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Atidda. Il tempo della memoria
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 00:09 In Cultura,Immagini | No Comments
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di Agata Katia Lo Coco
Cos’è Atidda? O meglio, chi é? È la creazione al femminile di un momento di evocazione emozionale, un tempo della memoria costruito attraverso l’estetica visuale e l’impatto che questa crea con lo spettatore.
Guardare vedendo, stimolare alla conoscenza di un linguaggio, quello fotografico, sempre più abusato ma poco approfondito nella sua essenzialità comunicativa.
Questo album si articola in un percorso di 10 fotografie. É la nonna mediterranea, la mia.
Il pretesto della storia visiva personale assurge a universale del ricordo: casa dei nonni, casa dei giochi, la casa che portiamo dentro.
Il tema generale di “Atidda” è quello dei luoghi della memoria, quindi dell’anima, scritti nelle mura della domus, appartenuta a mia nonna paterna, di cui porto lo stesso nome: Agata.
Ricordo che le sue vicine di casa la chiamavano in siciliano “Atidda” e mi sembrava strano udire quel suono cacuminale, quello “dda” difficile da pronunciare ma così radicato nella nostra Isola.
Una sbrecciatura sul muro, una piccola lampadina, degli scarponi dimenticati in un terrazzo, quello dove giocavo da bambina, la pila o piccola vasca dove lei era solita lavare i panni a mano e dove io immergevo la mia barbie, che nella calura estiva si rinfrescava in una enorme piscina, la penombra nelle stanze attraverso le persiane, gli interruttori della luce, lontani nel tempo, ma sempre conduttori di energia “altra”.
E si vede, nella semioscurità, quella dimensione luminosa quasi uterina, soffusa, protetta dalla luce tagliente, a volte accecante, del nostro Sud.
Nelle fotografie di un piccolo altarino casalingo cui era devota per il marito e il figlio, rivedo mia nonna, grande madre, in altre lingue: adesso la sua immagine diventa metafotografia.
Chiudo la sequenza con un autoritratto allo specchio del suo bagno, dove un tempo, quando ero piccola, non arrivavo a specchiarmi, nonostante mi mettessi sulle punte dei piedi. Avevo 7 anni quando decisi di vivere a casa sua per non lasciarla da sola durante la notte.
Era rimasta vedova. Trascorrevo molto tempo con lei, lo stesso che poi sarebbe diventato l’humus anche di questo racconto fotografico. Durante la nostra vita condivisa ho assorbito innumerevoli storie, nutrendomi di un’eredità che pochi miei coetanei possono vantare, un sentire ancestrale, altrimenti indicibile se non esperendo esso stesso in prima persona.
Oggi la casa è stata venduta, cambiata nella sua fisionomia interna, per essere riadattata a nuove vite: è diventata un deposito di vino casereccio ma continua ad esistere, a vivere in me, grazie al potere della memoria che la fotografia esercita su ciascuno di noi, sempre.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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