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Bangladesh: una nazione in movimento. Le origini della diaspora
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 01:11 In Migrazioni,Società | No Comments
di Francesco Della Puppa
Secondo alcuni autori (Gardner, 2010; Samaddar, 1999) per studiare il fenomeno delle migrazioni che hanno visto protagonista il Bangladesh nell’epoca contemporanea è necessario risalire alla ripartizione amministrativa del sub- continente indiano, quando milioni di persone vennero sfollate con la forza e vi furono esplosioni di violenza su entrambi i lati dei confini (Ahmad, 1975; Sarkar, 1983; Van Schendel, 2005). In questa sede, dunque, verranno brevemente approfondite le dinamiche storico-politiche che hanno portato alla nascita dell’odierno Bangladesh, a partire dalla decolonizzazione del subcontinente e la successiva formazione del Dominion del Pakistan e l’Unione Indiana nel 1947, per arrivare al conflitto indo-pakistano (che la storiografia bangladese definisce Liberation War o Muktijuddho) nel 1971. Di seguito verrà proposta una ricostruzione dello scenario che ha caratterizzato la Repubblica Popolare del Bangladesh dall’anno della sua creazione ai giorni nostri, cercando di mostrare come la prolungata instabilità sociale, politica ed economica che ha accompagnato lo sviluppo del Paese abbia posto le condizioni per una diaspora di massa che, seppur in maniera differenziata, ha visto coinvolti tutti gli strati della società (Eade et alii, 2002; Kibria, 2011).
L’attuale Bangladesh coincide con la parte orientale della regione del Bengala – nella regione del delta formato dalla confluenza dei fiumi Gange (il cui nome locale è Padma o Podda), Brahmaputra (Jamuna o Jomuna), e Meghna – e la sua storia è strettamente connessa con quella dell’intero sub- continente indiano. Se i primi europei a giungere in Bengala sono stati i portoghesi con Vasco de Gama nel XV secolo (Campos, 1919), furono gli inglesi gli artefici della sua successiva conquista commerciale e militare. La regione passò, quindi, sotto il diretto controllo del governo britannico che la trasformò in una provincia dell’India inglese. Dal 1793 gli inglesi spartirono il territorio con il sistema del permanent settlement, assegnando la proprietà privata dei terreni agli zamindar e ai taluqdar, antiche classi di proprietari terrieri principalmente hindu (Islam, 1979; Sinha-Kerkoff, 2006) [1].
In Bengala, andavano distinguendosi due zone di influenza ben distinte: a est la popolazione a maggioranza musulmana, a ovest quella a maggioranza hindu (Ahmed, 1981). Relativamente al territorio dell’intero sub-continente, invece, la maggioranza dei musulmani era concentrata in due diverse aree: nel Punjab, dove i musulmani appartenevano alla classe dei piccoli proprietari terrieri, erano raggruppati attorno al sunnismo ortodosso e parlavano l’urdu, e nel Bengala, appunto, dove erano prevalentemente contadini o braccianti agricoli, parlavano il bangla e, dal punto di vista religioso, subivano le influenze dell’induismo e del misticismo sufi.
Tale divisione fu esasperata dal colonialismo britannico che utilizzò i principi del divide et impera e dell’indirect rule: vennero, cioè, inasprite le divisioni su basi linguistiche, religiose e “culturali” (a partire dal mito delle stirpi marziali che, nell’esercito e nell’inse- rimento lavorativo nelle sedi amministrative, “favoriva” i sikh punjabi – perché considerati più “fedeli” alla corona – e discriminava i bengalesi – perché storicamente più politi- cizzati e riottosi) e avvantaggiava alcune componenti sociali utilizzandole nel governo e nel controllo della popolazione del subcontinente [2]. A ciò, si sommò una politica coloniale volta a rafforzare, conservare e cristallizzare quelle usanze socio-storicamente determinate che ritornavano utili all’assoggettamento delle popolazioni colonizzate, in primis la gerarchizzazione castale.
Anche il permanent settlement, come anticipato, era organizzato in modo che fossero favorite specifiche componenti della società che collaboravano con l’occupante (l’aristocrazia a maggioranza hindu) rispetto ad ampie fasce della popolazione assoggettata (i contadini poveri) che trovarono nella religione musulmana una forma di riscatto dalle divisioni castali e dalla diseguale divisione delle risorse imposta dai britannici e cavalcata dall’aristocrazia locale.
La politica del divide et impera ebbe particolare rilevanza quando gli inglesi proposero una vera e propria divisione del Bengala, a est, a maggioranza musulmana, e a ovest, a maggioranza hindu. I due principali partiti confessionali, l’Indian National Congress e l’All Indian Muslim League, si opposero, attuando lo swadwshi (il boicottaggio delle merci inglesi), ma anche proponendo forme di lotta più estreme, compreso il terrorismo, spingendo i britannici a tornare sui loro passi, anche se tale tentativo lascerà delle conseguenze che si riverberanno nella storia. Un secondo tentativo – riuscito – di divisione su base confessionale perpetrato dai britannici fu l’istituzione del sistema degli “elettorati separati” che imponeva la divisione degli organi rappresentativi in base a criteri religiosi-confessionali, minando la possibilità di un’unità politica tra hindu e musulmani e portando alla formazione di due classi dirigenti distinte con due distinte zone – geografiche – di influenza. Tutto ciò portò al rafforzamento, tra gli anni ’20 e ’30, della Two Nation Teory.
La seconda guerra mondiale spinse la Gran Bretagna ad affrettare il processo di spartizione dell’India. Le difficoltà politico-economiche nel subcontinente, l’influenza della rivoluzione maoista in Cina e delle altre lotte anticoloniali in Asia, l’indebolimento della Gran Bretagna sullo scacchiere geo-politico all’indomani del secondo conflitto mondiale portarono, infatti, alla “concessione” dell’indipendenza dell’India nel 1947. Dietro all’India Independence Act vi era il malcelato tentativo di mantenere un dominio – ora neo-coloniale – sul subcontinente.
Nel 1947, i colonizzatori lasciarono il subcontinente e vennero creati due governi indipendenti tra loro, il Dominion dell’India e il Dominion del Pakistan, che esistettero fino alla redazione delle rispettive Costituzioni che proclamarono la Repubblica Indiana (1950), a maggioranza hindu, e la Repubblica Islamica del Pakistan [3] (1956), a maggioranza musulmana. La spartizione non fu indolore ed ebbe un altissimo costo di vite umane (circa un milione) e circa 20 milioni furono le persone che dovettero spostarsi dall’India al Pakistan e viceversa su entrambi i confini, a est e a ovest.
In quella circostanza il Bengala orientale (l’odierno Bangladesh) venne scisso dal Bengala Occidentale (che rimarrà una regione dell’India) diventando parte integrante del Pakistan. Il Paese si presentava, così, diviso in due aree (il Pakistan Occidentale, nel Punjab, e il Pakistan orientale, in Bengala) separate da oltre 1.500 chilometri di territorio indiano, ma anche da profonde differenze sociali, culturali, economiche e linguistiche (Ahmad, 1975; Ahmed, 2000; Ahmed, 2009; Bandyopadhyay, 2001; Samadar, 1999; Van Schendel; 2009).
Un Paese che parla bangla
Nonostante il peso economico e demogra- fico dell’East Pakistan (che corrispondeva a un quinto del territorio nazionale, ma che comprendeva oltre il 60% dell’intera popolazione pakistana), il potere politico e decisionale era concentrato nelle mani di una ristretta elìte nella parte occidentale del Paese che formava l’Assemblea Costituente e che amministrava la parte orientale come una colonia interna cui sottrarre i prodotti agricoli grezzi, utili al reperimento di valuta estera da investire nel West Pakistan (Ahmad, 1975; Ali, 1971; Hannan, 1999; Van Schendel 2009; Zaheer, 1994).
Cominciò, così, a serpeggiare un forte malcontento tra la popolazione bengalese. Nel 1952, alla decisione del governo di Karachi di imporre “l’urdu e solo l’urdu” come unica “lingua franca della nazione musulmana”, un gruppo di studenti bengalesi, appartenenti al Language Movement, si ribellarono e vennero uccisi dall’esercito. Era il 21 febbraio, giornata che fu consacrata con il nome di Shaheed Dibosh, il “giorno dei martiri della lingua” e che contribuì fortemente alla creazione della memoria collettiva e alla costruzione dell’identità nazionale dell’attuale Bangladesh. I protagonisti della rivolta, oltre a rivendicare l’identità linguistica e culturale bengalese, avanzarono anche una serie di richieste di carattere politico ed economico e formarono da lì a breve un vero e proprio movimento indipendentista, l’Awami League, guidato da Sheikh Mujibur Rahaman (soprannominato, in seguito, Bangabandhu, “amico del Bengala”).
Lo scenario sociale e politico del Paese a venire sarà contrassegnato da una serie di colpi di Stato che instaureranno prima il regime militare del generale Ayub Khan e, successivamente, quello del maresciallo Agha Mohammed Yahya Khan e che porteranno alla promulgazione della legge marziale (Ali, 1971; Chossudovsky, 1998; Khan, 1984; Lifschutz, 1979; Muhammad, 2007). Negli anni ‘60 la situazione sociale ed economica peggiorò, nelle campagne le terre coltivate e la produzione alimentare diminuirono sensibilmente. La recessione economica fu particolarmente pesante nella parte bengalese del Paese dove si dovettero importare le granaglie dall’estero (Ali, 1971). Il costo della vita delle famiglie lavoratrici pakistane salì sensibilmente e, con esso, le tensioni sociali che sfociarono in scioperi e mobilitazioni. Sheikh Mujibur Rahaman approfittò delle tensioni e chiese l’organizzazione di libere elezioni e, attraverso il suo partito, organizzò imponenti dimostrazioni, a Dhaka, a Chittagong e in altre città del Pakistan bengalese, presentando, al contempo, il “programma dei sei punti” per l’autonomia regionale (Ahmad, 1975; Ahmed, 2009; Ali, 1971; Hannan, 1999). Nel tentativo di disinnescare le tensioni politiche, Yahya Khan concesse le prime libere elezioni del Pakistan dal 1947. Alle elezioni nazionali del 1970, la popolazione del Pakistan orientale, la maggioranza della popolazione del Paese, votò in massa a sostegno dell’Awami League e del suo leader che aveva rilanciato il programma dei sei punti e che raggiunse, così, la maggioranza assoluta in tutto il Paese.
Yayha Khan decise di rinviare l’apertura dell’Assemblea nazionale, rifiutandosi di dare l’incarico a Rahman e l’Awami League organizzò, ancora una volta, scioperi e manifestazioni, a cui il governo rispose, lanciando l’operazione militare Searchlight per ripristinare l’ordine nella parte bengalese del Paese, a partire dall’università di Dhaka, cuore della opposizione politica e del movimento indipendentista. Il movimento studen- tesco, infatti, rappresentava la principale forza di opposizione interna al Paese. Scrive Tariq Alì (1971): «Se è vero che Dhaka è il barometro politico dell’intero Pakistan orientale, all’interno di Dhaka la temperatura politica è regolata in base a quella dell’università». L’esercito pakistano si rese responsabile di massacri e stupri di massa con l’appoggio di alcuni collaborazionisti (Razakars) filo-pakistani, dell’uccisione indiscriminata degli studenti e dei professori universitari, dello sterminio pressoché totale dell’intellighenzia del Paese.
Nel 1971, quando dieci milioni di bengalesi cercarono rifugio dall’esercito pakistano nella vicina India, l’esercito indiano intervenne sia militarmente che appoggiando, organizzando e addestrando il movimento indipendentista (Jacques, 2000; Sisson and Rose, 1990; Zaheer, 1994) [4]. L’Awami League organizzò 100 mila volontari, arruolati soprattutto tra i contadini delle aree rurali e gli studenti delle aree urbane, che, armati e addestrati in India per circa un mese, rientrarono in Patria per combattere contro l’esercito pakistano [5].
Nel momento in cui l’indisponibilità dell’Occidente a intervenire militarmente fu palese, l’India agì: l’esercito indiano attese che le nevi invernali rendessero impraticabili i passi himalaiani – dai quali sarebbe potuto arrivare un contrattacco cinese – e, affiancandosi al movimento armato bengalese da lui stesso precedentemente rifornito e addestrato, lanciò un vero e proprio blitzkrieg che, nel giro di poche settimane, nel dicembre 1971, schiacciò l’esercito pakistano nel Pakistan orientale. Il 17 dicembre 1971 l’India dichiarò il cessate il fuoco e, contemporaneamente al rientro dei profughi, lasciò il Pakistan orientale che pochi mesi dopo divenne indipendente col nome di Repubblica Popolare del Bangladesh, a ricordo del sacrificio degli “studenti martiri” che per primi si ribellarono al governo pakistano: Bangla-desh significa, appunto, “terra del popolo che parla bangla”.
Il 26 marzo del 1971 l’Awami League proclamò l’indipendenza del Bangladesh e Sheikh Mujibur Rahaman, suo nuovo Presidente, formò il primo governo del Paese assumendo la carica di Primo Ministro. L’assemblea costituente adottò una Costituzione che individuava nel socialismo, nella democrazia, nella emanci- pazione economica della classe lavoratrice e nel secolarismo i suoi principali fondamenti (Ahmed, 2009). All’alba del 1971, però, il Bangladesh nasceva come un Paese già in crisi: la sua struttura industriale, sviluppatasi solo dal 1947, era allo sfacelo e, oltretutto, imperversava una pesante crisi alimentare.
Mujibur Rahaman cercò di far fronte alla situazione, incentivando la cooperazione con l’India e l’Unione Sovietica, nazionalizzando le grandi imprese e dando una svolta palesemente socialista al Paese, formando un governo monopartitico (BaKSAL) che assunse su di sè tutto il potere e che aggregò, oltre all’Awami League, tutti i partiti della sinistra filo-sovietica del Paese.
I numerosi problemi che il governo si trovava a fronteggiare dopo il conflitto sfociarono in un malcontento generaliz- zato, il quadro politico degenerò e nel Paese cominciò a serpeggiare la rivolta e i movimenti politici armati. Il 15 agosto del 1975, un colpo di Stato, che vide anche l’appoggio degli Stati Uniti attraverso la Cia, preoccupati dalla campagna di nazionalizzazioni e dalla piega socialista che stava assumendo il nuovo governo, mise al potere il generale Zia ur Rahaman, capo di stato maggiore e leader fondatore, due anni più tardi, del Bangladesh National Party (Bnp) (Chossudovsky, 1998; Lifschutz, 1979; Maniruzzaman, 1976; Muhammad, 2007; Van Schendel, 2009). In quello stesso giorno, il presidente Mujibur Rahaman venne assassinato assieme ai membri della sua famiglia (ad eccezione delle figlie minori, Sheikh Hasina e Rehana, che si trovavano all’estero) nella sua residenza privata e, di seguito, tutti gli esponenti di spicco dell’Awami League furono uccisi e perseguitati in tutto il territorio nazionale.
Il regime di Zia ur Rahaman, oltre ad avviare un percorso di liberalizzazione economica, marcherà l’inizio del susseguirsi di governi presieduti da generali militari che si protrarrà fino al 1990. Egli stesso, infatti, sarà assassinato in seguito ad un ulteriore colpo di Stato che, nel 1981, ancora con la complicità degli Stati Uniti, restituirà il Paese al governo militare di Hossain Mohammad Ershad, generale dell’esercito e leader del Jatiya Party. Ershad rappresentava, a tutti gli effetti, una pedina nelle mani degli Stati Uniti che vedevano in lui e nel suo governo – reazionario sul piano politico, ma ultra-liberista su quello economico – una solida sponda in funzione anti-sovietica (Chossudovsky, 1998; Muhammad, 2007; Van Schendel, 2009). Ecco, infatti, che nel 1991, successivamente al crollo dell’Urss, il regime del Jatiya Party, per gli ex sostenitori a stelle e strisce, non ha più alcuna ragione d’essere: essi fanno, dunque, venire meno il proprio sostegno e le crescenti mobilitazioni popolari spingono il generale alla destituzione.
Le prime libere elezioni del Paese proclamano Khaleda Zia (vedova del generale assassinato e nuova leader del Partito Nazionalista del Bangladesh) Primo Ministro, mentre Hasina Wazed (la figlia del presidente padre della patria Mujibur Rahaman, della Lega Awami) diventa capo dell’opposizione. Nel febbraio 1996, sono indette nuove elezioni e il Primo Ministro mantiene il suo incarico, ma la consultazione elettorale – svolta sotto la supervisione dell’esercito – viene considerata irregolare e, dopo una serie di violenti scioperi (hartal) che paralizzano il Paese, sono indette delle nuove elezioni per il giugno dello stesso anno che mettono al potere un governo di coalizione guidato da Sheikh Hasina Wazed, figlia di Bangabandhu.
Diseguaglianze crescenti in un Paese in movimento
Dalla fine degli anni ‘90 a oggi, la situazione politica interna si è contrad- distinta per una profonda instabilità e gli scontri politici fra le forze di governo non si sono mai placati. Alla guida del Paese (che è stato anche teatro di attentati terroristici) (Gill, 2004; Hossain, 2007) si sono alternati rispettivamente il Bnp e l’Awami League (tutt’oggi al governo); questa continua alternanza ha comportato una serie di periodiche epurazioni ed esecuzioni extra-giudiziarie che hanno fomentato un clima di terrore e diffidenza in tutto il Paese.
Alla precarietà del quadro politico, contraddistinto da frequenti colpi di Stato, da continue tensioni e dal susseguirsi di violenti scioperi generali che hanno portato – e portano tutt’oggi – alla paralisi della vita quotidiana, si somma la diffusa corruzione in tutti i settori della società (Zakiuddin, 2000). Ciò ha frustrato le aspirazioni delle generazioni della classe media, nate a cavallo e a ridosso dell’indipendenza, condizione a cui hanno cercato di dare risposta emigrando all’estero.
Negli ultimi vent’anni il Paese è stato protagonista di un intenso spostamento della popolazione dalle aree rurali verso la capitale (Abrar, 2000; Abrar and Lama, 2003; Abrar and Azad, 2004; Afsar, 2000; Gardner and Ahmed, 2006; Hasan, 2006; Khan and Seeley, 2005; Khandaker et alii, 2012; Siddiqui, 2003; Van Schendel 2005; 2009). Tale movimento è stato alimentato da una serie di fattori tra cui l’indebolimento e la privatizzazione dell’industria della juta (la più importante produzione industriale nazionale del Bangladesh), il blocco degli investimenti riservati al settore primario, la liberalizzazione del credito agrario e del mercato cerealicolo imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale (Abdullah, 2000; Bhaskar and Khan, 1995; Chossudovsky, 1998; Muhammad, 2007; Sobhan, 1982; 1991). A ciò si aggiunge la conversione delle terre libere coltivabili di proprietà del governo dal 1971 (le khas), precedentemente affidate ai contadini nullatenenti, in allevamenti intensivi di gamberi, affidati a corporation straniere (Afsar, 2000; Ali, 1999; Saha, 2000; Zug, 2006). Tali trasformazioni hanno privato dei mezzi di sussistenza ampie fasce della popolazione rurale e hanno reso la costa meridionale del Paese maggiormente vulnerabile agli attacchi della natura: cicloni, alluvioni e mareggiate, erosione delle sponde dei fiumi, fenomeni ricorrenti che in passato erano quantomeno attenuati dalla naturale barriera composta dalle foreste e da un terreno altamente drenante, oggi causano migliaia di morti (Barraclough and Finger-Stich, 1996; Brammer, 1990; 2004; Gardner, 2010; Hussein et al., 1987; Islam and Haque, 2005).
Le crescenti trasformazioni socio-economiche e produttive che prendono forma nel Paese, la fortissima crescita demografica e la migrazione dall’immensa campagna alle città stanno premendo sulle possibilità di assorbimento della capitale e dei centri urbani, già fortemente sovrappopolati [6], che si configurano come enormi contenitori di precarietà e marginalità (Davis, 2006). A Dhaka e nei maggiori centri urbani sta, così, prendendo atto un processo di dualizzazione della struttura sociale e spaziale; questa affermazione trova conferma anche nell’abnorme sviluppo dell’economia informale della capitale che reintegra temporaneamente e parzialmente i soggetti esclusi da un sistema produttivo in mutamento offrendo circuiti di lavoro occasionale e scarsissime possibilità di mobilità sociale ascendente (Abrar, 2000; Abrar and Lama, 2003; Abrar and Azad, 2004; Afsar, 2000; Hasan, 2006; Khandaker et alii, 2012; Mehta, 2000; Sarwar and Rahaman, 2004). Le metropoli bangladesi, con la capitale come modello esemplificativo, mostrano al proprio interno una marcata polarizzazione: da una parte piccolissimi gruppi di individui collegati ai circuiti dell’economia globale, l’elite che partecipa ad un vorticoso processo di accumulazione, dall’altra una massa di persone che vive in condizioni di sopravvivenza (Davis, 2006), tra questi due poli vi è una classe media in affanno che resiste con difficoltà all’erosione della propria posizione socio-economica.
Essendo Dhaka il centro economico, politico, produttivo, culturale ed educativo del Paese la sua popolazione proviene da ogni distretto e tutt’oggi ogni famiglia di ogni cittadina o villaggio sul territorio ha almeno un membro immigrato nella capitale (Khandaker et alii, 2012; Mehta, 2000; Sarwar and Rahaman, 2004). Le difficoltà economiche e di sviluppo nazionale e la migrazione interna verso i centri urbani incapaci di assorbire ingenti flussi migratori hanno contribuito a gettare le basi per la migrazione verso l’esterno – inizialmente diretta in Inghilterra e i Paesi occidentali anglofoni (Gardner, 1995; 2010; Kibria, 2011), successivamente verso il Medio Oriente e il Sud-Est asiatico (Abrar, 2000; 2008; Kibria, 2011; Siddiqui, 2003), quindi verso l’Europa centrale e mediterranea (Della Puppa, 2014; Della Puppa e Gelati, 2015; Knights, 1996; Knights, 1998; Priori, 2012; Zeitlyn, 2006) – innescando un meccanismo di diaspora di massa.
Il processo di modernizzazione che questa ex-colonia britannica ha sperimentato dalla sua genesi storico-politica, all’inizio degli anni ‘70 per circa un ventennio si interseca con le dinamiche migratorie della sua popolazione. La classe media sembra scomparire per effetto di una disoccupazione crescente e di una polarizzazione sociale sempre più rapida ed è proprio tra gli appartenenti a questo strato della società che si formano molti potenziali candidati all’emigrazione. Lo sviluppo economico, infatti, avendo contemporaneamente creato e poi disatteso le aspettative individuali e collettive di promozione sociale della popolazione ha finito per alimentare ingenti flussi migratori verso l’esterno. Il quadro complessivo che va delineandosi rispecchia la definizione di Ranabir Samaddar (1999, 83-7) che descrive questa regione come «an insecure environment, inhabited by insecure families. […] A land of fast footed people, people who would not accept the loss of their dream [of escaping insecurity], who would move on to newer and newer lands».
L’elevata mobilità di questa fast footed people è legata a tale precarietà, ma anche al desiderio di una mobilità sociale ascendente – a cui si avrebbe accesso privilegiato attraverso la migrazione all’estero – e all’impressione di «perdere una grande occasione» (Ahmed, 2000, 3) a non essere nelle società a capitalismo avanzato.
Conclusioni
Dalla divisione amministrativa del Bengala, la regione è stata teatro di una guerra di indipendenza dal Pakistan (parte di un più ampio conflitto che ha visto contrapposti i due Paesi nati dopo la divisione della colonia britannica), ha sofferto una lunga serie di colpi di Stato e crisi politiche nel corso degli anni ‘70, ha subìto una dittatura militare durata per tutti gli anni ‘80 e, nonostante l’instaurazione di una democrazia parlamentare nel decennio successivo, ha attraversato continue tensioni e instabilità politiche sfociate in un governo militare temporaneo dal 2006 al 2008. Tali turbolenze si sono manifestate con diversi attentati che hanno insanguinato il Paese nella seconda metà degli anni 2000 e si manifestano tutt’oggi attraverso continui disordini civili e violenze politiche. A ciò si aggiungono gli aggiustamenti strutturali imposti dagli organismi finanziari internazionali che ne hanno compromesso lo sviluppo economico (Abdullah, 2000; Bhaskar and Khan, 1995; Chossudovsky, 1998; Muhammad, 2007; Sobhan, 1982; 1991), un’endemica corruzione e un curriculum «decisamente misero in materia di rispetto dei diritti umani» (Gardner, 2010, 9).
Alle instabilità politiche ed economiche si sommano quelle geografiche ed ambientali di un territorio che, coerentemente col suo carattere deltizio, oltre ad essere altamente fertile, è anche a rischio continuo di inondazioni e alluvioni [7]. Ciò si traduce in distruzione di interi villaggi, ingenti perdite in termini di raccolti, bestiame e – sempre più frequentemente – anche di vite umane, soprattutto fra gli strati subalterni della società che non possono permettersi abitazioni in muratura o terreni in posizioni elevate (Bandyopadhyay, 1995; Crow and Sultana, 2002). Non va dimenticata, poi, la fortissima pressione demografica che, unitamente alla precarietà descritta, spinge la popolazione rurale a lasciare le posizioni più insicure e a cercare migliori possibilità nei maggiori centri urbani già fortemente sovrappopolati (Ali, 2007).
La migrazione da un’area rurale all’altra, così come quella dalla campagna alla città, costituisce da secoli una strategia di sopravvivenza per le classi più umili (Afsar, 2000; Gardner and Ahmed, 2006; Hossain et alii, 2005; Siddiqui, 2003). Gli individui più intraprendenti delle classi medie, invece, delusi dagli sviluppi politici che hanno preso forma nel Paese dopo l’indipendenza e frustrati dalla mancanza di mobilità sociale che caratterizza il Bangladesh contemporaneo, si affidano all’emigrazione all’estero nella speranza di trovare le possibilità di una realizzazione personale e familiare (Abrar and Seeley, 2009; Ashraf, 2010; Della Puppa, 2014; Gardner, 2010; Kibria, 2011; Priori, 2012).
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