncia o si rifiuta per opportunismo di investigare le radici più profonde delle disastrose disuguaglianze che caratterizzano la società».

Come non essere profondamente d’accordo con queste parole? La pandemia in atto non ha fatto altro che evidenziare in modo impietoso le disuguaglianze sociali, gli errori strategici prima ancora che tattici di certa politica votata al consenso e non al rispetto del mondo e dei luoghi. Il Manifesto “Chiamata alle arti” ci dà occasione così di riflettere su questo aspetto di forte connessione tra le pratiche ecologiche e politiche mondiali e locali: tutto si tiene, non possiamo pensare di abitare in una nicchia ecologica protetta. I problemi delle periferie delle grandi città hanno un riverbero sui paesi dell’hinterland, spesso “prosecuzioni” delle grandi città, paesi dormitori, zone interessate da disagi culturali ed economici.

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Carini (ph. Tiziana Testaverde)

Certo non basta guardare agli indicatori statistici per comprendere i fenomeni, a questa ricognizione va affiancata l’esperienza “sul luogo”, però l’osservazione dell’andamento di flussi migratori a Carini negli ultimi venti anni ci dicono di saldi sempre positivi: molte persone, soprattutto dalla metropoli, vanno ad abitare a Carini. Per lavoro, la maggior parte, molti però sono coloro i quali fuggono dalla città per affitti troppo esosi.

Chiaramente i flussi migratori muovono masse di persone, non sono discrezionali, non discriminano in base al censo: gli uomini si muovono “naturalmente” per cercare migliori condizioni di vita, e chi vive un disagio in città lo può vivere anche in un paese. L’occasione, certo non il pretesto, che ha dato modo alle associazioni carinesi di stendere il Manifesto di “Chiamata alle arti” è stata offerta dell’osservazione di come molti abitanti del centro storico si lamentassero per i comportamenti di alcuni ragazzini, soprattutto di sera; lamentele sui social network, passaparola, disagio manifestato anche su alcuni organi di informazione locale:

 «I disagi provocati dai ragazzini esistono, così come è comprensibile il malessere di una parte della cittadinanza; tuttavia, riteniamo che la politica, la Chiesa e la società civile debbano saper offrire una prospettiva che non può esaurirsi in “togliamo i cattivoni dalla vista”. Ciò è inaccettabile per chiunque si ritenga un cittadino consapevole e democratico».

Queste parole sono un richiamo alla Costituzione, in particolar modo all’articolo 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale») e all’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»). Vale sempre la pena richiamare i princìpi della Carta Costituzionale, e vale sempre la pena rileggerli, trascriverli ma, soprattutto, attuarli.

Il Manifesto di Carini è così assimilabile al trattato del pensatore abruzzese Giacinto Dragonetti intitolato Delle virtù e dei premi (Napoli, 1767), nel quale scritto il filosofo teorizzava come virtù da premiare la ricerca costante del bene pubblico: l’uomo, seguendo anche la pedagogia di Grozio e Rousseau, è “naturalmente” portato alla costruzione di legami, sono le condizioni di ingiustizia sociale, disuguaglianza e disagio a destabilizzare le relazioni sociali. Ecco, questo retroterra culturale possiamo rinvenire nel Manifesto di Carini: c’è la volontà di proporre un modello di società tutt’altro che astratto e lontano ma invece inclusivo, partecipativo, democratico. Chiaramente per realizzare queste nobili intenzioni occorrono sforzo e sacrificio, occorre assumersi il carico anche di non essere compresi dalla comunità, addirittura di essere apertamente osteggiati e dileggiati sulla pubblica piazza dei social network.

Queste le sensazioni che abbiamo ricavato dal dialogo con Giuseppe Zito di “Nuova Carini”, ma come contraltare di queste sensazioni abbiamo percepito la passione sincera e pasolinianamente commovente che anima queste persone, che sono persone innanzitutto legate ai luoghi di cui parlano: e questo legame non è soltanto spiegabile come residenza o storia familiare, ma come militanza nei luoghi, e in questi luoghi queste persone hanno proposto festival di arti, laboratori con bambini svantaggiati, incontri e dibattiti; non improvvisati dell’ultim’ora o flaneurs alla ricerca di centri di gravità permanenti, ma donne e uomini votati ai luoghi, alla sincera partecipazione politica da non confondere con l’ingenuità o il pressappochismo, malattie questa davvero mortali per i luoghi, per le persone.

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Carini (ph. Tiziana Testaverde)

Ricordiamo qui brevemente ma, a nostro avviso, significativamente alcune attività proposte dalla “Associazione Nuova Carini”: “Gli alieni a Carini”, laboratorio realizzato con ragazzi affetti da disturbi dello spettro autistico; l’Educativa di strada a cura di Tiziana Testaverde con i ragazzi della “zona Peep” e della Piazza; le due edizioni del Terravecchia Festival, rispettivamente intitolate “Vietato l’ingresso agli estranei” (2015) e “Class Action” (2018) con mostre di pittura, incontri, dibattiti: in questa edizione del Terravecchia festival abbiamo avuto modo di portare la poesia in Consiglio comunale, simbolicamente occupato dai poeti. Ancora: “Lockdown – Eppure il vento soffia ancora”, progetto pittorico di Giuseppe Zito; leggiamo da alcuni post su Facebook:

«Vento che soffia sulla Storia e sulle storie, che passa tra le case chiuse. La pandemia che non ti aspetti, l’accidente che sfugge al calcolo e mette in crisi le magnifiche sorti e progressive, incarnate e liberalizzate nell’onnivora formula della democrazia pacificata. Lockdown è il diario per immagini di un confinamento, infedele e provvisorio resoconto che nasce nella contingenza, ma che dalle secche della stessa svicola per rivendicare una necessità – politica, intellettuale, intima – mai stagionale o emergenziale. Lockdown è un progetto pittorico incompiuto, in itinere, non sarà l’ultimo e rassicurante decreto della sera a fissarne i confini o ad allentare la stretta al collo che ci toglie il respiro. Eppure il vento soffia ancora».

Poi la scrittura di un racconto, Terra vecchia, del 2018 da parte di Serafino Mirko Piazzese, testo ulteriormente integrato da illustrazioni e un prologo:

«è la prima edizione di Nuova Carini. È una storia lontana nel tempo, ma forse non così tanto: siamo a Carini, è il 1943 e gli americani sono appena sbarcati in Sicilia. La vicenda orbita attorno a una donna, Caterina, che abita la Terravecchia, nel cuore del centro storico. Prostituta (meglio: “pulla”), vive insieme alle sue compagne su un filo teso tra scelta e necessità, vincitori e vinti, conquistatori e liberatori. Carini è un luogo la cui narrazione sembra rimasta imbrigliata tra le maglie di una tradizione stanca, rappresa, posticcia. Con questa storia, proponiamo un racconto originale, una prospettiva “nuova” o perlomeno alternativa a quanto ci si è troppo a lungo aggrappati per inerzia».

Infine, last but not least certamente, l’“Associazione Nuova Carini”, ha realizzato un film interamente girato a Carini, I fratelli Lamière, per la regia di Giuseppe Zito: è la vicenda di due fratelli camorristi, Augusto e Luigi. Un omaggio irriverente ai fratelli Lumière e insieme una riflessione sul cinema e sulla vita; come dicono i ragazzi di questa associazione così creativa e presente nei luoghi: «vedere è ferirsi»

Insomma, tante sono state e sono le attività fortemente radicate nei luoghi della Terravecchia, nel centro storico di Carini; attività radicate eppure capaci di guardare al Mondo, alla vastità delle esperienze: verba volant, ma nel senso che le parole hanno le ali, travalicano i confini e ci restituiscono storie, racconti.

Il Manifesto di Carini non è un fungo nato improvvisamente sotto una quercia, è al contrario un distillato di rapporti sociali, memorie, azioni nei luoghi. C’è una strada, questa via Terravecchia, scelta dai redattori del Manifesto quale luogo significativo di incontro con le persone: è una strada vicina al Castello, una strada che non spunta, chiusa, un tempo viva nel periodo natalizio perché vi si realizzava un presepe. Ma i luoghi non possono “vivere” solo attraverso estemporanee manifestazioni che occultano per qualche giorno un oblio profondo durato tutto l’anno: l’abbandono più tossico non è quello di chi va via, ma quello di chi pensa di rivitalizzare i luoghi senza accorgersi o, anche peggio, trascurando la storia di quei posti, le relazioni fra le persone che in quei luoghi hanno vissuto, gioito e sofferto.

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Carini (ph. Tiziana Testaverde)

Il merito del Manifesto di Carini è anche la ricerca di un dialogo autentico per il paese con i decisori politici. Non è questo un punto secondario. Per chi si occupa di paesi e di strategie delle aree interne è il pane quotidiano: quanto è difficile mediare tra le esigenze di conservare gli equilibri politici e le azioni da attuare realmente per i paesi, quelle azioni improntate al rispetto dei luoghi, azioni civili ed ecologiche avulse dall’ossessiva ricerca di turisti, visitatori, consumatori di luoghi e beni ambientali e architettonici. Però se la politica non vuole avvitarsi su se stessa e conservarsi, risultando così completamente avulsa dalla realtà, deve avere prospettive, “rischiare” di avere visioni: è la scommessa sui luoghi.

«È urgente un patto educativo di comunità tra le scuole del territorio, l’amministrazione e le associazioni che abbia come riferimento culturale imprescindibile la partecipazione democratica e la parità di genere in tutti i luoghi del vivere civile. Tra le iniziative, servono percorsi di educazione relazionale, alla sessualità, alla disabilità, alla salute e all’ambiente».

Queste parole sono a nostro avviso le più alte dell’intero manifesto. Solo intrecciando rapporti come fili di bucato, solo guardando alla complessità dei territori, dei luoghi, dei paesi e non alla semplificazione utilitaristica del conflitto potremo seriamente ragionare di luoghi e di vita delle persone nei luoghi. La sconfitta può essere dietro l’angolo, così come la voglia di andarsene, vera e legittima quando si sbatte contro il muro dell’indifferenza e dell’incuria. Occorre però coltivare quello che Camus chiama “compito senza fine”, non dare ragione cioè allo scoraggiamento e tessere continuamente fili di rapporti tra le donne e gli uomini:

«Io non credo alla ragione al punto da sottoscrivere al progresso, né ad alcuna filosofia della Storia. Ma credo che gli uomini non abbiano mai smesso di progredire nel prendere coscienza del loro destino (…) Sappiamo di essere nella contraddizione ma sappiamo anche che dobbiamo rifiutare la contraddizione e fare quanto occorre per ridurla. Il nostro compito di uomini è di trovare le poche formule che calmeranno l’angoscia infinita delle anime libere. Dobbiamo ricucire ciò che è lacerato, rendere immaginabile la giustizia in un mondo così evidentemente ingiusto».

C’è bisogno di ricucire, di stare vicini ai luoghi senza adoperare la retorica identitaria bensì esercitando attenzione e cura. Esercitando la pazienza, come ci esorta a fare ancora Camus:

«Quando abitavo ad Algeri, d’inverno pazientavo sempre perché sapevo che una notte, in una sola notte fredda e pura di febbraio, i mandorli della valle dei Consoli si sarebbero coperti di fiori bianchi. Mi meravigliavo di vedere poi questa neve fragile resistere a tutte le piogge e al vento del mare. Eppure, ogni anno resisteva, proprio quel tanto che occorreva per preparare il frutto. Non è un simbolo. Non si conquista la felicità con dei simboli. Ci vuole altro. Intendo solo dire che a volte, quando il peso della vita diventa troppo grave in questa Europa ancora tutta piena della sua infelicità, io mi volgo verso quegli sfavillanti paesi in cui tante forze sono ancora intatte».
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Carini (ph. Tiziana Testaverde)

Il Manifesto redatto a Carini ci parla di disagio, è vero, ma ci indica una strada “comunitaria” per superarlo o quantomeno attenuarlo; uno scritto collettivo che si interroga e ci interroga sui confini che spesso tracciamo tra fenomeni complessi: e sono confini sottolineati con forza e spesso con supponenza, assumendo come punto di vista quello di valori accettati senza discutere, senza confrontarsi e in nome di una falsa pace sociale. Mentre l’umanità è fatica, sforzo, tensione: è frontiera, come ad esempio ci ricorda Alessandro Leogrande. Frontiera, ovvero la sottile linea che «corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai»

Questi paesi non sono sfavillanti, sono contradditori, ma in questi luoghi possono rinvenirsi pratiche come quelle attuate dagli estensori del Manifesto “Chiamata alle arti”: pratiche nel paese, pratiche e parole che si inverano nella relazione, nell’amore per i luoghi.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Riferimenti bibliografici
Vito Teti, “Mobilità dei luoghi”, in “Sagarana”, 28 aprile 2012
Albert Camus, I mandorli, in L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2019
Alessandro Leogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2015
“Chiamata alle arti. Un Manifesto per costruire”, rinvenibile sulla pagina Facebook dell’’ “Associazione Nuova Carini”.

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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”, “larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour.

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