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Atteggiamenti sociolinguistici: scorci di arabo, di maltese e di grecanico

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2016 @ 00:16 In Cultura,Società | No Comments

Moderne iscrizioni in grecanico a Gallicianò

Moderne iscrizioni in grecanico a Gallicianò

  di Francesca Morando

Le lingue rappresentano da molto tempo un campo estremamente interessante per comprendere la rappresentazione del mondo e le lenti culturali con cui le società “vedono” la realtà, ovvero la cosiddetta weltanschauung, nonché la rappresen- tazione di sé e l’elaborazione di certi comportamenti riguardo la lingua generatrice, intrinsecamente legata alle proprie tradizioni.

Nel presente contributo verranno illustrati parte dei diversi atteggiamenti linguistici di tre comunità, parlanti arabo, maltese e grecanico. La scelta delle lingue prese in considerazione deriva dal fatto che esse sono rappresentative di tre categorie diverse: l’arabo costituisce l’esempio di uno fra gli idiomi più parlati al mondo (e in continua crescita), con 422 milioni di parlanti nativi e un miliardo e mezzo di parlanti come seconda lingua [1] (UNESCO); il maltese rappresenta una lingua “minoritaria” (sebbene maggioritaria a Malta), che annovera oltre 400.000 parlanti (World Factbook della CIA, stima del luglio 2015), escluse le comunità all’estero (Australia, Canada, U.S.A, Tunisia e resto d’Europa) e il grecanico, nella variante di Gallicianò (RC), che incarna l’isola linguistica del greco di Calabria, fortemente minacciato di estinzione.

Il popolare cartoon Sponge Bob in arabo

Il popolare cartoon Sponge Bob in arabo

Arabo 

Quando si parla di dialettologia nei Paesi arabi, a volte, non si tiene debitamente conto della componente linguistica presente nel mondo arabofono, ovvero le lingue occidentali, derivanti dalla coloniz- zazione, in particolare il francese nel Maghreb, il francese e l’inglese nel Mashreq, lo spagnolo in alcune zone del Marocco e l’italiano in Libia. In certi casi gli arabofoni istruiti, fra loro, preferiscono, infatti, ricorrere a una lingua occidentale, invece del più complesso arabo standard. In prevalenza in questi territori i parlanti sono perfettamente bilingui (o trilingui). Oggi dopo le indipendenze la lingua letteraria ha coperto i ruoli che gli idiomi del periodo coloniale avevano assunto. Pertanto oggi non è inusuale trovare il fenomeno linguistico noto come “commutazione di codice” (o code-switching), frequente nei Paesi plurilingui, come anche a Malta, la cui lingua nazionale deriva proprio dall’arabo. L’utilizzo spontaneamente e inconsapevolmente alternato tra due (o più) lingue rappresenta la quotidianità ed è un fatto particolarmente diffuso tra i ragazzi sia arabi che maltesi [2]. In contesto arabo il fenomeno è tipicamente femminile (p. es. in Marocco), mentre in area maltese viene applicato specialmente dai maschi. Tale fenomeno si ravvede vivacemente in Marocco, Algeria e Tunisia con l’alternanza dell’arabo locale e il francese, in misura minore in Libano con il libanese e il francese e in Egitto con l’egiziano e l’inglese.

Lo slittamento dalla lingua ufficiale al dialetto è una condizione psicologica, dovuta alla carica emotiva del discorso, di conseguenza nel code-switching non vi sono regole precise che obbligano a utilizzare una lingua invece di un’altra (a meno che l’interlocutore ignori completamente una delle due lingue) ma si alternano fra gli altri: termini tradotti, ripetuti (da una lingua all’altra), calchi, prestiti, interferenze e costrutti presi da una delle lingue e integrati in arabo, che vengono impiegati perché:

1)  chi parla vuole esprimersi al meglio, spiegando per esempio i concetti nelle lingue in cui pratica la commutazione di codice;

2)  chi ascolta comprende esattamente le lingue utilizzate e dunque il messaggio;

3)  le parole pronunciate sono le prime che vengono in mente;

4)  chi utilizza la commistione di codice si sente a proprio agio nell’impiego disinvolto delle lingue conosciute;

5)   marca la propria identità;

6)   dipende dallo stato d’animo;

7)   altro

Durand (2009: 96) riferisce che in termini psicolinguistici si può parlare di «duplice lealtà linguistica», che traspare dal biculturalismo (anche triculturalismo) e denota i parlanti “transglotti”, i quali criticano l’uso linguistico sregolato che essi stessi adottano, pur trovandovi un certo piacere nel praticarlo.

Da un lato forse è comprensibile tale atteggiamento, dal momento che nei Paesi arabi l’insegnamento scolastico dell’arabo colto è ancora rigido e arcaizzante, basato sul tradizionale apprendimento mnemonico delle regole grammaticali, sul biasimo degli errori e sull’idealizzazione di un modello altissimo di lingua, fattori che concorrono a formare, secondo Durand (2009: 69) «una procedura inconsapevole ma fortemente destabilizzante di terrorismo linguistico». Inoltre, dal periodo arcaico a quello contemporaneo, Hitti (1958), rilevato da Anghelescu (1993:10) afferma che:

«quasi nessuna lingua sembra capace d’esercitare sulla mente dei proprii utenti un’influenza così irresistibile come l’arabo. Il pubblico moderno di Bagdàd, di Damasco e del Cairo può entusiasmarsi al più alto grado di recitazione di poesie, solo vagamente capite, e alla declamazione di discorsi in lingua classica, benché intesi solo parzialmente. Il ritmo, la rima, la musica, producono sugli uditori l’effetto di ciò che essi chiamano “magia permessa” (siḥr ḥalāl)». 
Targa bilingue maltese

Targa bilingue maltese

Maltese  

Nell’arcipelago maltese le lingue parlate sono le seguenti: il malti (maltese), che ha status di lingua nazionale e che – come riporta il World Factbook della CIA – viene parlato abitualmente dalla stra- grande maggioranza degli abitanti (almeno il 90.1%); l’inglese, ovvero la lingua ufficiale (almeno il 6% degli utenti), derivante dal dominio britannico delle isole, il cui utilizzo esclusivo è raro tra i maltesi e parlarlo fra essi viene considerato snob; infine l’italiano, capito da molti, che mantiene con il maltese profondi legami linguistici e culturali. Quest’ultimo, che non è stato normato, risulta a livello pratico sempre più soppiantato dall’inglese, anche nei termini di origine italiana, come per esempio lo scorretto televixin al posto del regolare televiżjoni (Brincat, 2003: 379).

Pertanto in primo luogo il maltese rappresenta la lingua conosciuta da tutti i melitofoni, i quali vanno – giustamente – orgogliosi del proprio idioma nativo, frutto di sofferte scelte politiche, che decisero in ultima analisi di promuovere il malti a lingua nazionale, nel 1964, a discapito delle “concorrenti”, ovvero le lingue italiana e inglese. Nella V sezione della Costituzione si parla esplicitamente dell’affermazione del maltese e della coesistenza dell’inglese come lingua ufficiale, quindi secondo Sciriha (1994: 314) «in real social context, one has to question if Maltese is effectively the dominant language», perché, come accennato sopra, anche nell’arcipelago è presente un produttivo code-switching tra maltese e inglese. Inoltre, se nei Paesi arabi la “scelta” linguistica è piuttosto ampia (lingua colta, vernacolo, code-switching, lingua straniera, egiziano come “lingua franca” – accanto all’arabo medio o mediano), a Malta la lingua parlata diventa un marcatore socio-culturale caratterizzante, che si tinge, per esempio, con la scelta dell’utilizzo esclusivo del maltese, in convinzioni precise, anche patriottiche.

Come menzionato sopra, Malta ha gravitato a lungo nell’orbita culturale e linguistica italiana [3] e non di meno, secondo il World Factbook della CIA, risulta essere uno dei Paesi più cattolici d’Europa (più del 90%, stima 2011), anche perché, nonostante l’origine semitica della colonia che soppiantò gli oriundi isolani nel 1048/1049 (Brincat, 2003: 60-64) e la prima cristianizzazione che avvenne in arabo, i maltesi si allontanarono ben presto dal mondo islamico e questo fatto si rispecchia linguisticamente con l’adozione dell’alfabeto latino, opportunamente modificato. Tale atto risulta fortemente ostile [4] verso l’Islam, che concepisce nella bellezza dell’alfabeto arabo la raffinatezza della calligrafia, uno dei pochi elementi decorativi usati nell’arte e “atto devoto” per i mistici musulmani. È pur vero che dopo il periodo critico della definizione nazionale, con conseguente rifiuto dell’anglicizzazione, a lungo andare l’influenza britannica si è rivelata molto vantaggiosa per il piccolo arcipelago; basti pensare al fiorente business legato ai corsi di lingua inglese, che si tengono in combinazione alla ricca e variegata offerta turistica isolana, nonché alle numerose possibilità lavorative legate alla piena padronanza della lingua inglese nel mondo di oggi, nate storicamente con il commercio e via via diversificatesi.

Da qui si possono intuire alcuni atteggiamenti linguistici adottati a Malta, come quelli perseguiti dalle suore nelle scuole private femminili, in cui non viene esattamente incoraggiato l’uso della lingua maltese, durante le ore scolastiche e questo fatto si spiega con le parole di Alfieri (1993: 204): «in tale gerarchia comunicativa l’inglese resisterebbe presso le classi alte come lingua di prestigio, preferita ostentatamente dalle ragazze». Non a caso proprio gli stessi genitori degli alunni che frequentano le scuole private tendono a parlare inglese in casa, invece del maltese. Tale comportamento potrebbe trovare fondamento nella percezione di superiorità connessa al Regno Unito, recepito come eccellente dalle generazioni più anziane (e trasmessa a quelle più giovani).  Tale sentimento è condiviso con altre ex-colonie dell’Impero britannico, come l’India, Singapore, la Malesia e lo Sri Lanka. Inoltre in tali luoghi, parimenti come a Malta, l’inglese è considerato uno status symbol (Schirha, 1993: 318-9). Il prestigio conferito all’inglese si riscontra anche nella riproduzione della /r/ inglese, vezzo tendenzialmente femminile ed è distintivo di un ambiente sociale medio-alto. È interessante notare come il tratto della /r/ “inglese” a Malta sia condiviso con l’analoga situazione vigente in Marocco, dove questa realizzazione distintiva è realizzata tramite la /R/ (/r/ “francese” o “moscia”), anche qui utilizzata soprattutto dalle donne e negli ambienti sociali più elevati. In realtà, la sopra citata caratteristica fonetica è caratterizzante anche presso le comunità ebraiche e cristiane dei Paesi arabofoni, dunque questa peculiarità riveste la funzione sociale di un marcatore d’identità.

Diffusione del dialetto Greco-Calabro

Diffusione del dialetto Greco-Calabro

Grecanico di Calabria (Gallicianò, RC)   

Gli studi presi in considerazione sono quelli di Paolo Martino e di Christina Petropoulou. Quest’ultima riferisce sin da subito che ha rilevato preziose informazioni di tipo antro- pologico e socio-linguistico ma nel contempo «la scelta dell’area grecofona come terreno di una ricerca del genere è stata guidata dalla scarsissima quantità di studi sociologici e antropologici intorno a queste popolazioni, sulle quali, invece, esiste una letteratura rilevante di studi linguistici» (1993: 186). La studiosa greca ha utilizzato il metodo dell’osservazione partecipante in ambienti, attività e avvenimenti della comunità di Gallicianò, di appena una sessantina di persone, quali  la casa, il bar, la piazza, la fontana, i lavori in campagna, la panificazione, la preparazione dei cibi, le feste per l’uccisione del maiale, i funerali, i matrimoni e altro, durante diversi periodi dell’anno «che nessun altro metodo avrebbe consentito di raccogliere e registrare» (Petropoulou,1993: 186). Gli studi si sono concentrati a Gallicianò perché, per via dell’isolamento geografico, il paese risulta essere quello in cui il grecanico è ancora vitale (sebbene non sia lingua esclusiva [5]), a differenza di molti paesi del circondario, il cui utilizzo linguistico è stato fortemente indebolito o sostituito nel tempo dal dialetto calabrese e dall’italiano.

I primi studi sulle comunità grecofone di Calabria risalgono a Carl Witte (1820) e al celeberrimo Gherard Rohlfs, che avevano individuato una dozzina di paesi ellenofoni, ovvero: Bova, Montebello, Roccaforte, Condofuri, Gallicianò, Roghudi, Chorio di Roghudi, Amendolea, Campo di Amendolea, San Pantaleone, Chorio e Cardeto. Nel primo ventennio del XX secolo il greco di Calabria ha perso terreno e si è arroccato nei paesi più isolati, per il fatto che le politiche fasciste [6] tendevano a reprimere i dialetti. Negli anni Settanta, ovvero dopo la presa di coscienza linguistica e culturale degli anni Cinquanta, lo stesso Rohlfs attesta la scomparsa del grecanico come lingua viva a Bova, Condofuri, Roccaforte e Amendolea. Ciò nonostante gli immigrati grecofoni dei paesi dell’Aspromonte giunti a Reggio Calabria, dopo alcuni alluvioni, hanno mantenuto una salda conoscenza della propria lingua, perché diventata un simbolo linguistico e culturale distintivo e soprattutto un «codice segreto dell’intera comunità» (Petropoulou,1993: 189). A questo però va ricordato che per secoli il grecanico è stato visto come espressione di arretratezza materiale e culturale e pertanto i grecofoni sono stati per molto tempo oggetto di scherno. «Ciò spiega il mimetismo culturale degli odierni paḍḍéchi [zotici, ignoranti, ecc...] che, specie a Mèlito e Reggio, fanno di tutto per dissimulare la loro origine e l’eventuale alloglossia. Anche se interpellati in greco rispondono sempre in dialetto o in italiano» (Martino, 1980: 14).

In questo contesto, il registro linguistico grecanico appartiene essenzialmente ai più anziani e agli uomini, sebbene non manchino i giovani soci  delle Associazioni per la salvaguardia del patrimonio linguistico e culturale (dai dieci anni in su). I giovani (dai quindici anni in su) hanno ammesso di comprendere soltanto qualche parola e le donne giovani più istruite hanno riferito che l’isolamento socio-culturale di Gallicianò risiede, a loro parere, anche nell’utilizzo della lingua greca. L’intervistatrice ha dichiarato di avere incontrato anche disapprovazione, quando alla fontana ha chiesto a delle giovani donne se conoscessero il grecanico. Le donne si sono voltate e hanno continuato a fare il bucato senza dare risposta. Il motivo probabilmente va ricercato nella tediosa e continuativa domanda rivolta agli abitanti del paese ormai da decenni, riguardo al fatto se questi parlino greco e forse anche nel dato sociale che vede tradizionalmente la popolazione femminile partecipare a livello passivo alla comprensione dell’idioma locale.

La funzione criptolalica del grecanico avviene in famiglia, per escludere i figli dai discorsi dei  genitori (i quali devono rispondere in dialetto [7]); all’interno della comunità grecofona per non essere compresa dai forestieri e all’esterno della propria comunità (centri urbani limitrofi, zone di emigrazione, eccetera). Il fatto di parlare grecanico in famiglia espone i più piccoli all’apprendimento della lingua e questi, una volta adulti, riproducono lo stesso comportamento nei confronti della propria prole, conservando e tramandando oralmente la lingua. L’arrivo di uno straniero – evento raro, dovuto all’isolamento del paese – fa sì che la comunità intera crei incomunicabilità, in quanto adopera esclusivamente il grecanico, “difendendosi” dall’estraneo, fintanto che le intenzioni di quest’ultimo non vengano palesate. Inoltre –  come riporta Martino (in Petropoulou, 1993: 192) – «persino i ragazzi negli ambienti scolastici, adoperano il greco per non farsi capire dai compagni», sebbene lo stesso Martino (1980: 21) ridimensioni il fenomeno:

«Per quanto riguarda i ragazzi tra gli undici e i quattordici anni, alunni della scuola media inferiore, l’atteggiamento verso la lingua appare sensibilmente discordante dal reale comportamento. Nessuno, infatti, è in grado di sostenere una conversazione in greco, ma alla domanda “Quale lingua preferisci: italiano, dialetto, greco?”, il 15 % risponde “greco”, dando però motivazioni vaghe o genericamente nostalgiche: “A me piace il greco perché lo parlano i miei genitori e non voglio che si perda”; “è una lingua antica e bella”; “si parlava al tempo antico”; “è una lingua istruttiva ed è peccato che si perda”; “l’hanno parlato i nostri antenati”».

La scarsa produttività della montagna, il forte dissesto idrogeologico e la mancanza di un centro economico e culturale attrattivo hanno fatto sì che la zona sia interessata dall’abbandono della vita agro-pastorale per l’emigrazione, in particolare verso Domodossola, Milano la Svizzera e il Belgio (Martino, 1980: 19). Questo fatto si ripercuote sulla lingua, poiché obbliga al minore impiego del grecanico. Lo studioso inoltre (1980: 13) aggiunge che:

«Gli emigrati stagionali rientrano in paese con un bagaglio di modelli culturali nuovi, che escludono categoricamente una lingua minoritaria, socialmente connotante, arcaica e rurale qual è il greco. Trovare impiego fuori della Grecia [Grecìa], cioè fuori del settore agricolo, e pertanto abbandonare il greco, è divenuto un fatto di promozione sociale. Il rapporto montagna-pianura e campagna-città si manifesta ancora una volta come conflittualità tra lingue subalterne e lingua egemone».

È possibile ravvisare almeno quattro registri linguistici dell’area grecanica, che sono: a) l’italiano parlato formale; b) l’italiano colloquiale regionale; c) il dialetto romanzo reggino, con differenziazioni locali; d) il grecanico.  Di quest’ultimo si può dire che:

  • è comprensibile in maniera completa unicamente da chi conosca il greco antico e moderno, dell’italiano e il dialetto locale;
  • i termini agro-pastorali corrispondono in larga parte a quelli in uso nel neogreco, parlato in Grecia;
  • il grecanico conserva molte parole doriche, che nel greco moderno sono scomparse;
  • sulla sua origine è ancora dibattuta la provenienza. C’è chi ritiene che derivi dalle antiche colonie della Magna Grecia, altri credono che il grecanico derivi dal greco bizantino e in ultima analisi c’è chi pensa che sia una lingua frutto della commistione di queste due varianti di greco. 

foto4

Conclusioni 

Dalle tre lingue prese in considerazione sono emersi diversi fattori, che non verranno analizzati nei minimi dettagli ma che invitano anzi a studi approfonditi in materia, fra i quali vanno evidenziati:

  • le tre comunità prediligono quella lingua che comprendono bene; in cui si esprimono con proprietà di linguaggio ed esprime i propri sentimenti, in quanto rappresenta una lingua spontanea e non ragionata (l’arabo dialettale, il malti e il grecanico, a differenza dell’arabo standard, dell’inglese e dell’italiano o del dialetto calabrese);
  • l’arabofono istruito può avvalersi di diversi registri linguistici, così come il maltese può scegliere almeno tra due lingue, il malti e l’inglese, a seconda dei contesti. L’ellenofono, all’interno di un gruppo greco parla grecanico, altrimenti non lascia trasparire le proprie origini, a causa di una radicata grecofobia (Martino, 1980: 14). L’abbandono del greco si verifica quindi per diverse cause: a) senso di vergogna e irrisione; b) non è utile alla comunicazione con tutti; c) la comunità ellenofona risulta molto frammentata; d) la ricerca della promozione sociale; e) è una lingua complessa (Martino, 1980: 21).
  • Sia l’arabo che il maltese vengono insegnati come lingua seconda (Times of Malta, 09 agosto 2015). Dopo un momentaneo interesse per il mantenimento del grecanico, questo non viene più insegnato nei corsi privati gratuiti, nel corso popolare di Gallicianò e nella scuola di Condofuri. «Il “risveglio”, anche se gestito dall’intellettualità borghese, ha tuttavia coinvolto larghi strati di proletariato anche analfabeta, incidendo sul comportamento e sull’atteggiamento linguistico» (Martino, 1980: 18).
  • Nei Paesi arabi e a Malta la riproduzione di tratti fonetici caratterizzanti lascia trasparire l’aspirazione all’identificazione con modelli linguistici (e culturali) francesi e inglesi e tende ad essere una prerogativa femminile. Nell’isola grecanica le donne tendono a possedere una conoscenza passiva della lingua locale. Ciò nonostante anche costoro identificano nell’italiano un modello linguistico (e culturale) da perseguire, insieme ai più giovani, che nella maggioranza dei casi vedono nell’italiano una “lingua moderna”, contrapposta a quella “antica dei vecchi”.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
Note
[1]«World Arabic Language Day is an opportunity [...] to celebrate the language of 22 Member States of  UNESCO, a language with more than 422 million speakers in the Arab world and used by more than 1.5    billion Muslims». Estratto del messaggio di Ms Irina Bokova, Direttore Generale dell’UNESCO, per l’occasione del primo “World Arabic Language Day” 18 dicembre 2012.  http://www.unesco.org/new/en/unesco/events/prizesandcelebrations/celebrations/internationaldays/world-arabic-language-day/ 09/10/2014.
[2]  A Malta tale fenomeno, esclusivamente relativamente al code-switching di Sliema, è conosciuto come pe-pe (Morando, F.,  Il-lingwa Maltija: origine, storia, comparazione linguistica e aspetti morfologici. 56. ISBN 9788899113391) In stampa.
[3]  Alcuni italianismi erano particolarmente presenti in determinati in linguaggi specialistici come quello dei tribunali, prima dell’estromissione dell’italiano nel 1936, nonché nel lessico della religione, della letteratura, dell’amministrazione, dell’istruzione e della lingua alta delle classi elitarie.
[4]  Un esempio interessante sugli effetti prodotti dall’abbandono dell’alfabeto arabo (e alla turchizzazione della lingua) continua a ripercuotersi con vigore nel turco, la cui riforma linguistica, voluta da Mustafà Kemal Atatürk, nel 1928, vede ancora oggi una certa resistenza linguistica e culturale, nei gruppi più religiosi della popolazione. Questi infatti, legati all’idioma più religioso, adottano un linguaggio più arcaico, ricco di termini di origine araba (e persiana).
[5] «Non esiste in tutta la Grecia nessun gruppo monolingue. Anche gli informatori di Gallicianò dichiarano che in paese tutti conoscono il dialetto dalla nascita» (Martino, 1980: 21). […] «L’italiano standard non è lingua materna per la quasi totalità della popolazione scolastica. Per i ragazzi delle classi più umili la scuola dell’obbligo rappresenta il primo impatto con l’italiano» (Martino, 1980: 27)..
[6] «L’interdizione raggiunse punte di vera e propria tabuizzazione sotto il regime fascista quando, nel quadro della politica linguistica uniformatrice del regime, severe punizioni venivano inflitte agli scolari sorpresi a parlare greco. […] L’epicentro dell’interdizione è [...] Bova, dove i vecchi di oggi conservano memoria delle punizioni subite, quand’erano fanciulli, da parte dei genitori, che pure continuavano ad usare, tra loro, il greco, lingua considerata “ordinaria”, cioè “volgare”». (Martino, 1980: 15).
[7] «Anche quando eravamo piccoli succedeva che i grandi ci parlavano in greco, ma noi dovevamo rispondere in dialetto» Risposta di Francesco Nucera, di Gallicianò, 43 anni, operaio, all’intervista di P. Martino (1980: 20). 
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 Francesca Morando, laureata alla Sapienza in Dialettologia araba (relatore O. Durand), insegna arabo presso varie strutture sia pubbliche che private; è traduttrice giurata di lingua araba presso il Tribunale di Palermo ed è specializzata in Didattica dell’Italiano L2/LS. È stata anche docente presso l’Università di Palermo e l’Università Gar Younis di Bengasi, oltre che in Egitto e nella Georgia caucasica.

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