- Dialoghi Mediterranei - http://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Ascoltare il silenzio. Nei piccoli paesi la marginalità rimane
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 01:43 In Cultura,Società | No Comments
di Pietro Clemente
Piangere i morti
Mi colpisce molto la morte di Giulio Giorello perché è una voce dentro di me piena di risonanze. È uno degli oltre 35.000 morti italiani di Covid 19 che, dopo essere sopravvissuto e ritornato a casa (questo rende più dolorosa l’emozione e più ultima), ha raccontato la sua storia e la sua testimonianza di revenant dal mondo infero, dando così anche a tutti gli altri morti immaginabilità, rappresentanza e parola. Aveva tre anni meno di me. Era consapevole della veloce fine dopo il suo ritorno a casa. Un Primo Levi con meno tempo per raccontare, ma con la forza e il senso del dovere di farlo.
Non lo ho conosciuto personalmente, lo ho seguito sulla stampa spesso. Lo collego a Ludovico Geymonat e alla sua scuola a cui sono legato perché insegnò a Cagliari. Ma anche perché lui e i suoi allievi collaborarono con la Società Umanitaria di Milano con la quale ho cominciato a conoscere il mestiere di organizzatore di cultura, che poi ho praticato in Sardegna. All’Umanitaria ho conosciuto alcuni allievi di Geymonat. E fui colpito dall’approccio ‘impegnato’, disponibile, dialogico che faceva parte del profilo professionale, assai raro in quella tradizione di accademici. Lo stesso Geymonat a Cagliari tenne lezioni anche per gli insegnanti e per i maturandi, e quando, occasionalmente tornava per conferenze, aveva un pubblico incredibile.
Sulla stampa ho letto spesso Giorello che ragionava e dialogava su tantissimi argomenti. In particolare mi colpì un suo articolo apparso su La Lettura in cui dialogava con Sofia Viscardi, 18 enne youtuber e poi scrittrice sulla cultura dei giovani. Un capolavoro di ascolto e di dialogo.
Questo ha portato via il virus. Pensare a Giorello ci aiuta a restare fermi sul lutto, sul dramma, anziché correre oltre come pure è necessario fare. Ma come farlo senza avere dato ‘onorata sepoltura’ a questa montagna di morti, marginalizzati, inceneriti senza ritualità, senza ultimo abbraccio e doloroso pianto? Come si fa a ricordarli e a nominarli tutti uno per uno. Giorello, per la sua notorietà e per la sua umanità, ci aiuta a pensare tutto questo mondo di morti, a esserne figura di riferimento. Ci aiuta a tenere aperto il bisogno di cordoglio che pesa su di noi. Ma ormai – con questa grande ombra nel cuore e nella mente – siamo al dopo, ed è nel dopo che si misura l’uscita, che si misura la difficoltà di essere migliori ed è giusto che su questo si sviluppino nuove storie.
Il passo indietro del torero
Continuo ad usare le pagine di Ernesto De Martino in questi mesi di riflessione su qualcosa che ha a che fare con i temi di molti suoi scritti: La fine del mondo e Morte e pianto rituale sono due grandi libri che tornano ad essere assai pertinenti per ‘continuare a pensare’ i ‘nostri’ morti. Il passo indietro del torero è una espressione che De Martino[1] prende da Kereny, uno studioso del mondo classico, che spiega che gli antichi per fare un passo nel presente e verso il futuro dovevano farne uno indietro, alla ricerca di modelli di azione, di miti ispiratori, di storie già raccontate, così come il torero deve fare un passo indietro prima di assestare il suo colpo mortale. Un passo indietro per sapere meglio, per domandare perdono agli dèi, per dominare la scena. Così noi dobbiamo fare per guardare al domani, per chiedere conto di quel che succede oggi, per capire il rapporto tra passato e presente.
Abbiamo detto tutti che la colpa della pandemia stava nel cattivo passato, nel brutto mondo dal quale venivamo, nel quale eravamo immersi senza più vederlo, ma alla prima uscita da casa sentiamo dire da tutti che si deve fare il possibile perché tutto torni come prima, che tutti abbiano i loro soldi per ricominciare e che solo dopo sarà possibile un progetto nuovo. Per questo occorre fare il passo indietro del torero. Anche all’uscita dalla seconda guerra mondiale furono fatte grandi sanatorie nell’apparato dello Stato che è stato pieno di figure autoritarie per decine di anni. Forse era necessario, o inevitabile che fosse così. Molta sinistra critica addebita ancora a Togliatti tutti gli eccessi di smemoratezza verso gli ex fascisti del tempo. Però in quegli anni c’era anche una grande forza di innovazione e trascinamento che veniva dalle nuove generazioni che erano state protagoniste della guerra e della Resistenza, che contrastò il dato di fatto del dovere accettare un mondo burocratico e una legislazione penale ancora fortemente intrisi di fascismo. Ci vollero quasi tre decenni per ritrovare un equilibrio a favore delle forze che erano state protagoniste della Resistenza.
Oggi non disponiamo di questa grande carica giovanile. Veniamo da anni di decrescita della fecondità. Per questo è più importante il passo indietro, la luce sul passaggio nel tunnel. A questo proposito ricordo due voci tra le tante che hanno cercato di scrivere sulla pietra le cose che tutti dicevamo al momento della chiusura in casa e della morte.
Il primo è del giornalista-scrittore Paolo Rumiz e viene da La Repubblica del 27 marzo in piena clausura:
Mi ricorderò di voi
In una chiave diversa ma con un simile invito alla severità davanti alla morte sono le parole di una delle omelie di Papa Francesco sulla pandemia:
La data è la stessa di Rumiz, il 27 marzo, (IV di Quaresima, è stata notata, anche in queste pagine, da Eugenio Imbriani, la coincidenza della pandemia e della clausura di massa con la Quaresima e la sua natura penitenziale) e concerne il rito che in solitudine il Papa eseguì in Piazza San Pietro, vicino a un crocefisso. Mostrando con scabra semplicità il senso di un dolore collettivo che non poteva però essere espresso tutti insieme e vicini. Prendendolo su di sé. Come poi ha fatto il Presidente Mattarella all’Altare della Patria. Come ora vi propongo di fare con il ricordo di Giulio Giorello assunto a rappresentare il lutto di tanti. Immagini che ricordano all’antropologo anche quelle della ricerca che – ancora una volta – Ernesto De Martino condusse nel cuore della Seconda guerra mondiale nel libro Il Mondo Magico. Qui troviamo la figura drammatica ed epica del mediatore per conto della comunità della “realtà incerta” che si configura nel mondo primitivo con lo sciamano e nel mondo cristiano con Cristo
Mò che il tempo si avvicina
Mò che il tempo si avvicina/ viene avanti la grande Cina. È uno dei canti popolari di cui dà conto Ernesto De Martino nelle pagine delle Note lucane [3], canti inventati e creati dalla cultura popolare che viveva allora tra la fine di un’epoca e la speranza di una età nuova. Oggi è un po’ paradossale accostarlo a quel che succede nella pandemia mondiale. In questo caso la Cina è venuta avanti come esportatrice di virus più che di utopia del nuovo mondo maoista. Ma è vero che si avvicina il tempo delle scelte e della resa dei conti. C’è un rapporto tra le scelte che si faranno e il fare i conti col passato. Viene avanti la grande Cina significa, oggi come ieri, avere una idea del futuro che ci guidi e che ci appassioni. Una idea diversa da quella – forse rassegnata – che si aveva prima della pandemia.
Nel dibattito in corso si profilano alcuni temi forti che riguardano le zone interne, riguardano la necessità di porre il centro in periferia. Si può aggiungere a sottolineatura ‘ se non ora quando?’. Tra le grandi navi da crociera, il turismo di massa, le armi prodotte nel Nord Est e vendute nelle guerre che insanguinano il mondo e che fanno PIL, e lo sviluppo delle zone interne, il riabitare l’Appennino, restituire possibilità e prospettiva vitale alle Alpi, sembra facile dire che è giusto puntare sulle seconde alternative, ma è invece molto facile che tutto lavori perché si ristabiliscano le prime, quelle che hanno stravolto e danneggiato moralmente, ambientalmente, e culturalmente l’Italia. E quindi è tempo di battaglie politiche per la rinascita e lo sviluppo sostenibile delle zone interne. Proprio perché sarà difficile, è tempo per tutti di fare la propria parte. Ho condiviso il progetto nato nell’intesa tra un gruppo di lavoro di giovani architetti, economisti, sociologi e l’editore Donzelli, dal quale è nato il libro Riabitare l’Italia che ora ha una seconda edizione in brossura e a prezzo più contenuto. Da qui è nato un progetto ulteriore, quello di un Manifesto per Riabitare l’Italia (a cura di Giuseppe Cersosimo e Carmine Donzelli) e di una piccola raccolta di parole chiave per il buon uso nelle attività sociali, politiche e culturali finalizzate a quel progetto [4]. Eccone l’avvio:
Sono i temi del nostro presente-futuro, ‘Viene avanti la grande Cina’ oggi significa sviluppare nuove visioni di civiltà a partire dalle risorse di natura e di memoria dell’Italia delle periferie e delle zone interne. Significa mettere fine in modo concreto e realistico e, nel tempo lungo necessario al modello di vita urbano centrico, al modello dell’industria che danneggia l’ambiente.
Su questi temi si è impegnata, e la si vede sempre più presente, la sezione dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) che si occupa dei comuni montani UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani), che ha proposto tempestivamente (ma non so con quale successo) una aggiunta al progetto della task force guidata da Vittorio Colao. L’UNCEM ha presentato proprio un punto ‘in aggiunta’ nel quadro di “Infrastrutture e ambiente, volano del rilancio punto VIII”, chiamandolo 30 bis. In finale nella parte propositiva si dice:
Come si vede idee e piattaforme vanno definendosi, e ce ne sono molte. UNCEM fa riferimento anche al Manifesto della Montagna, promosso dalla Società dei Territorialisti, che abbiamo pubblicato sul numero precedente di Dialoghi Mediterranei.
Un articolo su La Repubblica dell’Architetto Boeri ha dato lo spunto sui social per una riflessione sul riabitare le zone interne e il dibattito che ne è nato ha avuto anche momenti assai critici. Domenica 21 giugno, l’invito da parte del premier Conte a Boeri nel quadro di una strana giornata con scrittori, attori e cantanti, che forse avrebbe avuto l’intenzione di rappresentare la cultura, è stato forse il più stravagante [5]. Ma, anche in questo strano conglomerato quasi circense, io spero che qualcosa sia stato trasmesso, qualche scintilla sia scattata. Anche perché è il governo, insieme alle Regioni e ai sindaci, il riferimento delle azioni per l’uscita dalla pandemia e per la progettazione della società futura che, si spera, non sia uguale a quella di prima. Sulle politiche future è intervenuto più volte Antonio De Rossi, che qui prendiamo in una parte limitata di un suo testo [6], dal titolo significativo Riflessioni. Sull’importanza di spazio e territorio nel progetto delle aree interne. Sono i primi due di 7 punti che si possono trovare sul web.
Forse può essere assunto come atteggiamento opposto e competitivo allo sguardo verso le zone interne quello del sindaco di Firenze, che sembra muoversi come se Firenze fosse l’unica città che ha vissuto il lockdown e la pandemia. Siccome Firenze ha avuto una disastrosa assenza di turisti e quindi una clamorosa assenza di tasse di soggiorno nelle casse comunali, il sindaco Nardella fa appello alle organizzazioni e alla solidarietà internazionale, come nel caso dell’alluvione (!!!) e propone la ‘città d’arte’ come una categoria dello spirito (e come se Firenze fosse l’unica o la prima) e arriva a proporre forme di defiscalizzazione che ricordano la zona franca da decenni rivendicata da alcune forze politiche in Sardegna. Perché occuparsene? Per il fatto che si tratta di un antagonista nelle politiche di orientamento dello sviluppo, e per il fatto che fa diventare il ‘centralismo fiorentino’, stigmatizzato già in Toscana da tutte le province e città, una sorta di ombelico del mondo. Mentre si insiste dal punto di vista del riequilibrio territoriale, sul fatto che città e zone interne debbano dialogare ed interagire, questa posizione invece volta le spalle a tutti ed apre una sorta di battaglia per le risorse in cui l’obiettivo rischia di essere non la città d’arte ma la città dei commercianti del centro, ormai sottratta alla comunità territoriale da decenni. Le città d’arte devono anch’esse volgere lo sguardo al loro territorio, senza il quale storicamente non sono nulla, e progettare insieme. Se c’è una città colpita in Italia è Bergamo ed è anch’essa una città d’arte. È lì che c’è stata l’alluvione del virus.
Dopo la pandemia, tra regioni e città, gli ombelichi del mondo si sono vistosamente moltiplicati. Basterebbe dare uno sguardo – nelle pagine che seguono – al Manifesto della Rete delle Associazioni – Comunità per lo Sviluppo che viene dalla Sardegna, per vedere un’altra Italia e altri progetti.
Il ritorno ‘infelice’ [7]
Da dove torniamo? Torniamo dalla esperienza della clausura, si potrebbe dire ‘torniamo da casa’. Scrive Paolo Giordano ne Il ritorno a noi stessi [8]
Torniamo «Da un luogo in cui, seppure chiusi ognuno nella propria casa, eravamo tutti insieme, un luogo dove formavamo una totalità. Metterci in contatto con un destino più largo è l’esito momentaneo di ogni grande catastrofe …siamo appena stati parte di una delle avventure più condivise che l’umanità abbia vissuto, forse la più condivisa in assoluto».
Ho condiviso questa sensazione. È quella che a molti ha fatto pensare che ‘dopo’ sarebbe cambiato se non tutto almeno tanto della nostra vita. La gigantesca condivisione mondiale del distanziamento e dei presidi elementari anticontagio ha fatto un grandioso, benché doloroso, effetto ‘umanità: siamo noi, il mondo grande e terribile, ci somigliamo abbiamo un destino comune. Ciascuno di noi all’inizio della clausura da pandemia ha fatto una scelta: credo, benché stupefatto che il virus esista veramente e che io la mia famiglia la mia città il mio Paese l’Europa il Mondo possiamo venirne contagiati se non accettiamo le regole suggerite dai governi e dai virologi, dalle Nazioni Unite nella fattispecie dall’OMS. Non è una cosa banale visto che connette religioni diverse e popoli in guerra tra loro. Anzi dice anche che viene prima la salute dell’umanità e poi le ragioni della guerra. Lo dice anche se non tutti lo fanno (in Libia temo che non sia successo). Questa scelta l’ho fatta in modo intuitivo, come l’hanno fatta tanti, tutti quelli che hanno scritto in queste pagine ad esempio. E non era scontato.
In molti rappresentiamo frazioni di generazioni ribelli almeno negli anni 60, 70, 80 e perfino 90. Eppure non abbiamo detto che il nemico è il governo, o l’imperialismo o il neo-liberismo, abbiamo detto che il nemico è il virus. E anziché manifestare per le strade siamo stati in casa a fare il pane, bricolage domestico in arretrato, relazioni sociali on line. In Italia questo effetto di unità nazionale popolare non è frequente e per averlo come riferimento in modo massiccio occorre pensare all’esperienza della guerra e del ritorno a casa o dell’esser stati a casa a bombardamenti finiti, a figli ritornati, a cibo-lavoro-vita da ricominciare. Anche a ricominciare a dividersi dopo che eravamo stati uniti dalla paura, dal dolore, dalla morte. È quell’esperienza di comunità legata all’essere sopravvissuti che Calamandrei chiamò “popolo dei morti”, nel senso che la consapevolezza e la volontà di creare una nuova Italia si fondò non solo dall’essere diventati antifascisti, ma dall’avere vissuto una guerra distruttiva, dal desiderio di uscirne. Con calma e pazienza vorrei approfondire il nesso tra il nostro ‘lockdown’ collettivo e la riflessione di Leonardo Paggi sulla nascita della democrazia dopo la Seconda guerra mondiale, nel suo libro che ha lo stesso titolo della frase di Calamandrei Il popolo dei morti, con il sottotitolo La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946) [9].
Perché questo paragone, assai più utile di quelli bellici che hanno largamente circolato nella stampa e nella TV, ci aiuta anche a capire l’andamento del ritorno alla vita, quello che Paolo Giordano sente precario, difficile, ancora pieno di un lutto non risolto, e come il passaggio da un momento grande terribile e comune a una vita quotidiana dispersa e plurale, dove ognuno rischia di essere contro l’altro. Di capire il passaggio a quel che già abbiamo visto: la destra politica che usa la piazza, l’estrema destra fascista che esibisce il suo ‘me ne frego’ non usando la mascherina, un pazzesco movimento diretto da un generale dei carabinieri a riposo che nega l’esistenza del virus e che condivide questa posizione con una parte del movimento no vax. Non è mancato anche nella sinistra qualche radicalismo iniziale, in specie per l’infelice uso da parte di Agamben della immagine della società del controllo in connessione con il virus (il virus pretesto per una società del controllo) che si è poi estesa con il dibattito sulle app di controllo dei contatti (Immuni). Nella politica ufficiale di sinistra oggi manca la fantasia, l’inventiva, il coraggio che fu del mondo all’uscita della guerra. Ma forse anche quello venne in itinere, anche se – di certo – il fascismo aveva prodotto un modello forte in negativo al quale opporre una società nuova, mentre questo il virus non lo può fare. Quel poco che è certo è che anche le forti implicazioni di critica allo sviluppo indifferente alla vita del pianeta che il virus ha suggerito non sono oggi al centro del modello di società futura, per la quale invece in fondo ognuno cerca di ritrovare il suo spazio di prima.
Le voci dei piccoli paesi: il silenzio e le ambulanze
Arrivano i racconti che ho chiesto per Dialoghi Mediterranei sul vissuto del virus nelle zone interne (non tutte, qualche città anche, qualche periferia urbana) e portano una sensazione di verità. Segni, ricordi di mondi sospesi, nuove e remote sonorità. Più forti sono i testi vicini all’epicentro del terremoto virale. Simone Mizzotti da Crema (qui nello spazio Immagini) mostra le sue foto che si fanno scure quando gli zii si ammalano e muoiono, come il fiore delle fiabe che quando appassisce segnala all’eroe il malessere e il bisogno di aiuto del/della deuteragonista. E Luciano Sassi da Isola Dovarese, racconta i rumori che si spengono, ‘il silenzio delle campane’ e in questo deserto sonoro compaiono i nuovi minacciosi rumori degli elicotteri e delle ambulanze che diventano ossessivi portando tracce di tragedia e annunci di morte.
Pian piano le testimonianze si fanno più lontane dall’epicentro e tutte testimoniano il senso di comune timore, di comune dolore, che ci ha spinto a stare nella case e a mascherarci, a tenere distanze inconsuete affettivamente inaccettabili.
Claudio Rosati ci ha raccontato la montagna pistoiese raccogliendone le voci: è partito da casa, dalla città: «Nello spazio urbanizzato, di colpo silenzioso, la natura si riprende ora, per quanto possibile, quello che le abbiamo sottratto». Nuove sonorità di uccelli in città, ma poi nella montagna le voci, i racconti, parlano del rischio che cresca troppo la fauna ‘nociva’ che i cacciatori ormai non abbattono, che ricompaia il lupo. Rosati ci invita ad immaginare che gli animali si chiedano dove siano andati a finire gli uomini. «E gli sembrerà una festa. Isolati nelle nostre case di città, se il pensiero ci consola, pensiamo alla felicità della montagna che per qualche tempo si libera finalmente di noi».
Scendendo ancora verso Sud, Paolo Nardini racconta la periferia di Grosseto, il paese quasi urbano dove si vanno cercando le tracce di una comunità interrotta dal silenzio del virus. Le strade di passaggio verso il mare, i turisti, i bar, i punti di ritrovo scompaiono: «da metà di marzo in avanti, mi ha impressionato il non-passaggio delle macchine. Né di giorno, né di notte. Non passava nessuno. Dalla finestra vedo almeno un paio di chilometri di strada, e di notte, con i fari, le automobili si vedono ancora da più lontano. Scrutavo l’oscurità, ma non vedevo, come mi aspettavo, i fari che si avvicinavano. Questo silenzio, questa assenza, mi dava il senso di un tempo sospeso, dell’attesa di qualcosa che aspettiamo che passi… ma non sappiamo quando». Ancora più a Sud è Eugenio Imbriani a raccontare il paese di Arnesano, contiguo a Lecce, la quasi coincidenza tra Quaresima e lockdown (così come la Pasqua senza Resurrezione dei viventi e il 25 aprile senza Liberazione) e la storia del Crocefisso miracoloso. La quarantena è occasione di racconti, anche di leggende: «Quaresima e Pasqua senza riti partecipati con la nuova abitudine, presto acquisita, di seguire messe e liturgie in televisione o in streaming. Assai più strana, per me, è stata la rinuncia ad accompagnare i morti, la necessità di accettare che se ne andassero e basta, portati via da estranei, senza visite e cordoglio condiviso, sottratti ai vivi quasi senza mediazioni».
«Da Mezzojuso a maggio, mese dei primi calabroni e delle api, degli insetti nel bosco e dei fiori» scrive Nicola Grato, con una riflessione a tutto campo sul paese: «Un luogo dove attivare e coltivare la fantasia è il paese e noi, volenti o nolenti, col paese dovevamo confrontarci. Con la sua residualità, con l’abbandono e con lo scoramento. Eravamo pietra arenaria delle case, gesso, roverelle abbandonate, castagneto e insetti che lo rovinano. Eravamo soli in un paese solo, nonostante le connessioni, i legami, le videoconferenze»: E così nasce un piccolo circuito di valorizzazione e scambio dei prodotti locali, l’olio, gli ortaggi, la riscoperta di non essere il margine di altro, ma il centro della propria vita. Arriviamo in Sardegna, ad Armungia: il silenzio qui non è improvviso, è consueto, e la maggiore libertà di movimento legata alla contiguità tra paese e campagna non ne nasconde la marginalità, così che a maggio la ripresa è ancora una volta centrata sulla città, difficile credere a una svolta:
E poi ci sono altre voci, via via arrivate, dal Friuli (Morandini), dalla Toscana (Tozzi- Fantacci) e da Monticchiello (Giglioni e Rossi), dall’Abruzzo (Ranalli), dalla Basilicata (Vitelli e Berardi ), dalla Sicilia ancora (Burgaretta e Cangemi), dalla Sardegna più a nord (Seddaiu), non mi riesce di darne conto, ma si presentano come una polifonia con forti tratti comuni, sulla quale continuerò a lavorare in futuro per ricostruire il panorama dello spazio/tempo anomalo che abbiamo vissuto in questi mesi.
Ci sono altri interventi che lanciano già i temi del futuro o analizzano processi in corso (Van Aken, Zucca, Molinari, Bacciu-Malavasi) e infine temi che riprendono – ponendo però la pandemia nel loro orizzonte – la linea più classica de Il centro in periferia pre-clausura e distanziamento sociale.
Qui segnalo la ripresa del dibattito sui musei e il territorio con tre testi (Colombatto, Paffi, Andrea Rossi) davvero interessanti per dimensioni, orizzonti e prospettive. E segnalo infine due testi su realtà locali e comunità assai diverse (Malgeri, Bertinotti). L’uno descrive una esperienza di costruzione di comunità in Calabria, raccontata tramite una intervista, l’altro un tentativo di fare il punto, oggi, davanti alla pandemia, su uno dei più longevi insediamenti comunitari centrati sulla critica della civiltà dei consumi, quello degli Elfi del Gran Burrone. E infine un contributo su un film dedicato ai paesi e al Sud, Il bene mio di Mazzapesa, in cui Vita Santoro riprende il filo del cinema e dei documentari che pongono il Centro in periferia. Ringrazio tutti della straordinaria collaborazione e dei testi inviati che per me saranno ancora a lungo una compagnia e una fucina di riflessione. Mi girano tra gli occhi e la mente parole lanciate che cambiano valore e senso: silenzio-rumore; tempo sospeso – tempo lungo – tempo convulso; spazio ampio-spazio-stretto, alterazione tempo spazio-ripensarsi o rifugiarsi, perdersi o ritrovarsi. Luoghi, orti, boschi, cibi. Modifica dello spazio-tempo quotidiano. Confine. E la domanda più inquieta di tutte: che sarà domani?
Chissà se ci possono soccorrere le parole di Giulio Giorello del 4 giugno, per la newsletter de La Lettura, quando, tornato a casa il 17 maggio, credeva di avere vinto la sua battaglia. Penso che nelle parole ultime ci sia sempre un messaggio più forte per senso, per visione. Il senso di essere un reduce, protagonista di una resistenza. Il timore di uno ‘Stato medico’ che, al di là delle intenzioni, possa andare oltre il rispetto del paziente e del cittadino. L’idea che la guerra sia una metafora e che deve essere presa sul serio per aprire nuove frontiere contro i mali che affliggono i vari popoli del mondo. Prendiamone almeno un messaggio, facciamolo nostro, perché anche la sua resistenza continui, attraverso di noi.
______________________________________________________________
_______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/ascoltare-il-silenzio-nei-piccoli-paesi-la-marginalita-rimane/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.