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Bizzarrìe di Sicilia. Storie e figure

immagine-librodi Rosario M. Atria

«Si sa, i poli opposti si attraggono», avverte Antonino Cangemi in apertura del suo ultimo lavoro, Miseria e nobiltà in Sicilia, pubblicato nell’ottobre 2019 per i tipi di Ottavio Navarra nella collana «Officine», con singolare quanto riuscita scelta del sottotitolo, Vite di aristocratici eccentrici e poveri talentuosi: formula che cattura l’attenzione del lettore sin dalle soglie, invitandolo ad attraversare le 165 pagine del libro alla scoperta della portata ossimorica delle vicende raccontatevi.

Saggista, scrittore, collaboratore di testate giornalistiche e periodici, appassionato animatore culturale, facendo mostra di acuta sensibilità e sottile conoscenza delle umane vicende, Cangemi osserva nell’introduzione che, se l’assunto iniziale è vero in generale, esso sembra essere stato confezionato a bell’apposta per una terra multiforme e caleidoscopica come la Sicilia, «abbagliata dalla luce e oscurata dal lutto (per dirla con Bufalino), accecata dalle luminarie della festa e afflitta da ataviche amarezze, allegra e malinconica, ciarliera e silenziosa, vivace e apatica, dai colori accessi e dalle più tenebrose oscurità».

Un’isola che – aggiungiamo – si pasce della ricchezza delle sue stesse contraddizioni: terra del mito che, da sempre, conquista e respinge, attrae e divora, ammalia e addolora; luogo dell’oblìo o, come registrava il principe di Salina, del «sonno atavico»; spazio geografico dell’incontro interculturale e opulenta categoria dell’anima, dalla straordinaria fascinazione ma anche dalla violenta tragicità.

Cangemi – già autore di pamphlet umoristici, tra cui Siculospremuta (Palermo, D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Trapani, Di Girolamo, 2013), come pure di sillogi poetiche quali I soliloqui del passista (Civitella in Val di Chiana, Arezzo, Zona, 2009) e Il bacio delle formiche (Faloppio, LietoColle, 2015) –, torna a rovistare nella storia aneddotica di quella che in passato aveva definito come l’Isola delle isole, traendone materiali e spunti per ricostruire e riproporre imprese, atteggiamenti, maniere, detti e non detti di uomini e donne dalle esistenze originali, tracciando così un’ideale linea di continuità con i quadri offerti nel libro D’amore in Sicilia (Palermo, D. Flaccovio, 2015).

Lì aveva proposto una selezione di storie di ardente passione: amori forti e impetuosi, appassionati e burrascosi; amori entrati prepotentemente a far parte della memoria collettiva (isolana e non solo), come quelli che hanno avuto per protagonisti Ignazio Florio e Donna Franca, Luigi Pirandello e Marta Abba, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alexandra (Licy) Wolff; amori che hanno saputo generare armonie esaltanti o feroci distacchi, talora tingendosi di giallo o intrecciandosi a trame di potere.

Non v’è dubbio che la scrittura di Cangemi si nutra della sua personalissima attitudine a scandagliare l’animo umano, indovinandone sogni e timori, slanci e incoerenze: questa la matrice comune delle opere del 2015 e del 2019. Così, in Miseria e nobiltà in Sicilia, come già era accaduto nella precedente raccolta, l’autore si misura in un’ardita, quanto affascinante operazione di ritrattistica della memoria, con l’intento di delineare le non comuni esistenze di esuberanti tipi siciliani: vicende biografiche in cui il confine tra persona e personaggio è – pirandellianamente – quanto mai sfumato.

L’operazione di ricostruzione di un passato certo assai lontano dalla contemporaneità – un passato in cui la distanza tra i ceti sociali era sensibilmente marcata e i titoli nobiliari pesavano «al punto che tanti, il cui sangue non era proprio blu, investivano parte delle proprie fortune economiche per acquistarli e accedere ai piani alti della società» – è condotta da Antonino Cangemi con squisita e piacevolissima prosa, leggera ma mai banale, ironica e al tempo stesso pungente, senza mai scivolare in facili e inopportuni giudizi di stampo etico, ma mostrando anzi comprensione per l’umanità delle singole traiettorie.

E se audace – e perfino irriverente – può apparire l’accostamento di aristocratici eccentrici e poveri talentuosi, come se la storia sapesse giudicare della bellezza o della turpitudine delle sorti dei viventi sottraendosi al gusto della classificazione, vien da chiedersi se i due aggettivi non siano addirittura interscambiabili; se non possa, cioè, parimenti raccontarsi delle gesta di aristocratici talentuosi e di poveri eccentrici: «I gattopardi di cui qui si racconta la vita sono sì eccentrici ma non privi del tutto di talento; di contro, i poveri qui descritti hanno talento da vendere ma, a loro modo, sono pure eccentrici», risponde l’autore, ribadendo pure che «l’eccentricità è comune a molti siciliani, anche se sarebbe superficiale sostenere che essa sia uno degli ingredienti di cui sono impastati gli isolani».

La questione resta aperta: chissà che Cangemi non stia già lavorando ad altri gustosi ritratti, setacciando la storia di Sicilia per farci dono delle mirabolanti avventure di personaggi bizzarri, eclettici, atipici, geniali, condite delle loro stravaganze, ma segnate – anche se non soprattutto – di passioni autentiche, nel segno della bellezza e della sofferenza, dell’altezza e della miseria.

Frattanto, con la sagacia che lo contraddistingue, Cangemi si professa consapevole che «la commistione tra aristocratici altezzosi e fieri della loro superiorità sociale e poveri cristi che con fatica mettono insieme un po’ di pane e companatico», non sarebbe piaciuta ai primi per fin troppo evidenti ragioni di casta, ma probabilmente neanche ai secondi per le vessazioni e i soprusi patiti, senza neanche diritto di replica.

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Agostino La Lomia

Tra i ventuno quadri proposti, campeggiano – per la categoria degli aristocratici eccentrici – quelli di Pietro Pisani, Agostino La Lomia, Giuseppe Avarna, Macalda di Scaletta, Raniero Alliata, Raimondo Lanza di Trabia, Domenico Tempio, Franca Florio, Lucio Piccolo e Antonio Veneziano. Nella schiera dei poveri talentuosi, Cangemi include invece Petru Fudduni, Filippo Bentivegna, Pietro Vento, Tommaso Lipari, Francesco Procopio dei Coltelli, Peppe Schiera, Ciccio Busacca, Tommaso Bordonaro, Maria Fuxa, Nick La Rocca, Antonino Di Blasi.

Ne riprendiamo, per questo contributo, alcuni a mo’ d’esempio, oscillando entro un arco cronologico che va dal Seicento e al Novecento. Muovendo – anche in considerazione della sua collocazione nell’economia del volume – dalla figura del Pisani, creatore della Real Casa dei Matti: uomo insigne per qualità, valori e alto ingegno, di rara e preziosa nobiltà, fu manager ante litteram e seppe costruire un innovativo modello spaziale in ambito psichiatrico; un modello che focalizzava l’attenzione sulla cura, proponendo le prime pratiche ricreative, conservando uno storico dei trattamenti riservati ai pazienti, i quali erano ancora suddivisi in categorie tipologiche che oggi suonerebbero senza alcun dubbio offensive: maniaci, malinconici, imbecilli ed ebeti. Tuttavia, l’intuizione rivoluzionaria di Pietro Pisani nell’approccio al paziente, prima ancora che alla patologia, permise che venisse finalmente riconosciuta dignità umana ad ogni caso preso in carico. Al punto che – come ebbe ad annotare il musicista transalpino de la Fage – «chi uscisse da questo stabilimento senza rendere grazie al suo direttore in nome dell’umanità, dovrebbe egli stesso esservi trattenuto per essere guarito dalla follia»: un riconoscimento di straordinaria importanza, a voler suggerire che chi non sa farsi carico del dolore altrui, è il primo dei folli e non merita di esser definito, per la sua stessa sufficienza, umano.

Curiosa, al punto da sfociare nel gossip e far capolino sui rotocalchi dell’epoca, è la vicenda del duca Giuseppe Avarna, appartenente ad una casata di antica nobiltà, e delle campane della cappella del Curato, posta di fronte all’imponente castello ottocentesco di Gualtieri Sicaminò. Pare che dopo ogni convegno amoroso tra il duca e la giovane hostess americana Tava Daez le campane suonassero a festa, più che per esaltare le intrepide imprese dell’uomo, per rendere edotta dell’«avvenuto congiungimento» l’ex consorte Magda Persichetti: un «affronto irridente» a colei che «l’aveva privato di quasi tutti i suoi beni, complice la riforma agraria del ‘55», costringendolo a vivere di una «modestissima pensione».

Intervistato sul punto da Enzo Biagi, Avarna asserì che il rintocco delle campane esprimeva ora euforia ora tristezza, manifestando l’ironia con cui la coppia amava interpretare la vita. Quella leggerezza nello stare al mondo abbandonò pian piano il duca di Gualtieri, come testimoniano alcuni suoi aspri, disincantati versi: «Ho lunghe notti senza fine / e il respiro dei miei cani fedeli / e nulla più / non ho compagni né facili donne / o giovani fanciulle / ma di notte ho un’amante / che dorme con me / fedele la mia morte». Nel febbraio del 1999, un incendio divampò nella cappella del curato: prima di esser travolto dalle fiamme, Giuseppe Avarna riuscì a gettare dalla finestra le sue ultime poesie, poi pubblicate con il titolo Il silenzio delle pietre (Washington, Printery Communications, 2009). Come le pietre della silloge – osserva l’autore, stavolta non senza una nota malinconica –, anche «le campane dell’amore sono mute da tempo».

Altra bizzarra figura tra i nobili di Sicilia è quella del “principe mago”, Raniero Alliata, che dalla finestra della sua neogotica dimora, esibendo tra le mani un teschio, ogni pomeriggio scagliava maledizioni, indirizzate nell’ordine ai parenti, agli speculatori edilizi che avevano deturpato l’amenità della Conca d’oro e all’umanità tutta, da lui suddivisa in insolite categorie, secondo un assetto piramidale che aveva al suo vertice gli eletti (gli unici che salvava, considerandosene parte) e, sul gradino più basso, i coprotidi (assimilati allo sterco). Alliata, che fu seduttore impenitente, come molti tra gli aristocratici tratteggiati nel libro, finì per morire in solitudine, rifiutando anche l’assistenza medica: perché «la solitudine ha un costo» – chiosa Cangemi – «e prima o poi, soprattutto poi, presenta il suo conto».

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Franca Florio

E veniamo a Franca Florio, la plus belle femme d’Europe, uno dei tre ritratti di donne delineati da Antonino Cangemi, insieme a Macalda di Scaletta, l’avventuriera al di là del bene e del male, e a Maria Fuxa, poetessa al manicomio. Il fascino di donna Franca, combinazione «di bellezza e di classe» – provvede a precisare l’autore – «resiste nel tempo, supera ogni moda, ignora i mutevoli canoni dell’avvenenza femminile». I più rinomati pittori e scultori del suo tempo «si contesero l’onore di consegnarne le splendide forme all’olimpo dell’arte», mentre il vate D’Annunzio rimaneva estasiato dal suo incedere alla levriera e da «uno sguardo che promette e delude» e, tra i poeti del tempo, il francese Robert de Montesquiou la definiva “la fleure inutile”, un fiore di montagna dal vano splendore, perché lontano dagli occhi di chi – come lui – era davvero in grado di apprezzarne la rarità.

Questi e altri aneddoti sono rievocati da Antonino Cangemi, abilissimo nel descrivere e far rivivere le atmosfere del tempo. Seguiamo così, immergendoci in quelle ambientazioni, i passi della “regina di Palermo”, città interessata da significativi fermenti culturali e capitale italiana del Liberty, nel tempo in cui «i Florio dettavano legge con la loro sconfinata ricchezza, nota anche all’estero, a Parigi come a Londra, sebbene le malelingue continuassero a chiamarli “i nipoti del droghiere”». Scorgiamo Ignazio intento «quasi esclusivamente a correre dietro alle gonnelle» per concedersi, «da incorreggibile sciupafemmine», ripetute avventure galanti. E ci sembra quasi di trovarci al Teatro Massimo, quando Donna Franca, «consumando la sua vendetta, assoldò una claque» per fischiare Lina Cavalieri, mediocre cantante d’opera che il marito, «per invogliarsene ancor più le grazie», aveva fatto debuttare ne La Bohème alla Scala di Milano e poi scritturare per la medesima opera a Palermo.

Un passaggio meritano Lucio Piccolo e il suo mondo lunare, in un quadro delicato che si apre con la partecipazione, nel luglio del 1954, alla rassegna Incontri letterari tenutasi a San Pellegrino Terme. Si presentò tra i grandi della letteratura italiana (da Montale a Cecchi, da Ungaretti alla Bellonci), accompagnato dal cugino Tomasi di Lampedusa e da un fido servitore, a formare un «insolito trio» che non passò inosservato.

«Piccolo risultò la vera rivelazione del convegno – scrisse Bassani, in un passo richiamato da Cangemi – Più che cinquantenne, distratto e timidissimo come un ragazzo, sorprese e incantò tutti, anziani e giovani, la sua gentilezza, il suo tratto da gran signore, la sua mancanza assoluta di istrionismo, persino l’eleganza un po’ démodé dei suoi siciliani abiti scuri». Gli fu assegnato il primo premio: laureatosi poeta, il barone Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella, come se fosse capitato lì un po’ per caso, «ritornò nel suo regno isolato e fiabesco della villa ottocentesca di capo d’Orlando». Due anni dopo, nel 1956, vide la luce, nella prestigiosa collana «Poeti dello Specchio» dell’editore Mondadori, la sua raccolta Canti barocchi e altre liriche, comprendente le 9 liriche stampate anni prima presso lo Stabilimento Tipografico Progresso di Sant’Agata di Militello con una tiratura di appena sessanta copie, aggiuntevi altre dieci poesie. Quella breve silloge era stata inviata a Montale, con lettera d’accompagnamento del cugino Tomasi; una presentazione – non manca di rilevare Cangemi – che sembrava piuttosto quella del futuro Gattopardo: «[…] era mia intenzione rievocare e fissare un mondo singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte».

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Lucio Piccolo

Il romanzo avrebbe assicurato a Tomasi ben altra fama, oltre che proventi, di quelli raggiunti da Piccolo con i suoi Canti barocchi. Dopo la morte, su di lui calò il silenzio: «come se quel poeta definito da Ezra Pound “magnificent” valesse poco più di nulla», commenta Cangemi. Più in là, tra le sue carte, fu ritrovato il manoscritto incompiuto L’esequie della luna, racconto fantastico che trova nei notturni della poesia leopardiana la sua fonte di ispirazione, sviluppandosi in una Sicilia onirica e trasfigurata, abitata da personaggi da fiaba (L’esequie della luna e alcune prose inedite, a cura di Giovanna Musolino, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1996).  Un lascito di grande suggestione immaginifica, che sarà raccolto da Consolo, divenendo base per il suo Lunaria (Torino, Einaudi, 1985): dono estremo di un poeta prezioso e dalla “vertiginosa cultura”, come diceva Montale.

Restando sempre in tema di poeti, ma facendo un passo indietro nel tempo fino al Seicento, ci imbattiamo in Petru Fudduni, genio dell’improvvisazione poetica. È un povero talentuoso: la stessa ‘nciuria alluderebbe al suo «estro genialoide». Va registrato, a riguardo, che follia e genio sono categorie che tornano ripetutamente nelle pagine di Miseria e nobiltà in Sicilia, ritenute consustanziali, per certi versi, alla genesi stessa della creazione poetica. La follia – come affermava Alda Merini – manifesta la sua sacralità nel dialogo con l’invisibile da cui i versi provengono, quasi fossero comunicati al poeta, chiamato dunque a riceverli, a fare da tramite e metterli nero su bianco.

Annota Cangemi che «i letterati coevi o di età immediatamente successiva alla sua concordarono nel ritenere Fudduni un poeta estemporaneo di grande talento, privo però di cultura». In Fata Galanti, poema bernesco, l’abate Meli – nell’ottava a lui dedicata, recuperata per il suo interessantissimo valore testimoniale da Cangemi – lo caratterizza come venditore ambulante di bevande dissetanti, ossia di versi giocosi, salaci, dilettevoli. Poeta di strada, dunque, non appartenente al rango degli accademici: una connotazione che farà storcere il naso a Giuseppe Denaro, poeta popolare di origini catanesi, che prende le difese di Fudduni contro Meli.

Una figura interessante, quella di Petru Fudduni, non per «la sola vena umoristica e l’indole burlesca», ma anche per una religiosità che si concretò nel culto di Santa Rosalia, la patrona della città di Palermo, cui dedicò l’opera in ottava rima siciliana La Rosalia, poema epico (Palermo, per Giuseppe Bisagni, 1651), che – unitamente alla lettura de La miseria umana (Palermo, Giliberti, 1887) – deve indurre ad una rivalutazione complessiva di questo poeta: ha ragione Antonino Cangemi quando afferma – auspicando una riedizione delle sue opere – che in questi scritti «la sua cifra stilistica, lungi dal ricondursi al vernacolo, s’inquadra nel barocco dell’epoca», rivelando «una vena intimistica e religiosa stupefacente».

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Filippo Bentivegna

Parimenti godibile, tra i poveri di talento, è il quadro riservato a Filippo Bentivegna che, nato a Sciacca da una umile famiglia di pescatori, meritò il titolo di Sua Eccellenza. Apprezzato scultore, protagonista della corrente dell’Art Brut, che in italiano potremmo tradurre come Arte grezza: fu il pittore francese Jean Dubuffet ad indicare con questa etichetta, nel 1945, le produzioni artistiche realizzate da autodidatti, non professionisti, pensionanti dell’ospedale psichiatrico, persone completamente digiune di cultura artistica, che operavano al di fuori delle norme estetiche convenzionali. Dubuffet magnificava, in tal senso, nell’arte il «sorgere dal materiale [...] e nutrirsi delle disposizioni istintive»: un ulteriore esempio di come la follia produca arte.

Nel ritratto su Filippo Bentivegna, Cangemi asserisce che le sue opere conservate al Museo di Losanna e il suo Castello incantato, ove s’era rifugiato di ritorno dall’America, sono tra le espressioni più autentiche della corda pazza dei siciliani, con riferimento naturalmente alle “corde” evocate da Pirandello e poi da Sciascia: “la seria, la civile, la pazza”, per raccontare quella «terra difficile da governare perché difficile da capire», che è la Sicilia (L. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1970). Cangemi fornisce, quindi, una risposta ben precisa ad una vexata quaestio: se Bentivegna fosse solo un disadattato che sfogava nell’arte la sua angoscia scolpendo mostri sulle pietre come pure sui tronchi degli alberi, o se fosse invece un autentico artista naif.

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Nick La Rocca

Concludendo questa lettura per rapide incursioni tra i capitoli di Miseria e nobiltà in Sicilia, piace soffermarsi sul penultimo profilo della raccolta, quello che riguarda Nick La Rocca: nato da genitori siciliani (il padre era originario di Salaparuta, la madre di Poggioreale), fu tra i più virtuosi cornettisti della sua epoca, precursore del jazz classico, di cui fu uno dei primi interpreti in assoluto. Il padre – che pure era un discreto cornettista – lo avrebbe voluto medico, ma alla fine prevalse l’inclinazione artistica: il suo daimon. Anche Nick è un umile che, grazie al proprio sconfinato talento, si è reso protagonista di una parabola artistica degna di menzione: ma, mentre in America viene ricordato semplicemente come gregario della band di Jonny Stein, in Italia il suo contributo è ampiamente riconosciuto e nel 2010, nel corso della rassegna Umbria Jazz, Renzo Arbore ha presentato il documentario “Da Palermo a New Orleans, e fu subito Jazz”, raccontando la storia di un virtuoso e intraprendente di origini siciliane, oggi famoso come pioniere del jazz.

Un libro denso e ricco di spunti quello di Cangemi, che si fa leggere con grande piacere e del quale si apprezzano sino in fondo l’esattezza biografica, l’ampia documentazione storiografica, la ricostruzione d’ambiente e di costume: non poteva essere altrimenti per uno scrittore e saggista che è, non secondariamente, un autorevole studioso e profondo conoscitore dell’opera di Virgilio Titone.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020

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Rosario M. Atria, dopo la laurea magistrale con lode in Letteratura all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo. Dal 2014 è, presso lo stesso ateneo, cultore di Letteratura italiana. Autore di studi sulla poesia italiana del Due-Trecento, sul romanzo storico, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento e del Duemila, si interessa anche di storia e letteratura archeologica della Sicilia e di questioni mediterranee. Dal 2017 è Presidente della Società Dante Alighieri di Castelvetrano e promotore di molteplici attività culturali. Ha redatto diverse voci per il Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec. XVIII, edito nel 2018 in dodici volumi, a cura di F. Armetta, per i tipi dell’editore Sciascia. Tra il 2018 e il 2020 ha curato, insieme a I.T. Ginevra, per la collana “Gli Introvabili” de I Buoni Cugini Editori, la pubblicazione di diversi romanzi storici. Dal 2019 è direttore per Lithos, insieme a G.L. Bonanno e F.S. Calcara, ed editor-in-chief di «Tρισκελής. Collana mediterranea di storia, letteratura e varia umanistica», progetto editoriale che ha contribuito a fondare.

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