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Bruno Pilat. Una vita tra le pieghe dei “giusti” della storia

copertinadi Lorenzo Mazzi

Per capire in che modo la storia che troviamo sui manuali scolastici riassuma una miriade di storie particolari e diverse tra loro, dobbiamo rivolgerci a libri come quello di Bianca Pilat. Una vera e propria indagine storica, condotta da un’autrice che storica di professione non è, ma che ha imparato sul campo il duro mestiere. In quanto curatrice e gallerista specializzata in arte contemporanea, la vita di Bianca Pilat è trascorsa a contatto con alcuni dei più grandi artisti contemporanei del Novecento. Un’esistenza piena di cultura e di contatti internazionali, che però ignorava fino a non molti anni fa l’esistenza di un’altra figura familiare dal passato ricco di Storia.

La storia scritta la S maiuscola, quella appunto riportata nei testi di storia, ma di cui Bianca non fu a conoscenza fino alla morte del padre. La sua riservatezza, quella di un brigadiere dei carabinieri che aveva vissuto con senso del dovere e dell’onore il suo incarico di ordine pubblico presso la popolazione dell’Aprica in provincia di Sondrio, non lo aveva mai portato a raccontarle i dettagli di una vicenda risalente alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale si rese promotore di una fuga che permise nel 1943 a 218 ebrei di nazionalità jugoslava di trovare rifugio dalla furia nazifascista nella vicina Svizzera.

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Bruno Pilat

Un eroe a sua insaputa. Ho detto no a Hitler (Tyche Edizioni, Siracusa 2018) è il libro che racconta passo dopo passo la scoperta che ha portato Bianca Pilat, senza esperienza nel campo della ricerca storica, a impegnarsi dopo la morte del padre in un rigoroso lavoro di documentazione che portasse alla luce le vicende di cui era stato protagonista Bruno Pilat. Una vicenda quindi personale, che però srotola i suoi fili nell’ambito della grande storia del Novecento.

Le domande che l’autrice si è posta, sono le stesse che ci sorprendono all’inizio del libro: perché 218 ebrei jugoslavi in fuga dagli ustascia furono accolti all’Aprica dal fascismo? Come poterono vivere aiutati dallo Stato italiano in tempo di leggi razziste antiebraiche? Chi li aiutò a fuggire in Svizzera dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe comportato la loro sicura deportazione? Risponde a verità quanto uno dei sacerdoti valtellinesi ebbe a dire motivando la sua scelta di aiutare Bruno Pilat a preparare la fuga di questi rifugiati, cioè che il Vaticano fosse a conoscenza della situazione e gli chiese di aiutarli?

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Gli ebrei internati nel campo di Aprica

La ricerca condotta da Bianca Pilat visitando archivi e istituzioni, prese avvio infatti da una telefonata inaspettata, che le fece dopo la morte del padre uno storico impegnato per parte vaticana nella commissione nominata dalla Santa Sede e da un comitato internazionale di leader ebraici, incaricata della ricostruzione delle vicende di Pio XII e della Shoah attraverso l’indagine presso gli Archivi vaticani. Chi le telefonò chiedeva informazioni riguardanti il coinvolgimento di questo sacerdote, insieme a suo padre, nel salvataggio dei 218 ebrei jugoslavi. Vicenda che la figlia ignorava, di cui il padre non le aveva mai parlato. A lei allora il compito di ricostruire la storia e la memoria del padre, fino a fargli tributare post mortem i doverosi riconoscimenti istituzionali, come l’intitolazione di una caserma dei carabinieri (presso il paese natio, in provincia di Treviso) e la medaglia d’argento al valor civile “alla memoria”.

centrovalleUn libro che fornisce risposta a questi e a tanti altri interrogativi storici, approfondendo prima la storia dell’ex-Regno di Jugoslavia e poi quella della zona montuosa orobica in cui è sito il bel paese di Aprica. Attraverso interviste, contatti, ricerche d’archivio e online che l’hanno portata persino in Australia, dove si trasferirono alcuni degli ebrei jugoslavi scampati alla persecuzione grazie all’aiuto del carabiniere Bruno Pilat, la figlia Bianca ci racconta la storia europea di quegli anni, fino alla successiva deportazione del padre in Germania ai lavori forzati. Questo a causa del suo sostegno ai movimenti partigiani della zona e della sua avversione manifesta al fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Una storia importante, che l’autrice si è assunta il compito familiare e la missione pubblica di raccontare anche nelle scuole e che merita di essere maggiormente conosciuta e tramandata.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020

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Lorenzo Mazzi, attualmente docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico Statale “Piero Bottoni” di Milano, ha partecipato fin da studente a progetti volti alla salvaguardia della memoria storica delle persecuzioni del Novecento, prosegue il suo impegno anche come referente dei progetti di educazione alla legalità e alla cittadinanza e di organizzatore di mostre ed eventi culturali di carattere storico e politico.

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