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Carte d’archivio e di frontiera

 

Daniel Adam di Venceslavin

Daniel Adam di Venceslavin, Cosmographia Universalis aut orbis terrarum, Praha 1592.

di    Alessio Angelo

Spesso si dimentica che la Storia degli incontri/scontri tra popoli, quella che potremmo chiamare la Storia dei confini, non è semplicemente una storia delle differenze ma anche una storia delle somiglianze. Questi vettori opposti creano una frontiera, un luogo immaginato e tangibile che risulta essere più fecondo sia per la crescita umana sia come oggetto di studio antropologico. Se è più semplice individuare e accettare le differenze, complesso è riconoscere le somiglianze, allontanarsi dall’uomo risulta paradossalmente più comodo e storicamente preferito, piuttosto che avvicinarsi ad esso. Tale meccanismo si innesca se si concepisce la storia degli incontri/scontri unicamente come storia delle differenze. Nella differenza che diviene opposizione, posso collocare l’inconcepibile, l’inadatto, l’assurdo, il falso. Se creo storicamente, quindi accetto e riattualizzo, un altro diverso da me – mamma li turchi!– finisco per attribuirgli tutta una serie di aspetti negativi, specularmente opposti alle mie presunte qualità positive.

I confini tra i popoli non sono linee di demarcazione ma le relazioni stesse, il rapporto tra il sé e l’altro ed è in alcuni fatti sociali totali, attuali o riemersi dal passato, che questi rapporti si dispiegano lasciando tracce inaspettate. Mi è parso di ritrovare alcune di queste tracce nel Fondo dei Redentori dei Cattivi, che rispetta indubbiamente i parametri che lo definiscono tale, ossia la sua singolarità non è data da particolari anomalie, cioè da una composizione straordinaria, ma dal suo contenuto e in parte anche dall’itinerario percorso. I documenti che ci sono pervenuti in questo archivio, sebbene naturalmente vincolati alla Arciconfraternita dei Redentori dei Cattivi, rappresentano anche singolarmente delle testimonianze di estrema importanza per la ricostruzione della storia del Mediterraneo. I primi documenti dell’archivio risalgono al 1595, anno in cui ha inizio la sua costituzione nella chiesa di Santa Maria la Nova nel quartiere della Kalsa a Nord di Palermo. La sua collocazione rimane la stessa sino al 1866, quando approvata, per Regio Decreto¹, la legge sulla soppressione degli ordini religiosi minori, gli stessi furono obbligati a versare i propri archivi, il proprio patrimonio librario e in generale i propri beni presso enti statali e simili. Come purtroppo molto spesso accade con l’immenso patrimonio archivistico della Sicilia, il Fondo in questione viene dimenticato e col tempo perse le sue tracce. Fu ritrovato in circostanze molto particolari da Giuseppe Bonaffini, docente di Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Palermo. Lo studioso racconta che il rinvenimento avvenne durante una ricerca del tutto diversa, stava infatti preparando una relazione sulla storia degli Ospedali in Sicilia e le sue fonti archivistiche, quando si ritrovò tra le mani quello che è possibile definire come uno tra i più importanti archivi del patrimonio storico-antropologico del Mediterraneo.

«Rinvenni – scrive Bonaffini – presso l’Ospedale psichiatrico di Palermo, in un ambiente inidoneo alla conservazione di così preziosi beni culturali, l’intero archivio della “Redenzione dei cattivi” o la parte più rilevante di esso. Inutile aggiungere che i volumi (più di cinquecento con in più numerosissimi fogli raccolti alla rinfusa in cartelle) erano in pessimo stato di conservazione, alcuni deteriorati irrimediabilmente dall’umidità. […] Ma la più viva emozione fu quella di avere fra le mani, e leggere dopo quattro secoli, le lettere originali che i “poveri christiani” mandavano a familiari, parenti e amici, dai luoghi di schiavitù, allora geograficamente e psicologicamente lontanissimi»².

 particolare di un manoscritto arabo

particolare di un manoscritto arabo

Il ritrovamento si può datare con esattezza nel 1978 e si può ben capire in quale stato versasse il fondo accantonato in uno scantinato umido, dimenticato, senza alcuna attenzione conservativa e senza un minimo di auspicabile comune buonsenso. Tra la documentazione conservata, di rilevante importanza è senza dubbio quella relativa alle carte franche, altrimenti indicate come franchigie, franchelle, carte della libertà ossia i salvacondotti, scritti in lingua araba, utilizzati dagli schiavi cristiani liberati, per oltrepassare le frontiere delle terre more e raggiungere il Paese di origine. Riconoscere la carta franca significa accoglierne l’espressione simbolica, il suo potere; ammettere l’intangibilità del portatore del salvacondotto, accettare un sistema di pensiero comune tra mondi politicamente avversi. Il documento scritto diviene veicolo, non solo di una testualità ma di un intero sistema di comunicazione condiviso; un sistema di pensiero che si confronta e si riconosce simile a un altro sistema di pensiero. Se è vero che dietro quel documento si articola una vivissima e proficua organizzazione di commercio, tanto redditizia da rappresentare la più grande fonte di guadagno per pirati e corsari, va da sé che non rispettare la carta franca significa precludersi un mercato fiorente e ricco come quello degli schiavi.

«Il bottino più pregiato ricavato dalla cattura delle navi e dalle incursioni sulle coste erano gli schiavi – uomini, donne, fanciulle – tratti nelle città barbaresche. Cessata, dagli anni dopo Lepanto, l’epoca di più aspra ostilità fra i due mondi, cristiano e musulmano, i Barbareschi furono ben pronti a cedere contro denaro contante i loro prigionieri, il cui riscatto doveva appunto costituire una delle fondamentali risorse finanziare di quegli Stati»3.

Questi documenti sono la testimonianza di un fatto sociale che oltrepassa le possibili ragioni economiche ed è principalmente legato al tema della sofferenza e della violenza, un’altra traccia di quel disagio subito dalla classe subalterna: poveri incatenati ad un ordine sociale garantito e permesso dal gioco dei poteri forti. Non bisogna dimenticare che il presupposto fondamentale, che assicura l’esistenza di questo fenomeno, è legato alla condizione di legalità della schiavitù in età moderna. Intersezione e frontiera nel dialogo tra i due mondi è, appunto, l’istituto della schiavitù, sostenuto negli Stati barbareschi come nell’Europa cristiana.

«(I) Corsari (musulmani) riversano nelle prigioni di Tunis, Tripoli ed Algeri i cristiani catturati nel corso delle loro incursioni e che, con il loro operato, giustificano l’attivazione di un meccanismo di rappresaglia da parte del Re di Sicilia che autorizza armatori e capitani ad esercitare la guerra da corsa. Una attività che rifornisce i mercati siciliani, oltre che delle merci razziate anche di prigionieri di guerra, il cui status giuridico è equiparato a quello dello schiavo, con la conseguenza che le case della nobiltà siciliana continuano ad accogliere nuovi arrivi»4.

pagina di un manoscritto arabo

pagina di un manoscritto arabo

Anche dopo l’influenza della rivoluzione francese e delle leggi napoleoniche, nella Sicilia dei Borboni, la schiavitù continua a essere legale. Soltanto con l’editto del 1815, che segue le disposizioni del codice civile napoleonico del 1804, e definitivamente nel 1819 con il codice emanato da Ferdinando di Borbone, la schiavitù nel Regno delle due Sicilie è abolita. L’art. 1626 recita a tal proposito: «Nessuno può obbligare i suoi servigj, fuorché a tempo, o per una determinata impresa»5. In realtà il Bollettino del Comitato antischiavista di Palermo fondato nel 1888 e il Bollettino della Società antischiavista d’Italia costituita l’anno successivo, continueranno a registrare le attività del mercato schiavile sin oltre la prima metà dell’800, dimostrando come questo fenomeno non appartenga a un passato remotissimo, ma arrivi a lambire il presente.

Nel mondo islamico di età moderna lo schiavo ha una assai ridotta capacità giuridica, la persona viene svuotata della sua agentività, anche se non totalmente, trattata alla stregua di una merce, venduta, prestata, ereditata. La sharia – la legge islamica che si fonda sul Corano e la Sunna – anche se spesso sostituita da norme di diritto consuetudinario e di diritto locale, generalmente afferma che un musulmano non può essere schiavo di un altro musulmano. Questa clausola, non solo, è alle scaturigini delle numerose razzie di schiavi cristiani ma, è una delle principali cause che spingono lo schiavo infedele alla conversione. Resta comunque assodato che al di là delle forme in cui si presenta, la schiavitù nel mondo islamico è un istituto legale6.

Si è detto, dunque, di come questi documenti rappresentino l’intersecarsi tra i due mondi politicamente avversi. Nell’autorevolezza e nella sacralità del documento scritto e reso ufficiale, i due sistemi di pensiero si riconoscono. L’istituto della schiavitù è, di fatto, fondato, permesso e garantito nelle terre cristiane come nelle terre more. Guerra da corsa, pirateria, mercato degli schiavi, istituzioni per la redenzione degli stessi, sono tutte forme la cui esistenza è determinata dall’istituto legale della schiavitù. Altro aspetto, riconducibile a queste brevi considerazioni sulla Storia delle somiglianze, riguarda l’oblio cui sono destinate le esperienze di vita di un ancora incerto, e comunque inaccettabile, numero di schiavi mori e cristiani, bio-politicamente controllati ed esposti alle violenze visibili e invisibili, dirette e indirette delle istituzioni. Queste tracce di “Storia delle somiglianze” rientrano nel dibattito sulla funzione e l’esercizio della Storia e della memoria, che ha interessato tutta la seconda metà del XX secolo e che rimane ancora aperto e vivo. La provocazione dell’etnologia accolta dallo storico si risolve e si sintetizza nell’Antropologia storica che riparte dal luogo dove la memoria si è fermata, gli Archivi scritti7.

«L’odio degli oppressi, che ne legittima la violenza – «la violenza che disintossica il colonizzato» secondo la dura definizione di Fanon – può anche essere rimosso. Basta allontanare dalla vista i dannati della terra: essi sono infatti, in genere, lontani dallo sguardo sereno del pensatore illuminato. Posidonio è andato a cercarli e a vederli nelle miniere di Spagna e forse anche nelle tenute siciliane. Noi aspettiamo che l’emozione di un giorno ci raggiunga attraverso la mistificante immediatezza di una informazione perfetta, che tutto divora»8.

Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014

Note


¹   La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N.187 in data 8 luglio 1866 recita all’Art. 1: «Non sono più riconosciuti nello stato gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose regolari e secolari, ed i conservatori e ritiri, i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico. Le case e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle corporazioni, alle congregazioni ed ai conservatorii e ritiri anzidetti sono soppressi».

²  G. Bonaffini, Cattivi e redentori nel Mediterraneo tra XVI e XVII secolo, ILA Palma, Palermo 2003, p.7.

3   S. Bono, «La Sicilia e i Barbareschi»in Storia della Sicilia, Società editrice di Napoli del Mezzogiorno continentale e della Sicilia, vol. VII, p.189.

4    A. Giuffrida, «La legislazione siciliana sulla schiavitù (1310-1812) Da Arnaldo Villanova al consultore Troysi», in A. Musco (a cura di), I Francescani e la politica, Atti del Convegno Internazionale di studio, (Palermo 3-7 Dicembre 2002), Biblioteca Francescana-Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, p. 543.

5  F. Gambin (a cura di), Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale, secc. XVII-XIX ,vol. 2, Atti del Convegno internazionale (Verona, febbraio 2008) SEID, Firenze 2010, p. 290.

6   cfr. G. Fiume (a cura di), Schiavitù religione e libertà nel Mediterraneo tra medioevo ed età moderna, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2008.

7  cfr. F. Hartog, Regimi di storicità, Presentismo e esperienze del tempo, Sellerio, Palermo 2007.

8   L. Canfora, La rivolta dei dannati della terra, in Appendice a D. Siculo, La rivolta degli schiavi in Sicilia, a cura di L. Canfora, Sellerio, Palermo, 1992, pp. 67-68.

 

 

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