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Capitale e classi subalterne. L’importanza delle etnografie nel settore logistico

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2018 @ 00:57 In Letture,Società | No Comments

copertinadi Tommaso India

Le contraddizioni che il capitalismo porta connaturate al suo manifestarsi e dispiegarsi sono da molto tempo note. Esse sono in gran parte state studiate da economisti, politologi e sociologi i quali hanno spesso fornito interpretazioni molto eterogenee. All’interno di questa eterogeneità, tuttavia, si è sempre registrata una costante: il rapporto del capitale con le classi subalterne, identificate storicamente con il proletariato e sottoproletariato urbano e rurale. Principalmente, quindi, con contadini, operai e, in parte, con i disoccupati. Questo per un semplice motivo: il sistema economico che ruota attorno al capitale e che è correntemente indicato con il termine di capitalismo ha la necessità di basarsi, per funzionare, sul rapporto relazionale, dialogico, conflittuale e cangiante fra soggetti storici che occupano una posizione dominante e una subalterna [1].

É noto, tuttavia, come sia il processo di accumulazione e circolazione del capitale sia le classi sociali interessate da tale processo siano profondamente mutate. Idealmente si potrebbe tracciare una storia del capitale partendo dalla sua creazione e accumulazione in un ambito rurale e contadino, per poi affermarsi ed espandersi nell’ambito della produzione industriale e arrivare, nel contesto economico contemporaneo, ad una accumulazione legata principalmente alle rendite finanziarie. A questa lunga e continua trasformazione dell’accumulazione capitalista, però, è corrisposta una trasformazione delle intime e profonde contraddizione connaturate ad esso ed una altrettanta lunga e continua trasformazione delle classi subalterne, dei loro modi di vita, dei loro bisogni e dei loro valori.

Per comprendere profondamente la natura del rapporto e del mutamento del rapporto fra classi dominanti capitaliste e classi subalterne è necessario partire dal testo classico di Marx, Il Capitale [2] e dalla concezione del filosofo tedesco del lavoro produttivo. Questi non sarebbe altro che il lavoro della produzione di un bene o un servizio organizzato secondo i principi dell’economia capitalista, seguendo cioè la legge prima del capitalismo D-M-D’ dove D<D’ [3]. Come ha sostenuto lo stesso Marx:

«La forma immediata della circolazione delle merci è M – D -M, trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma ne troviamo una seconda, specificamente diversa: la forma DM-D, cioè conversione di denaro in merce e riconversione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest’ultima circolazione, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già per sua destinazione capitale» [4].

In tale formula, la trasformazione di D in D’ sarebbe data dall’aggiunta di plusvalore derivante dal fatto che una parte sostanziosa del lavoro dei lavoratori che vendono la propria forza-lavoro al capitalista non viene retribuita. Come sostiene Luciano Vasapollo a proposito del saggio del plusvalore:

«Se si vuole stabilire in che misura il capitale si è valorizzato si deve partire dalla costatazione che il plusvalore deriva soltanto dal lavoro vivo. Perciò nel calcolare il grado di valorizzazione del capitale si può porre come uguale a zero la parte di capitale costante. Per determinare il grado di valorizzazione si fa riferimento solo al prodotto in valore realizzato ex novo (v+p). Il plusvalore deve perciò essere messo in rapporto con il capitale variabile anticipato. Si ottiene così la formula del “saggio del plusvalore”: saggio del plusvalore p’=p/v.
Durante una parte della giornata lavorativa l’operaio realizza, perciò, un valore che è quello dei mezzi di sussistenza per la riproduzione della sua forza-lavoro. Questa parte della giornata è definita da Marx ”tempo di lavoro necessario”, e il lavoro che viene impiegato in essa “lavoro necessario”. Il lavoro che l’operaio impiega durante la seconda parte della giornata lavorativa produce soltanto plusvalore per il capitalista. Questo lavoro Marx lo chiama perciò pluslavoro e la parte della giornata lavorativa nella quale esso viene speso “tempo di lavoro soverchio”» [5].

Secondo questa concezione, quindi, il lavoro produttivo non sarebbe altro che il lavoro che contribuisce alla creazione di plusvalore. Per fare un esempio, Marx, che andava oltre la mera distinzione fra lavoratori manuali e lavoratori cognitivi, considerava il lavoro dell’operaio e quello dell’impiegato alle dipendenze del capitalista entrambi produttivi. Non altrettanto faceva nel caso, per esempio, del lavoratore delle poste, dal momento che, ai tempi in cui Marx scriveva, la circolazione della posta era considerata un bene comune (oggi le cose sono profondamente mutate).

Nel corso degli anni, i vari studiosi ed esegeti dell’opera marxiana hanno sempre concentrato la loro attenzione sulla classe operaia e sul processo di acquisizione di una coscienza di classe da parte quest’ultima [6]. In queste analisi il termine proletariato ha spesso coinciso con l’idea di classe operaia in una equazione quasi automatica.

1La pubblicazione di Operai e Capitale [7] nel 1966 da parte di Mario Tronti rappresenta in questo senso una pietra miliare dell’operaismo italiano e più in generale della riflessione sui rapporti fra i due soggetti storici. Il libro, come è noto, traccia una specie di spartiacque all’interno della sinistra rivoluzionaria e antagonista della metà del Novecento. Se fino agli anni Sessanta, infatti, i rivoluzionari, fedeli alla linea tracciata da Marx nel Capitale vedevano nelle classi subalterne il motore della rivoluzione e nelle contraddizioni interne del capitalismo i punti di rottura e di possibile collasso dello stesso, per gli operaisti ispiratori e fautori del Sessantotto e della contestazione degli anni Settanta, i veri promotori e fautori della distruzione dell’ordine capitalista erano gli operai.

Operai e Capitale, per quello che qui ci riguarda, rappresenta anche una grandiosa testimonianza delle forze politiche e delle dinamiche fra queste forze in un momento storico in cui il sistema di produzione capitalista si stava trasformando. Qualche anno dopo la pubblicazione del libro, infatti, e in conseguenza di elevati livelli di sovrapproduzione capitalista, il sistema di produzione industriale dovette fare i conti con una crisi energetica inedita e pericolosa che costrinse il capitalismo a cambiare volto. Se fino a quel momento il taylorismo-fordismo aveva rappresentato il modo principale per la creazione del plusvalore, dopo si fece riferimento ad altri modi di produzione più attenti ai mercati [8].

Questa trasformazione del paradigma produttivo è l’evidente segno che il capitalismo, come ha rilevato David Harvey e come si vedrà più diffusamente in seguito, non è in grado di risolvere le sue contraddizioni interne, ma semplicemente le sposta o le posticipa, tornando ciclicamente a ritrovarsi invischiato nelle medesime contraddizioni; esse possiedono «la cattiva abitudine di non risolversi ma semplicemente di spostarsi» [9]. La trasformazione del paradigma taylorista-fordista nei modi di produzione che si definiranno qui genericamente flessibili non ha risolto nessuna questione relativa alla sovrapproduzione industriale.

A distanza di pochi anni, infatti, e segnatamente alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila si è assistito ad un’altra intensa e importante trasformazione del paradigma produttivo e del regime economico. Dal punto di vista produttivo, abbiamo assistito ad una nuova ristrutturazione industriale in cui il gigantismo industriale dei mega stabilimenti, seppure presenti, si è gradualmente ridotto per dare spazio a realtà produttive più contenute e rivolte alla produzione di beni sempre più personalizzati. Dal punto di vista della creazione del plusvalore, però, le classi egemoniche hanno gradualmente ridimensionato gli investimenti in ambito industriale per dirottarli in quantità sempre maggiori al settore finanziario, che sebbene abbia relativamente maggiori rischi di perdita del capitale investito, garantisce allo stesso tempo ingenti guadagni.

Questo nuovo regime economico, dettato dalla necessità di avere margini di guadagno sempre crescenti insito nella sopravvivenza del capitale, è indicato correntemente con i termini di neo-capitalismo o finanz-capitalismo.

2Un’analisi profonda di questo ulteriore mutamento di paradigma economico è stata condotta da Thomas Piketty nel suo volume Il capitale nel XXI secolo [10]. Il libro di Piketty, diviso in quattro sezioni, è volto ad indagare, grazie all’analisi di dati statistici sul gettito fiscale di Francia, Germania, Regno Unito e, in misura minore, Stati Uniti e Giappone, l’origine e la trasformazione delle disuguaglianze economiche.

Il principio su cui si basa tutta l’opera di Piketty è che: «Il capitale non è un concetto immutabile: rispecchia lo stato di sviluppo e i rapporti sociali che reggono una determinata società» (2014:79). Il capitale, per estensione, potrebbe essere analizzato anche come rappresentazione dei rapporti di forza all’interno della società e fra i vari gruppi sociali. Tale trasformazione incessante è data dalla necessità che il capitale deve continuamente accrescersi [11], pena l’implosione dell’intero sistema. Picketty, da economista esperto, parte dal dato base di crescita che è tenuto in considerazione da tutti i più grandi Paesi ad economia capitalista, cioè una crescita annua del 2%. È necessario ribadire e tenere presente che questa percentuale è considerata la base della crescita e non la sua media. Secondo l’autore del libro in questione tale crescita sarebbe ormai quasi impossibile da raggiungere in tutti quei Paesi a economia capitalista matura, dal momento che la saturazione dei mercati e le crisi da sovrapproduzione accadono a cicli sempre più corti. Da qui la necessità in primo luogo di mettere a sfruttamento economico beni e servizi che in passato erano garantiti dal welfare state (sanità, istruzione, telecomunicazioni, distribuzione energetica e condivisione delle risorse ecc.) e, in secondo luogo, di trovare ambiti di investimento più remunerativi.

La conseguenza di queste due necessità sarebbero: la privatizzazione di beni e servizi di fondamentale importanza per la sopravvivenza stessa dell’essere umano e il ricorso ad investimenti di capitale che vengono dirottati dall’ambito produttivo a quello redditizio, cioè la finanza. Entrambi le tendenze portano ad un unico risultato: la depauperizzazione delle classi subalterne a favore delle classi egemoni. A ciò si aggiunge il fatto che la progressiva scomparsa del capitalista-industriale a favore del capitalista-redditiero e quindi lo spostamento degli investimenti di capitale dal settore produttivo al settore finanziario non farebbe altro che togliere risorse alla circolazione del denaro a favore di una accumulazione sempre più rapida ed ingente. Attraverso questa dinamica, che porta secondo Picketty ad una mancata redistribuzione della ricchezza, è possibile individuare già due gravi contraddizioni del sistema capitalista capaci di farlo crollare. Da un lato vi è l’insostenibile, da un punto di vista ambientale, necessità da parte del capitale di sfruttare sempre di più qualunque risorsa disponibile ai fini della sua crescita, insostenibilità data dal fatto che sebbene il capitale sia infinitamente accrescibile lo stesso non può dirsi delle risorse sfruttabili. Dall’altro lato si registra, con sempre maggiore evidenza, la tendenza del sistema capitalista, già peraltro individuata da Marx, al monopolismo totalizzante dell’economia e quindi alla «tendenza lunga alla stagnazione dell’economia capitalista, con una crescita (tasso di accumulazione) sempre più ridotta» [12].

3Quelle individuate da Piketty fanno parte di un panorama molto più ampio di contraddizioni analizzate a più riprese da David Harvey che in un suo volume dedicato all’argomento prende in considerazioni ben diciassette contraddizioni che non solo minano l’intera struttura economica capitalista, ma che possono essere alla base di un possibile programma antagonista e alternativo al sistema capitalistico [13]. Ciò su cui mi interessa concentrare l’attenzione è sulle questioni inerenti la contraddizione numero cinque ovvero quella che riguarda il rapporto fra capitale e lavoro. Da attento lettore di Marx, anche Harvey individua in questa contraddizione un punto focale dal momento che anche per il sociologo americano il plusvalore ottenuto da chi detiene i mezzi di produzione è ricavato sfruttando il lavoro dei lavoratori. La contraddizione però è da inserire all’interno di più ampie dinamiche socio-politiche ed economiche. Come sostiene Harvey:

«La riflessione sulla contraddizione fra capitale e lavoro certamente orienta all’obiettivo politico di sostituire il dominio del capitale sul lavoro, sia nel mercato del lavoro sia nel luogo di lavoro, con forme di organizzazione in cui lavoratori associati controllino collettivamente il loro tempo, i loro processi lavorativi e i loro prodotti. Non scompare il lavoro sociale per altri, ma quello alienato sì. La storia dei tentativi di creare qualche alternativa del genere […] è lunga e fa pensare che questa strategia possa avere successo solo limitatamente […]. Le alternative organizzate dallo Stato, derivate dalla nazionalizzazione dei mezzi di produzione e dalla pianificazione centralizzata, si sono dimostrate parimenti problematiche, se non utopiche in modo fuorviante. La difficoltà di realizzare con successo queste strategie deriva, credo, dal modo in cui la contraddizione fra capitale e lavoro è collegata alle altre contraddizioni del capitale e incorporata in esse. Se l’obiettivo in queste forme non capitalistiche di organizzazione del lavoro è ancora la produzione di valori di scambio, per esempio, e se la capacità dei privati di appropriarsi del potere sociale del denaro resta immutata, i lavoratori associati, le economie di solidarietà e i regimi di produzione a pianificazione centralizzata alla fine do falliscono o diventano complici nel loro stesso sfruttamento» [14].

In altre parole, Harvey sostiene che, per molto tempo i marxisti si sono occupati, in parte sbagliando, della contraddizione capitale vs lavoro in maniera quasi avulsa dal contesto politico, storico e culturale più ampio tanto da renderla totalizzante nella loro teoria e nella loro prassi. Tale concentrazione, quindi, si è rilevata fallimentare in parte perché non è stata presa in connessione con altre contraddizioni, come la questione del valore d’’uso e del valore di scambio, per esempio, delle abitazioni o quello della privatizzazione dei servizi sanitari e assistenziali o quello, infine, della privatizzazione della formazione scolastica e accademica.

4L’analisi di Harvey, in questo senso, però non tiene abbastanza conto del fatto che gli Stati democratici che fanno capo a regimi economici di tipo capitalista e neo-capitalista hanno in parte smantellato la capacità di organizzazione delle classi subalterne attraverso il varo di complessi apparati legislativi che hanno reso estremamente difficoltoso ogni progetto di ridimensionamento capitalista comunitario e, dall’altra parte, del fatto che spesso i capitalisti hanno rinunciato agli ambiti produttivi per dirottare i loro capitali al settore finanziario e facendo sostanzialmente scomparire l’ambito primo di socializzazione del mondo contemporaneo: il luogo di lavoro. L’eliminazione dei processi produttivi ha trasformato il lavoro produttivo, che in passato rappresentava il principale ambito di impiego della forza-lavoro, all’ambito della distribuzione.

La produzione di merci, nonostante il dirottamento dei capitali dal settore produttivo a quello finanziario, ha raggiunto livelli prima inimmaginabili grazie soprattutto allo sviluppo e all’utilizzo di nuove tecnologie. Lì dove permane il lavoro vivo, si tratta in gran parte di funzioni di controllo non meno ripetitive e alienanti rispetto al lavoro sulla catena di montaggio dell’era taylorista. In questa situazione la maggior parte del lavoro vivo è presente ancora nel settore della grande distribuzione e, più in generale, nel campo della logistica [15]. Secondo Grappi:

«La logistica ha prodotto accelerazioni importanti verso l’automazione e il controllo informatico dei processi. Tuttavia, automazione, e software incidono sull’organizzazione della forza lavoro in misura variabile, senza cancellare il ruolo e le caratteristiche specifiche del lavoro umano» [16].

Ciò che emerge, per quanto concerne l’aspetto industriale del capitalismo contemporaneo, sembra essere la creazione di un rapporto quasi diretto fra il produttore e il cliente finale all’interno del quale una funzione di connessione strategica è svolta proprio dai servizi logistici. È per questa posizione strategica all’interno delle dinamiche economiche che il settore logistico ha assunto una rilevante importanza nel processo di circolazione e accumulazione del capitale. Importanza, che nell’era della connessione globale, ha tracimato i semplici ambiti economici, per porsi al centro di nuove dinamiche socio-politiche e culturali.

«La crescente attenzione riservata alla logistica in anni più recenti può essere ricondotta al fatto che essa, con le logiche che la contraddistinguono e le operazioni che ne permettono il funzionamento, costituisce uno degli elementi che hanno contribuito in maniera più decisa e travolgente a strutturare tanto le dinamiche di sconfinamento della globalizzazione, quanto l’emergere di nuovi assemblaggi e formazioni su scala globale» [17].

In un’economia globale, come quella in cui siamo pienamente immersi, il campo della logistica è lo strumento attraverso cui l’accumulazione di capitale può raggiungere livelli di ricchezza e di mancata redistribuzione altissimi. Si pensi, per esempio, al fenomeno Amazon: un portale che, in definitiva, si configura come un immenso magazzino in cui il cliente può scegliere quello che vuole ordinandolo, spesso, direttamente al fornitore e sapendo il giorno in cui riceverà la merce. In  mezzo ai due poli c’è soltanto un operaio addetto al prelievo di quella merce e un postino che recapiterà quel determinato oggetto. Nulla di più apparentemente.

5Il fatto però che attraverso la logistica si connettano zone lontane, si travalichino i confini e si creino delle zone con configurazioni politiche, economiche e legislative diverse rispetto a quelle dei Paesi di appartenenza pone delle questioni sostanziali e determinanti proprio nell’ottica della dialettica fra classe dominante e classi subalterne. Il settore logistico contemporaneo si pone come àmbito in cui si mettono in atto nuove concezioni dei territori, nuove istanze riguardanti politiche e interrogativi sui processi di sovranità e autodeterminazione dei popoli. Come sostiene ancora una volta Guido Grappi:

«La logistica, da motore della trasformazione nella produzione, costituisce l’orizzonte politico-organizzativo all’interno del quale queste trasformazioni possono essere meglio comprese. Circa un terzo del commercio mondiale avviene oggi tra aziende, mentre zone economiche speciali, corridoi e porti sono altrettanti snodi all’interno di una nuova mappa del potere. La definizione di standard e protocolli, la scrittura di software dedicati, l’elaborazione di algoritmi e la formazione di stratificati «spazi infrastrutturali» costituiscono di produzione normativa e centralizzazione strategica del comando la cui portata eccede il loro specifico ambito di applicazione. Insieme all’aumento della velocità e della redditività del trasporto di merci, semilavorati e materie prime, la logistica è capace di sintesi tra ambiti diversi e lontani della produzione normativa, introduce nuove modalità di governo e decisione, favorisce processi di istituzionalizzazione e di riorganizzazione territoriale la cui rilevanza non è soltanto economica. La logistica “fa politica”» [18].

È questo fare politica della logistica, a mio avviso, la vera trasformazione del capitalismo attuale. La connessione di zone lontane del pianeta, la creazione di corridoi e snodi logistici e la presenza in tutti questi ambiti e luoghi di lavoratori addetti al trasporto e allo stoccaggio delle merci rappresentano l’ultimo residuo di connessione, in ambito produttivo, fra le classi dominanti e quelle subalterne. Una connessione che da qualche tempo si è fatta sempre più evidente e presente nelle nostre vite e che, in seguito ai continui movimenti dei flussi capitalistici, informativi e produttivi si fa sempre più pervasiva nelle vite ognuno di noi.

Se la classe dominante capitalista, come visto in precedenza, ha la necessità di aumentare sempre di più il proprio capitale, la logistica è lo strumento attraverso cui tale accumulazione è possibile grazie alla creazione di un complesso apparato politico, economico e sociale. È per questo che l’analisi etnografica dei contesti in cui i lavoratori del settore logistico svolgono le loro mansioni è determinante per comprendere il rapporto fondamentale nell’età contemporanea fra capitale e classi subalterne in una dialettica che tracima il solo ambito economico e coinvolge questioni cogenti nella loro attuale urgenza.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Note

[1] Utilizzando le nozioni di classe dominante e classi subalterne, mi rifaccio alla ben nota dissertazione che Antonio Gramsci convogliò nel Quaderno 25 della sua opera Quaderni dal carcere (2014, Einaudi, Torino). Seguendo l’autore, preferisco utilizzare qui il termine “dominante” al posto del più usato “egemone” dal momento che per Gramsci l’egemonia è una funzione connessa alla classe dominante. Con il termine “subalterne”, invece, intendo riferirmi all’eterogeneità e alla diversità delle classi dominate. Per un approfondimento della diffusione e della rilevanza dei termini “subalternità” e “subalterni” rinvio al saggio di Liguori G., Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, url:https://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/6_2011liguori.pdf consultato il 26/07/2018, cui rimando anche per la relativa bibliografia.
[2] Marx K., 2013, Il Capitale, a cura di Mecchioro A. – Maffi B., UTET, Torino.
 [3] M=Merce; D=Denaro; D’=Denaro+plusvalore
 [4] Ibd.: 201.
 [5] Vasapollo L., 2007, Trattato di economia applicata. Analisi critica della mondializzazione capitalista, Jaca Book, Milano: 47.
 [6] Cfr. solo a titolo di esempio Lukács G., 1973, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano.
 [7] Tronti M., 2006 (Ia ed. 1966), Operai e Capitale, Derive e Approdi, Milano.
 [8] È il caso, per esempio, del toyotismo, della lean production e della flessibilità produttiva.
 [9] Harvey D., 2014, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Feltrinelli, Milano: 16.
 [10] Picketty T., 2014, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano (ed. or. 2013, Le capital au XXIe siècle, Édition du Seuil, Paris).
 [11] È necessario tenere in mente qui la legge prima del capitali D-M-D’.
 [12] Vasapollo, op. cit.: 73.
 [13] Harvey D., 2014, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Feltrinelli, Milano.
 [14] Ib.: 75.
[15] Il termine logistica indica almeno quattro diverse accezioni: l’ambito delle infrastrutture, dei trasporti, dello stoccaggio delle merci e dello scambio di informazioni.
 [16] Grappi G., 2016, Logistica, Ediesse, Roma: 131.
 [17] Ib: 23-24.
[18] Ib.: 11.
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 Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro meridionale). Nel 2015 ha conseguito il dottorato in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università di Messina. Ha recentemente dato alle stampe il volume Antropologia della deindustrializzazione, Ed. it.
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