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Capitale Culturale e Patrimonio Naturalistico, contesti congiunti e contesi

 

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Civitella Alfedena, Cappuccetto rosso, murale di Nico (ph. Flavio Lorenzoni, agosto 2020)

il centro in periferia

di Flavio Lorenzoni

Di arte, lupi e fili rossi

Nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, c’è Civitella Alfedena, un paesino che non arriva a 300 abitanti arroccato su un’altura, circondato dai monti della marsica e dal loro paesaggio lussureggiante. Civitella fa parte di un bacino di piccoli paesi nati intorno o a ridosso della Strada Statale 83 o “Strada della Marsica”, che si inerpica nell’Appennino partendo da Pescina fino a finire in Molise e che, una volta raggiunta l’altitudine di 1100-1200 metri, prosegue sostanzialmente in piano seguendo le vallate tra i monti dell’Appennino. Si tratta di un territorio in cui è facile percepire anche solo con un colpo d’occhio quanto la natura sia padrona incontrastata del paesaggio. È facile avere la netta percezione, attraversando questi paesi, che l’uomo sia di troppo, in un posto in cui non dovrebbe essere. E questo avviene anche in estate, quando la popolazione che vive questi luoghi quadruplica.

Entrando a Civitella Alfedena, venendo da Pescasseroli (o uscendo dal paese, se si viaggia in senso opposto), si viene accolti da un grande murale dipinto sulla parete di una cabina dell’ENEL. Questo dipinto ha il potere di catturare immediatamente lo sguardo, costringendo quasi chi guida a rallentare. I colori sgargianti, il contrasto vivo e la precisione dei tratti sono veramente di ottima fattura, e raffigurano Cappuccetto Rosso che guarda un lupo. Affianco alle immagini campeggia una scritta che dice “Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli umani”.

La potenza evocativa di questi due linguaggi coniugati insieme aumenta esponenzialmente incontrando quest’opera di street art lì, al centro del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM), dove la natura è padrona del paesaggio, lì dove si ha la percezione che l’uomo non dovrebbe essere. Ho incontrato quest’opera a più di un anno dalla sua realizzazione, nell’estate del 2020 e anche io sono stato colpito dall’enorme potere evocativo dell’opera e del contesto nel quale è esposta. È stata una visione che, dopo avermi emozionato, mi ha spinto a riflettere. Tali riflessioni sono qui esposte, accompagnate da qualche esperienza di ricerca. Sarà dunque Cappuccetto Rosso a fare da filo rosso per le riflessioni di seguito riportate.

Si può cominciare col dire che quel murale non è lì per caso. È stato dipinto nella primavera del 2019 dall’artista Nico (Nicola D’Amico), un giovane concittadino di Civitella Alfedena che ha preso spunto da uno scatto tratto da un progetto della fotografa Nadia Novelli. La foto è stata poi trasposta con la tecnica dello stencil e rifinita a pennello. Un murale di simili dimensioni, con un tale potere evocativo deve essere stato, se non richiesto, quantomeno implicitamente accettato (a priori o a posteriori) dalle autorità che avrebbero altrimenti provveduto a coprirlo.

L’immagine raffigura a pieno il legame che non solo il PNALM ma soprattutto questo piccolo paese ha con il lupo. Questo predatore svolge infatti un ruolo centrale nell’industria turistica del paese, che è dotato di un’area faunistica ad esso dedicata, con tanto di belvedere rialzato dal quale è possibile ammirare esemplari di lupo feriti o non più in grado di sopravvivere allo stato brado. Ad essa è collegato inoltre il Museo del lupo appenninico, inaugurato nel 1976 in una ex stalla e di seguito restaurato ed adeguato a spazio museale, nel quale si analizza il lupo appenninico dal punto di vista storico-naturalistico. Tra le attività e i laboratori che si svolgono nel museo è interessante quello riservato ai bambini, le cui attività erano incentrate sulla rilettura della favola di Cappuccetto Rosso raccontata dal lupo. “Ma il lupo è davvero cattivo? Vogliamo conoscere la sua versione dei fatti? Vi aspettiamo per ascoltare la favola di Cappuccetto Rosso raccontata proprio dal lupo e sfatare, insieme a lui, tutti i miti e leggende che aleggiano intorno a questo splendido animale”. Si legge sul sito del PNALM.

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Veduta di Opi (AQ) dal Monte Marsicano (ph.Flavio Lorenzoni, luglio 2019).

Natura e Cultura, un binomio indistricabile

Il tentativo di modificare l’immaginario culturale legato al lupo è un aspetto assai interessante del processo di riabilitazione di quest’animale, cominciato nel 1971 con l’eliminazione di questo predatore dalla lista delle specie nocive ed è proseguito con una serie di provvedimenti normativi volti alla salvaguardia e alla tutela. Il cambiamento della percezione culturale di credenze, stereotipi, abitudini, comportamenti, è un aspetto delicato, non scevro da conflitti e problematiche, ma impossibile da ignorare se si vogliono apportare cambiamenti duraturi. L’imposizione di un’idea calata dall’alto con gli strumenti della legislazione e nient’altro, senza l’attenzione al contesto di riferimento, è una strategia assai meno efficace.

L’efficacia della narrazione portata avanti non solo dal PNALM ma da tutte le istituzioni impegnate nella tutela delle aree naturali d’Italia ha dato i suoi frutti. Dal 1973 quando con “Operazione San Francesco” l’allora Parco Nazionale d’Abruzzo insieme al giovane WWF si impegnarono a diffondere un’idea diversa del lupo attivando flussi turistici per vedere il parco (e il nascente museo del lupo di Civitella Alfedena con annessa area faunistica furono centrali in questo) e promuovendo parallelamente ricerche sull’argomento, che coinvolsero esperti e naturalisti da tutta Europa.

Il risultato è stato un progressivo aumento del numero di esemplari di lupo e l’estensione dell’areale a tutta la penisola. Questo tipo di narrazione – accompagnata, come detto da tutta una serie di azioni volte a tutelare e salvaguardare un animale quasi scomparso – tentava di cambiare un sistema di pensiero, di scardinare una serie di abitudini profondamente radicate soprattutto nel mondo agropastorale e una serie di luoghi comuni e credenze che invece coinvolgevano anche gli ambienti più urbanizzati.

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Veduta di Pescasseroli (ph. Flavio Lorenzoni, agosto 2020)

Tentando di storicizzare, la questione del lupo si inserisce inoltre in un periodo in cui il messaggio ecologista pone le sue basi. È proprio del ‘72 il primo rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato al MIT dal Club di Roma [1], considerata una delle tappe fondamentali dell’ambientalismo (o ecologismo) come movimento socio-politico. Nemmeno il mondo ecclesiastico resta indifferente. Già nel 1970 e poi nel 71 l’allora papa Paolo VI parlava della crisi ecologica e della necessità di intervenire [2]. Nasceva la “Profezia Ecologica” (Padiglione, 2018), che sarebbe diventata sempre più centrale nel discorso politico globale.

In quegli anni trovava nuova attenzione un mondo agro-pastorale ridotto ai margini della storia da quella rivoluzione tecnologica e modernizzatrice che, negli anni 50, aveva promesso più lavoro e più produttività per tutti e provocato l’effetto di scomporre il movimento delle campagne, che ne uscì depotenziato e marginalizzato. Nel 1973 nasceva a San Marino di Bentivoglio il primo Museo della Civiltà Contadina, che avrebbe dato il via alla stagione dedicata alla patrimonializzazione di una cultura contadina, «per raccontare il primo Novecento e di esso una storia epica di fame e fatica, di astuzie e lotte sociali dove i contadini erano (stati considerati) i protagonisti» (ibidem). Nello stesso periodo, dunque, viene musealizzata una cultura contadina che affermava «una domanda non altrimenti espressa di democrazia patrimoniale» e iniziava a prendere forma l’idea di considerare la natura come un patrimonio da proteggere.

A cinquanta anni di distanza, come interagiscono le comunità agropastorali e il patrimonio naturalistico? Le riflessioni di seguito proposte coniugano un’assidua frequentazione di lunga durata con il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise all’esperienza come ricercatore in un gruppo di lavoro sui contesti agropastorali concentrata sui patrimoni di conoscenze delle comunità locali che hanno coltivato/allevato e custodito, sino ai nostri giorni, le risorse genetiche autoctone del territorio del Lazio con particolare riferimento a quelle iscritte al Registro Volontario Regionale (RVR) di cui alla legge regionale n. 15/2000. Il progetto si inserisce nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale (PSR) 2014-20, Operazione 10.2.1 “supporto alla conservazione delle risorse genetiche vegetali e animali in agricoltura tramite attività svolte da ARSIAL”.

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Veduta dei piccoli centri abitati all’interno del Parco Nazionale Regionale dei Monti Aurunci dal Monte Appiolo, (ph. Flavio Lorenzoni, settembre 2020)

La Legge Regionale 15 del 2000 contiene una serie di normative attraverso le quali la Regione Lazio si applica in tema di “Tutele delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario” [3]. Nel primo comma del primo articolo si legge l’intento generale della legge: «La Regione Lazio favorisce e promuove, nell’ambito delle politiche di sviluppo, promozione e salvaguardia degli agroecosistemi e delle produzioni di qualità, la tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario» [4]. Il termine “agroecosistema” condensa la convinzione che il patrimonio genetico di una regione (e di conseguenza il suo patrimonio economico) sia intrinsecamente legato alla sopravvivenza di comunità agropastorali nei loro contesti naturali d’appartenenza attraverso le risorse (animali e vegetali) da sempre utilizzate per la sussistenza. L’idea è quindi quella che esista un profondo vincolo che lega le comunità agropastorali, gli animali autoctoni e il territorio nel quale queste risorse convivono, generando un circolo virtuoso. Sulla base di questa convinzione, la legge 15/2000 norma gli aiuti ad allevatori ed agricoltori che decidono di continuare (o intraprendere) le attività di allevamento o coltivazione di «risorse genetiche autoctone di interesse agrario».

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Veduta dei piccoli centri abitati all’interno del Parco Nazionale Regionale dei Monti Aurunci dal Monte Appiolo, (ph. Flavio Lorenzoni, settembre 2020)

Proprio nell’ottica del profondo legame tra risorsa allevata, comunità agropastorale e territorio, il progetto si propone di rilevare, attraverso gli strumenti tipici della ricerca antropologica, quell’insieme di saperi incorporati, pratiche, saperci fare tramandati da generazioni e considerati a tutti gli effetti “beni immateriali” demoetnoantropologici (Padiglione, 2018).

Il progetto non si è ancora concluso. Le riflessioni qui accennate, pertanto, si fondano su un’esperienza di campo parziale che sarà interessante portare avanti e approfondire insieme al gruppo di lavoro. Ritengo sia interessante tratteggiare, a grandi linee, una riflessione in merito a quelle aree definite “protette”, e che coinvolge quindi anche il PNALM. Sebbene l’inquadramento legislativo richieda troppo spazio, una delle caratteristiche fondative di queste aree è ovviamente l’essere volte alla conservazione di ciò che “proteggono”. L’antropologia del patrimonio problematizza da tempo il concetto di “conservazione”, in questo caso alla riflessione si aggiunge il fatto che nelle “aree naturali protette” spesso ci sono anche contesti antropizzati. Il difficile compito delle istituzioni regionali preposte è quindi quello di far coesistere capitale culturale e patrimonio naturalistico, con la consapevolezza che non regolamentare l’uno equivarrebbe alla non tutela dell’altro. La necessità da parte delle istituzioni di un maggior controllo sulle attività economiche dell’uomo, comprese quelle agro-silvo-pastorali, ha comportato la necessaria burocratizzazione di simili attività; questo ha determinato tensioni e frizioni con le comunità locali ancora percepibili nelle aree naturali protette create più di recente.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise da questo punto di vista presenta una situazione più distesa, essendo tra le aree naturali protette più antiche d’Italia. Anche qui, come altrove, emergono tuttavia problemi legati alle pratiche allevatoriali, che di solito in queste aree sono condotte allo stato brado o semibrado. Queste attività sono difficili da normare per le istituzioni e chi le pratica spesso fatica ad adeguarsi, conservando l’idea di fondo che queste norme mettano in contrapposizione simili attività in favore del patrimonio naturalistico.

Si genera in questo modo un cortocircuito di senso. Gli allevatori sono considerati risorse preziose dalle istituzioni, in virtù del lavoro svolto nell’allevamento di risorse genetiche autoctone tutelate e valorizzate, mentre percepiscono le stesse attività da loro svolte come d’intralcio alla tutela del patrimonio naturalistico.

Il PNALM però consente una riflessione ulteriore. Dal punto di vista comunicativo è interessante notare come, in tutti i canali comunicativi del Parco, l’argomento principale è la tutela della biodiversità selvatica. In particolar modo la campagna di sensibilizzazione si concentra sul non nutrire animali abbastanza confidenti da avvicinare l’uomo o l’abitato e, più in generale, sul fornire consigli utili per “non lasciare cibo facile” alla portata degli animali selvatici, con tanto di hashtag “#Keepwildlifewild” (Mantieni selvaggia la vita selvaggia). L’idea è quindi simile. Ad essere importante è il patrimonio naturalistico del Parco, tutto il resto è d’intralcio.

Uno spunto interessante si trova nel sito dell’ente, dove è presente il Piano d’Azione per la Tutela dell’Orso bruno Marsicano (PATOM). Tra i fattori di rischio viene citata la “zootecnia”, che viene definita fuori controllo per via del progressivo aumento del pascolo brado di equini e bovini in sostituzione degli ovicaprini tipici della tradizione allevatoriale appenninica. L’azione proposta è quindi quella di riportare il comparto zootecnico dell’area del PNALM sotto controllo favorendo il ritorno all’utilizzo e il «recupero delle forme tradizionali di zootecnia ovicaprina» [5]. Si nota qui un chiaro riferimento alle comunità agropastorali e al loro capitale culturale (Padiglione, 2018), seppure il fine ultimo rimanga lo stesso: la protezione dell’Orso.

Emerge da questo passo del PATOM l’effetto della commercializzazione dei “beni” di cui si compone il patrimonio culturale materiale e immateriale delle comunità agropastorale del Parco. Tale commercializzazione ha comportato un adattamento alle logiche di mercato che risultano nei processi di patrimonializzazione dovuti alla considerazione del turismo come strategia di uscita da una condizione di marginalità (Pezzi, 2018).

La convivenza tra aree antropizzate e aree naturali è dunque un nodo cruciale con il quale le istituzioni regionali si stanno confrontando. La legge quadro sulle aree naturali protette (Legge 394 del 1991), prevede, tra le finalità l’“applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare un’integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali” (art.3 comma b).

La sfida è quindi quella di considerare le attività agro-silvo-pastorali e le risorse genetiche che ne sono oggetto come, appunto, risorse utili anche per la tutela e conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturalistico.

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Veduta dei piccoli centri abitati all’interno del Parco Nazionale Regionale dei Monti Aurunci dal Monte Appiolo (ph. Flavio Lorenzoni settembre 2020)

Conclusioni

Tornando, in conclusione, al meraviglioso murale di Civitella Alfedena, su Cappuccetto Rosso e il lupo e alla sua scritta: “Ci sono andata apposta nel bosco. Volevo incontrare il lupo per dirgli di stare attento agli umani.” viene spontaneo leggere tra queste righe l’idea soggiacente alle politiche dei due Parchi su cui si è riflettuto. Eppure, una caratteristica tipica dei Parchi Naturali in Italia, rispetto a quelli del Nord America o del Sudafrica, è proprio il fatto che è difficilissimo trovare delle aree naturali protette che non siano antropizzate. È possibile che questa caratteristica debba essere per forza un limite? Sembra che il capitale culturale delle comunità agropastorali dei parchi e quello naturalistico del territorio siano in perenne conflitto e che sia impossibile tutelare l’uno senza penalizzare l’altro. Eppure, da tempo i due patrimoni sono tutelati dallo stesso codice. Negli ultimi anni abbiamo assistito agli incendi nella Foresta Amazzonica, in Australia, in Nordamerica, al messaggio di Greta Thunberg, ai Fridays for Future dei giovani di tutto il mondo e in ultimo alla pandemia causata dal Covid-19. Si dimostra più che mai la necessità di stabilire un nuovo rapporto con l’ambiente, che sia più consapevole e sostenibile. Alla luce di questo le comunità agropastorali delle aree interne, il loro insieme di saperi, pratiche, saperci fare, il loro insieme di conoscenze nel rapporto con il territorio possono forse rappresentare, se non una risposta, quantomeno un parere autorevole da ascoltare.

 Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Note
[1] Meadows, D., H., Meadows, D., L., Randers, J., Beherns III, W., W., “The Limits to growth. A report for the Club of Rome’s project on the predicament of mandkind”, Universe Books, New York, 1972.
[2] “Octogesima adveniens 80° anniversario dell’enciclica rerum novarum”. 14 maggio 1971 e “Discorso di sua santità Paolo VI in occasione del 25° Anniversario della FAO”, 16 novembre 1970.
[3] Legge Regionale 01 Marzo 2000, n.15.
[4] Ibidem.
[5] Piano d’Azione Nazionale per la Tutela dell’Orso bruno Marsicano (PATOM), Quaderni di Conservazione della Natura numero 37.
Riferimenti Bibliografici
Pezzi, M. G., “Innovazione, identità territoriale e sviluppo turistico nelle aree interne marchigiane: Apecchio e l’Alogastronomia” in Aliberti, F., Cozza, F., 2018, Mobilità culturale e spazi ospitali, CISU, Roma.
Padiglione V e alii, 2015, “Saperci fare”, in AM- Antropologia Museale, anno 12, n.34/36, Etnografie del contemporaneo I: Il post agricolo e l’antropologia: 146-148
 Padiglione V. (a cura di), 2018, Saperci fare. Capitale culturale e biodiversità agraria nel Lazio, ARSIAL, Roma.
Padiglione V., 1997, Interpretazione e differenze. La pertinenza nel contesto, Roma, Kappa.
Simonicca, A., 2015, Cultura, Patrimonio, Turismo, Roma, CISU.
 Teti, V. 2004, Il senso dei luoghi, Donzelli Editore, Roma.

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Flavio Lorenzoni, laureato in Antropologia Culturale presso l’Università di Roma La Sapienza, dove ha conseguito anche il Diploma della Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici. Tra i suoi interessi di ricerca: etnografia nei contesti legati al tifo calcistico, processi di costruzione del sè, comunità di pratica, processi di patrimonializzazione, biodiversità. Attualmente è Ricercatore a progetto presso l’Università di Roma La Sapienza e fa parte della Redazione di AM Antropologia Museale.

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