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Ascoltare il silenzio. Nei piccoli paesi la marginalità rimane

 

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Giulio Giorello

il centro in periferia

di Pietro Clemente

Piangere i morti

Mi colpisce molto la morte di Giulio Giorello perché è una voce dentro di me piena di risonanze. È uno degli oltre 35.000 morti italiani di Covid 19 che, dopo essere sopravvissuto e ritornato a casa (questo rende più dolorosa l’emozione e più ultima), ha raccontato la sua storia e la sua testimonianza di revenant dal mondo infero, dando così anche a tutti gli altri morti immaginabilità, rappresentanza e parola. Aveva tre anni meno di me. Era consapevole della veloce fine dopo il suo ritorno a casa. Un Primo Levi con meno tempo per raccontare, ma con la forza e il senso del dovere di farlo.

Non lo ho conosciuto personalmente, lo ho seguito sulla stampa spesso. Lo collego a Ludovico Geymonat e alla sua scuola a cui sono legato perché insegnò a Cagliari. Ma anche perché lui e i suoi allievi collaborarono con la Società Umanitaria di Milano con la quale ho cominciato a conoscere il mestiere di organizzatore di cultura, che poi ho praticato in Sardegna. All’Umanitaria ho conosciuto alcuni allievi di Geymonat. E fui colpito dall’approccio ‘impegnato’, disponibile, dialogico che faceva parte del profilo professionale, assai raro in quella tradizione di accademici. Lo stesso Geymonat a Cagliari tenne lezioni anche per gli insegnanti e per i maturandi, e quando, occasionalmente tornava per conferenze, aveva un pubblico incredibile.

Sulla stampa ho letto spesso Giorello che ragionava e dialogava su tantissimi argomenti. In particolare mi colpì un suo articolo apparso su La Lettura in cui dialogava con Sofia Viscardi, 18 enne youtuber e poi scrittrice sulla cultura dei giovani.  Un capolavoro di ascolto e di dialogo. 

Questo ha portato via il virus. Pensare a Giorello ci aiuta a restare fermi sul lutto, sul dramma, anziché correre oltre come pure è necessario fare. Ma come farlo senza avere dato ‘onorata sepoltura’ a questa montagna di morti, marginalizzati, inceneriti senza ritualità, senza ultimo abbraccio e doloroso pianto? Come si fa a ricordarli e a nominarli tutti uno per uno. Giorello, per la sua notorietà e per la sua umanità, ci aiuta a pensare tutto questo mondo di morti, a esserne figura di riferimento.  Ci aiuta a tenere aperto il bisogno di cordoglio che pesa su di noi. Ma ormai – con questa grande ombra nel cuore e nella mente – siamo al dopo, ed è nel dopo che si misura l’uscita, che si misura la difficoltà di essere migliori ed è giusto che su questo si sviluppino nuove storie.

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Paolo Rumiz

Il passo indietro del torero

Continuo ad usare le pagine di Ernesto De Martino in questi mesi di riflessione su qualcosa che ha a che fare con i temi di molti suoi scritti: La fine del mondo e Morte e pianto rituale sono due grandi libri che tornano ad essere assai pertinenti per ‘continuare a pensare’ i ‘nostri’ morti. Il passo indietro del torero è una espressione che De Martino[1] prende da Kereny, uno studioso del mondo classico, che spiega che gli antichi per fare un passo nel presente e verso il futuro dovevano farne uno indietro, alla ricerca di modelli di azione, di miti ispiratori, di storie già raccontate, così come il torero deve fare un passo indietro prima di assestare il suo colpo mortale. Un passo indietro per sapere meglio, per domandare perdono agli dèi, per dominare la scena.  Così noi dobbiamo fare per guardare al domani, per chiedere conto di quel che succede oggi, per capire il rapporto tra passato e presente.

Abbiamo detto tutti che la colpa della pandemia stava nel cattivo passato, nel brutto mondo dal quale venivamo, nel quale eravamo immersi senza più vederlo, ma alla prima uscita da casa sentiamo dire da tutti che si deve fare il possibile perché tutto torni come prima, che tutti abbiano i loro soldi per ricominciare e che solo dopo sarà possibile un progetto nuovo.  Per questo occorre fare il passo indietro del torero. Anche all’uscita dalla seconda guerra mondiale furono fatte grandi sanatorie nell’apparato dello Stato che è stato pieno di figure autoritarie per decine di anni. Forse era necessario, o inevitabile che fosse così. Molta sinistra critica addebita ancora a Togliatti tutti gli eccessi di smemoratezza verso gli ex fascisti del tempo.  Però in quegli anni c’era anche una grande forza di innovazione e trascinamento che veniva dalle nuove generazioni che erano state protagoniste della guerra e della Resistenza, che contrastò il dato di fatto del dovere accettare un mondo burocratico e una legislazione penale ancora fortemente intrisi di fascismo. Ci vollero quasi tre decenni per ritrovare un equilibrio a favore delle forze che erano state protagoniste della Resistenza.

Oggi non disponiamo di questa grande carica giovanile. Veniamo da anni di decrescita della fecondità. Per questo è più importante il passo indietro, la luce sul passaggio nel tunnel. A questo proposito ricordo due voci tra le tante che hanno cercato di scrivere sulla pietra le cose che tutti dicevamo al momento della chiusura in casa e della morte.

 Il primo è del giornalista-scrittore Paolo Rumiz e viene da La Repubblica del 27 marzo in piena clausura:

Mi ricorderò di voi

«23 marzo
Stamattina ho appeso fuori dalla porta un foglio con su scritto: “Mi ricorderò di voi” quando tutto sarà finito. Di voi che avete smantellato la sanità pubblica per finanziare centri di estetica e ora tuonate contro lo Stato perché mancano respiratori. Di voi farisei che, mentre pontificavate sulla vita, mettevate il profitto davanti alla vita stessa, e la difesa dei beni davanti a quella delle persone. Di voi, che ci avete coperto di veleni e lasciato desertificare l’Italia dei borghi; e di voi, volonterosi partigiani dell’economia del saccheggio, dello scarto e dello spreco, che avete de-localizzato in Asia e tolto lavoro alla nostra gente. E di voi, che avete coperto tutto questo, facendoci credere che il problema fossero gli immigrati, quando siete stati i primi a chiamarli per ingrassarvi il culo. E soprattutto di voi, ultra-liberisti da talk show, che avete smantellato cultura e senso del dovere, obbligandoci a gestire questa emergenza più con la polizia che con l’educazione civica. E infine di voi, che anche ora, nel momento estremo, seminate zizzania e bugie per coprire di fango chi senza clamore si spende per soccorrere gli ultimi”. Scritto d’impeto, dopo avere letto un report agghiacciante sulle responsabilità dell’ecatombe a Bergamo, epicentro dell’infezione, con centinaia di morti al giorno».

 In una chiave diversa ma con un simile invito alla severità davanti alla morte sono le parole di una delle omelie di Papa Francesco sulla pandemia:

«“Venuta la sera” … Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: “Siamo perduti” (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. Perché avete paura? Non avete ancora fede? Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: Svegliati Signore!» [2].
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Il Papa sul sagrato di san Pietro, 27 marzo 2020

La data è la stessa di Rumiz, il 27 marzo, (IV di Quaresima, è stata notata, anche in queste pagine, da Eugenio Imbriani, la coincidenza della pandemia e della clausura di massa con la Quaresima e la sua natura penitenziale) e concerne il rito che in solitudine il Papa eseguì in Piazza San Pietro, vicino a un crocefisso. Mostrando con scabra semplicità il senso di un dolore collettivo che non poteva però essere espresso tutti insieme e vicini. Prendendolo su di sé. Come poi ha fatto il Presidente Mattarella all’Altare della Patria. Come ora vi propongo di fare con il ricordo di Giulio Giorello assunto a rappresentare il lutto di tanti. Immagini che ricordano all’antropologo anche quelle della ricerca che – ancora una volta – Ernesto De Martino condusse nel cuore della Seconda guerra mondiale nel libro Il Mondo Magico. Qui troviamo la figura drammatica ed epica del mediatore per conto della comunità della “realtà incerta” che si configura nel mondo primitivo con lo sciamano e nel mondo cristiano con Cristo

Mò che il tempo si avvicina

Mò che il tempo si avvicina/ viene avanti la grande Cina. È uno dei canti popolari di cui dà conto Ernesto De Martino nelle pagine delle Note lucane [3], canti inventati e creati dalla cultura popolare che viveva allora tra la fine di un’epoca e la speranza di una età nuova. Oggi è un po’ paradossale accostarlo a quel che succede nella pandemia mondiale. In questo caso la Cina è venuta avanti come esportatrice di virus più che di utopia del nuovo mondo maoista. Ma è vero che si avvicina il tempo delle scelte e della resa dei conti. C’è un rapporto tra le scelte che si faranno e il fare i conti col passato. Viene avanti la grande Cina significa, oggi come ieri, avere una idea del futuro che ci guidi e che ci appassioni. Una idea diversa da quella – forse rassegnata – che si aveva prima della pandemia.

riabitare-manifesto40208Nel dibattito in corso si profilano alcuni temi forti che riguardano le zone interne, riguardano la necessità di porre il centro in periferia. Si può aggiungere a sottolineatura ‘ se non ora quando?’. Tra le grandi navi da crociera, il turismo di massa, le armi prodotte nel Nord Est e vendute nelle guerre che insanguinano il mondo e che fanno PIL, e lo sviluppo delle zone interne, il riabitare l’Appennino, restituire possibilità e prospettiva vitale alle Alpi, sembra facile dire che è giusto puntare sulle seconde alternative, ma è invece molto facile che tutto lavori perché si ristabiliscano le prime, quelle che hanno stravolto e danneggiato moralmente, ambientalmente, e culturalmente l’Italia. E quindi è tempo di battaglie politiche per la rinascita e lo sviluppo sostenibile delle zone interne. Proprio perché sarà difficile, è tempo per tutti di fare la propria parte. Ho condiviso il progetto nato nell’intesa tra un gruppo di lavoro di giovani architetti, economisti, sociologi e l’editore Donzelli, dal quale è nato il libro Riabitare l’Italia che ora ha una seconda edizione in brossura e a prezzo più contenuto. Da qui è nato un progetto ulteriore, quello di un Manifesto per Riabitare l’Italia (a cura di Giuseppe Cersosimo e Carmine Donzelli) e di una piccola raccolta di parole chiave per il buon uso nelle attività sociali, politiche e culturali finalizzate a quel progetto [4]. Eccone l’avvio:

«Dalla fine del secolo scorso, l’Italia conosce una vera e propria crisi delle sue tradizionali egemonie territoriali: i “centri”, i luoghi cui in passato era stata attribuita un’indiscussa funzione direzionale, non riescono più a legittimare il loro ruolo trainante per l’intero sistema delle economie, delle relazioni sociali, dei valori simbolici. Questa crisi ha trovato una conferma drammatica con la pandemia da Covid-19, che ha colpito in modo severo il “cuore” produttivo e sociale del Paese, mostrando, in campo sanitario – e non solo – quanto insufficiente fosse la capacità da parte del “centro” di reagire agli shock esogeni. Si è rotto il meccanismo della direzionalità. Sempre più i grandi agglomerati urbani producono benefici solo per i ceti più ricchi che li abitano, sempre meno riescono a creare vantaggi e opportunità fuori dai propri confini, interni ed esterni. Sempre più chi sta fuori si sente svincolato, distante, solo, disconnesso. Cresce la forbice delle disuguaglianze, che si presentano sempre di più come asimmetrie di opportunità, e sempre più si legano alle disarticolazioni dei territori. E mentre il modello urbano misura le proprie crescenti difficoltà, al di fuori dei centri la condizione di vita peggiora: nelle terre alte, come nei fondivalle della deindustrializzazione; nelle campagne dell’agricoltura intensiva, come nelle aree attraversate dalla consumazione dell’esperienza dei “distretti”; nelle fasce costiere deturpate dal continuum delle seconde case in abbandono, come nelle sempre più vaste e sofferenti periferie metropolitane»

unnamed24-1024x568Sono i temi del nostro presente-futuro, ‘Viene avanti la grande Cina’ oggi significa sviluppare nuove visioni di civiltà a partire dalle risorse di natura e di memoria dell’Italia delle periferie e delle zone interne. Significa mettere fine in modo concreto e realistico e, nel tempo lungo necessario al modello di vita urbano centrico, al modello dell’industria che danneggia l’ambiente.

Su questi temi si è impegnata, e la si vede sempre più presente, la sezione dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani)  che si occupa dei comuni montani UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani), che ha proposto tempestivamente (ma non so con quale successo) una aggiunta al progetto della task force guidata da Vittorio Colao. L’UNCEM ha presentato proprio un punto ‘in aggiunta’ nel quadro di “Infrastrutture e ambiente, volano del rilancio punto VIII”, chiamandolo 30 bis. In finale nella parte propositiva si dice:

«Adottare le iniziative di competenza per attuare la legge n. 158/2017 sui piccoli Comuni, approvando in tempi rapidi i decreti attuativi al fine di individuare le modalità di spesa delle risorse economiche previste alla legge e incrementando la dotazione del fondo previsto dalla medesima legge; i 160 milioni di euro attuali sono destinati a investimenti strutturali; – realizzare la “Strategia nazionale per le aree interne, rurali e montane alpine e appenniniche italiane”, attraverso un Programma operativo nazionale (PON) che individui fondi europei, nazionali e regionali sulla programmazione dell’Unione europea 2021-2027; arrivare alla “SNAMI2.0” superando ogni ostacolo burocratico che ha finora rallentato la Strategia; – avviare un Piano nazionale per i piccoli Comuni, le aree rurali, montane e interne del Paese al fine della prevenzione del dissesto idrogeologico, la lotta ai cambiamenti climatici, il riuso dei beni immobili e il contrasto al consumo di suolo; attuare la Strategia nazionale delle Green Communities, le Comunità energetiche e la “valorizzazione dei servizi ecosistemici-ambientali”; – accelerare i piani per l’infrastrutturazione digitale delle aree montane sbloccando i cantieri nei Comuni montani del Piano nazionale della banda ultralarga, anche con reti FWA wi.fi., consentendo di ridurre il divario digitale che vede oggi oltre 3.900 Comuni montani sprovvisti di linea dati veloce, riducendo i gap di infrastrutturazione che non permettono in 1.200 Comuni di ricevere un segnale adeguato e stabile per la telefonia mobile e a 5 milioni di italiani di vedere i canali del servizio pubblico e l’intero bouquet televisivo; – avviare un piano per rendere i piccoli Comuni italiani dei borghi smart dove vivere, lavorare, innovare, incrociando domanda e offerta, attraverso un patto forte con le aree urbane; – promuovere provvedimenti atti a favorire il “restare in montagna” e l’insediamento di attività imprenditoriali di giovani, grazie a specifiche azioni e organizzazione su scuola e formazione;- difendere i presìdi commerciali e artigianali dei territori attraverso l’incentivazione e la valutazione di iniziative normative volte a introdurre misure fiscali peculiarie e differenziate per favorire le attività, multifunzionali e multiservizio, smart e green, nei piccoli centri delle aree montane alpine e appenniniche; contrastare lo spopolamento è la prima urgenza».

Come si vede idee e piattaforme vanno definendosi, e ce ne sono molte. UNCEM fa riferimento anche al Manifesto della Montagna, promosso dalla Società dei Territorialisti, che abbiamo pubblicato sul numero precedente di Dialoghi Mediterranei.

Un articolo su La Repubblica dell’Architetto Boeri ha dato lo spunto sui social per una riflessione sul riabitare le zone interne e il dibattito che ne è nato ha avuto anche momenti assai critici. Domenica 21 giugno, l’invito da parte del premier Conte a Boeri nel quadro di una strana giornata con scrittori, attori e cantanti, che forse avrebbe avuto l’intenzione di rappresentare la cultura, è stato forse il più stravagante [5].  Ma, anche in questo strano conglomerato quasi circense, io spero che qualcosa sia stato trasmesso, qualche scintilla sia scattata. Anche perché è il governo, insieme alle Regioni e ai sindaci, il riferimento delle azioni per l’uscita dalla pandemia e per la progettazione della società futura che, si spera, non sia uguale a quella di prima. Sulle politiche future è intervenuto più volte Antonio De Rossi, che qui prendiamo in una parte limitata di un suo testo [6], dal titolo significativo Riflessioni. Sull’importanza di spazio e territorio nel progetto delle aree interne. Sono i primi due di 7 punti che si possono trovare sul web.

«1. Questa crisi mostra come le aree che hanno maggiore capacità di resistenza sono quelle dove buoni gradi di interdipendenza e di integrazione delle parti, di varietà e multifunzionalità vengono a coniugarsi con specifiche caratteristiche territoriali e ambientali. È evidente come le aree interne abbiano degli atouts da giocare in questa partita. Ma questo significa ridefinire in termini radicali molte delle policies dedicate a questi territori negli ultimi decenni, quasi sempre incentrate sulla patrimonializzazione delle risorse locali e la loro valorizzazione turistica: in fondo l’esaltazione delle eccellenze, dei beni faro, delle specializzazioni sul mercato del turismo non è che l’altra faccia del medesimo paradigma che ha guidato aree metropolitane e territori intermedi. Bisogna rovesciare la visione: non a partire dai “centri” verso le “periferie”, ma a partire dai “margini” stessi. A muovere da un’idea centrale: che questi non devono essere luoghi del consumo (di natura, di tradizioni, ecc.), ma innanzitutto territori della produzione: di nuove culture, di innovazioni sociali, di saperi e pratiche tecnorurali, di rinnovati modi di fare welfare e di interagire con l’ambiente.
2. Tutto questo rischia però di rimanere una banale e ineffettuale petizione di principio se non cambiano le culture e gli immaginari, i grandi quadri concettuali di riferimento. Paradossalmente questo Paese, malgrado il suo incredibile mosaico paesaggistico e ambientale, non ha mai coltivato un’idea di integrazione tra le sue parti, privilegiando rappresentazioni del Paese dicotomiche e oppositive. Come in molti sosteniamo da tempo, serve una nuova visione metromontana, fondata sull’interdipendenza e la cooperazione dei diversi sistemi territoriali. Del resto, prima della modernizzazione novecentesca, questo era sempre stata la modalità di funzionamento storica del policentrismo italiano. Questo della metromontanità è il nodo centrale, che può permettere di superare lo stallo della contrapposizione tra visioni urbanocentriche e localistiche. Qui non è un tema di progettare le aree interne come fossero un recinto a sé stante, ma di prefigurare un progetto complessivo sul tema del Riabitare l’Italia».
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Bergamo

Forse può essere assunto come atteggiamento opposto e competitivo allo sguardo verso le zone interne quello del sindaco di Firenze, che sembra muoversi come se Firenze fosse l’unica città che ha vissuto il lockdown e la pandemia. Siccome Firenze  ha avuto una disastrosa assenza di turisti e quindi una clamorosa assenza di tasse di soggiorno nelle casse comunali, il sindaco Nardella fa appello alle organizzazioni e alla solidarietà internazionale, come nel caso dell’alluvione (!!!) e  propone la ‘città d’arte’ come una categoria dello spirito (e come se Firenze fosse l’unica o la prima) e arriva a proporre forme di defiscalizzazione che ricordano la zona franca da decenni rivendicata da alcune forze politiche in Sardegna. Perché occuparsene? Per il fatto che si tratta di un antagonista nelle politiche di orientamento dello sviluppo, e per il fatto che fa diventare il ‘centralismo fiorentino’, stigmatizzato già in Toscana da tutte le province e città, una sorta di ombelico del mondo. Mentre si insiste dal punto di vista del riequilibrio territoriale, sul fatto che città e zone interne debbano dialogare ed interagire, questa posizione invece volta le spalle a tutti ed apre una sorta di battaglia per le risorse in cui l’obiettivo rischia di essere non la città d’arte ma la città dei commercianti del centro, ormai sottratta alla comunità territoriale da decenni. Le città d’arte devono anch’esse volgere lo sguardo al loro territorio, senza il quale storicamente non sono nulla, e progettare insieme. Se c’è una città colpita in Italia è Bergamo ed è anch’essa una città d’arte. È lì che c’è stata l’alluvione del virus.

Dopo la pandemia, tra regioni e città, gli ombelichi del mondo si sono vistosamente moltiplicati. Basterebbe dare uno sguardo – nelle pagine che seguono – al Manifesto della Rete delle Associazioni – Comunità per lo Sviluppo che viene dalla Sardegna, per vedere un’altra Italia e altri progetti.

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Paolo Giordano (ph. Daniel Mordzinski)

 Il ritorno ‘infelice’ [7]

 Da dove torniamo? Torniamo dalla esperienza della clausura, si potrebbe dire ‘torniamo da casa’. Scrive Paolo Giordano ne Il ritorno a noi stessi [8]

Torniamo «Da un luogo in cui, seppure chiusi ognuno nella propria casa, eravamo tutti insieme, un luogo dove formavamo una totalità. Metterci in contatto con un destino più largo è l’esito momentaneo di ogni grande catastrofe …siamo appena stati parte di una delle avventure più condivise che l’umanità abbia vissuto, forse la più condivisa in assoluto».

Ho condiviso questa sensazione. È quella che a molti ha fatto pensare che ‘dopo’ sarebbe cambiato se non tutto almeno tanto della nostra vita. La gigantesca condivisione mondiale del distanziamento e dei presidi elementari anticontagio ha fatto un grandioso, benché doloroso, effetto ‘umanità: siamo noi, il mondo grande e terribile, ci somigliamo abbiamo un destino comune. Ciascuno di noi all’inizio della clausura da pandemia ha fatto una scelta: credo, benché stupefatto che il virus esista veramente e che io la mia famiglia la mia città il mio Paese l’Europa il Mondo possiamo venirne contagiati se non accettiamo le regole suggerite dai governi e dai virologi, dalle Nazioni Unite nella fattispecie dall’OMS. Non è una cosa banale visto che connette religioni diverse e popoli in guerra tra loro. Anzi dice anche che viene prima la salute dell’umanità e poi le ragioni della guerra. Lo dice anche se non tutti lo fanno (in Libia temo che non sia successo). Questa scelta l’ho fatta in modo intuitivo, come l’hanno fatta tanti, tutti quelli che hanno scritto in queste pagine ad esempio. E non era scontato.

In molti rappresentiamo frazioni di generazioni ribelli almeno negli anni 60, 70, 80 e perfino 90. Eppure non abbiamo detto che il nemico è il governo, o l’imperialismo o il neo-liberismo, abbiamo detto che il nemico è il virus. E anziché manifestare per le strade siamo stati in casa a fare il pane, bricolage domestico in arretrato, relazioni sociali on line. In Italia questo effetto di unità nazionale popolare non è frequente e per averlo come riferimento in modo massiccio occorre pensare all’esperienza della guerra e del ritorno a casa o dell’esser stati a casa a bombardamenti finiti, a figli ritornati, a cibo-lavoro-vita da ricominciare. Anche a ricominciare a dividersi dopo che eravamo stati uniti dalla paura, dal dolore, dalla morte. È quell’esperienza di comunità legata all’essere sopravvissuti che Calamandrei chiamò “popolo dei morti”, nel senso che la consapevolezza e la volontà di creare una nuova Italia si fondò non solo dall’essere diventati antifascisti, ma dall’avere vissuto una guerra distruttiva, dal desiderio di uscirne. Con calma e pazienza vorrei approfondire il nesso tra il nostro ‘lockdown’ collettivo e la riflessione di Leonardo Paggi sulla nascita della democrazia dopo la Seconda guerra mondiale, nel suo libro che ha lo stesso titolo della frase di Calamandrei Il popolo dei morti, con il sottotitolo La repubblica italiana nata dalla guerra (1940-1946) [9].

Perché questo paragone, assai più utile di quelli bellici che hanno largamente circolato nella stampa e nella TV, ci aiuta anche a capire l’andamento del ritorno alla vita, quello che Paolo Giordano sente precario, difficile, ancora pieno di un lutto non risolto, e come il passaggio da un momento grande terribile e comune a una vita quotidiana dispersa e plurale, dove ognuno rischia di essere contro l’altro. Di capire il passaggio a quel che già abbiamo visto: la destra politica che usa la piazza, l’estrema destra fascista che esibisce il suo ‘me ne frego’ non usando la mascherina, un pazzesco movimento diretto da un generale dei carabinieri a riposo che nega l’esistenza del virus e che condivide questa posizione con una parte del movimento no vax.  Non è mancato anche nella sinistra qualche radicalismo iniziale, in specie per l’infelice uso da parte di Agamben della immagine della società del controllo in connessione con il virus (il virus pretesto per una società del controllo) che si è poi estesa con il dibattito sulle app di controllo dei contatti (Immuni). Nella politica ufficiale di sinistra oggi manca la fantasia, l’inventiva, il coraggio che fu del mondo all’uscita della guerra. Ma forse anche quello venne in itinere, anche se – di certo – il fascismo aveva prodotto un modello forte in negativo al quale opporre una società nuova, mentre questo il virus non lo può fare. Quel poco che è certo è che anche le forti implicazioni di critica allo sviluppo indifferente alla vita del pianeta che il virus ha suggerito non sono oggi al centro del modello di società futura, per la quale invece in fondo ognuno cerca di ritrovare il suo spazio di prima.  

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Isola Dovarese (Cremona), piazza Matteotti

Le voci dei piccoli paesi: il silenzio e le ambulanze  

Arrivano i racconti che ho chiesto per Dialoghi Mediterranei sul vissuto del virus nelle zone interne (non tutte, qualche città anche, qualche periferia urbana) e portano una sensazione di verità. Segni, ricordi di mondi sospesi, nuove e remote sonorità. Più forti sono i testi vicini all’epicentro del terremoto virale. Simone Mizzotti da Crema (qui nello spazio Immagini) mostra le sue foto che si fanno scure quando gli zii si ammalano e muoiono, come il fiore delle fiabe che quando appassisce segnala all’eroe il malessere e il bisogno di aiuto del/della deuteragonista. E Luciano Sassi da Isola Dovarese, racconta i rumori che si spengono, ‘il silenzio delle campane’ e in questo deserto sonoro compaiono i nuovi minacciosi rumori degli elicotteri e delle ambulanze che diventano ossessivi portando tracce di tragedia e annunci di morte.

Pian piano le testimonianze si fanno più lontane dall’epicentro e tutte testimoniano il senso di comune timore, di comune dolore, che ci ha spinto a stare nella case e a mascherarci, a tenere distanze inconsuete affettivamente inaccettabili.

Claudio Rosati ci ha raccontato la montagna pistoiese raccogliendone le voci: è partito da casa, dalla città: «Nello spazio urbanizzato, di colpo silenzioso, la natura si riprende ora, per quanto possibile, quello che le abbiamo sottratto». Nuove sonorità di uccelli in città, ma poi nella montagna le voci, i racconti, parlano del rischio che cresca troppo la fauna ‘nociva’ che i cacciatori ormai non abbattono, che ricompaia il lupo.  Rosati ci invita ad immaginare che gli animali si chiedano dove siano andati a finire gli uomini. «E gli sembrerà una festa. Isolati nelle nostre case di città, se il pensiero ci consola, pensiamo alla felicità della montagna che per qualche tempo si libera finalmente di noi». 

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Borgo San Lorenzo, Firenze (ph. Luca Bertinotti, 2020)

Scendendo ancora verso Sud, Paolo Nardini racconta la periferia di Grosseto, il paese quasi urbano dove si vanno cercando le tracce di una comunità interrotta dal silenzio del virus. Le strade di passaggio verso il mare, i turisti, i bar, i punti di ritrovo scompaiono: «da metà di marzo in avanti, mi ha impressionato il non-passaggio delle macchine. Né di giorno, né di notte. Non passava nessuno. Dalla finestra vedo almeno un paio di chilometri di strada, e di notte, con i fari, le automobili si vedono ancora da più lontano. Scrutavo l’oscurità, ma non vedevo, come mi aspettavo, i fari che si avvicinavano. Questo silenzio, questa assenza, mi dava il senso di un tempo sospeso, dell’attesa di qualcosa che aspettiamo che passi… ma non sappiamo quando». Ancora più a Sud è Eugenio Imbriani a raccontare il paese di Arnesano, contiguo a Lecce, la quasi coincidenza tra Quaresima e lockdown (così come la Pasqua senza Resurrezione dei viventi e il 25 aprile senza Liberazione) e la storia del Crocefisso miracoloso. La quarantena è occasione di racconti, anche di leggende: «Quaresima e Pasqua senza riti partecipati con la nuova abitudine, presto acquisita, di seguire messe e liturgie in televisione o in streaming. Assai più strana, per me, è stata la rinuncia ad accompagnare i morti, la necessità di accettare che se ne andassero e basta, portati via da estranei, senza visite e cordoglio condiviso, sottratti ai vivi quasi senza mediazioni».

«Da Mezzojuso a maggio, mese dei primi calabroni e delle api, degli insetti nel bosco e dei fiori» scrive Nicola Grato, con una riflessione a tutto campo sul paese: «Un luogo dove attivare e coltivare la fantasia è il paese e noi, volenti o nolenti, col paese dovevamo confrontarci. Con la sua residualità, con l’abbandono e con lo scoramento. Eravamo pietra arenaria delle case, gesso, roverelle abbandonate, castagneto e insetti che lo rovinano. Eravamo soli in un paese solo, nonostante le connessioni, i legami, le videoconferenze»: E così nasce un piccolo circuito di valorizzazione e scambio dei prodotti locali, l’olio, gli ortaggi, la riscoperta di non essere il margine di altro, ma il centro della propria vita. Arriviamo in Sardegna, ad Armungia: il silenzio qui non è improvviso, è consueto, e la maggiore libertà di movimento legata alla contiguità tra paese e campagna non ne nasconde la marginalità, così che a maggio la ripresa è ancora una volta centrata sulla città, difficile credere a una svolta:

«Si fosse visto un giornalista recarsi in un piccolo Comune di provincia a chiedere a un barista quale significato potesse avere per la comunità la sua riapertura, o a un medico di famiglia dello stesso Comune come avesse operato di fronte all’emergenza sanitaria, sarebbe certamente finito tra le categorie dei tipi strambi a caccia di stramberie. Si legge qualche intervista a qualche sociologo, o architetto, convinto sostenitore della tesi dell’inevitabile rivincita delle campagne, ma il grande racconto dell’Italia dalla città comincia, sulla città si concentra e dalla città non sembra muoversi» (Alberto Cabboi).
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Barego, comune di Bargagli, Genova (ph. Luca Bertinotti, 2020)

E poi ci sono altre voci, via via arrivate, dal Friuli (Morandini), dalla Toscana (Tozzi- Fantacci) e  da Monticchiello (Giglioni e Rossi), dall’Abruzzo (Ranalli), dalla Basilicata (Vitelli e Berardi ), dalla Sicilia ancora (Burgaretta e Cangemi), dalla Sardegna più a nord (Seddaiu), non mi riesce di darne conto, ma si presentano come una polifonia con forti tratti comuni, sulla quale continuerò a lavorare in futuro per ricostruire il panorama dello spazio/tempo anomalo che abbiamo vissuto in questi mesi.

Ci sono altri interventi che lanciano già i temi del futuro o analizzano processi in corso (Van Aken, Zucca, Molinari, Bacciu-Malavasi) e infine temi che riprendono – ponendo però la pandemia nel loro orizzonte – la linea più classica de Il centro in periferia pre-clausura e distanziamento sociale.

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Apice (Benevento), set del film Il bene mio

Qui segnalo la ripresa del dibattito sui musei e il territorio con tre testi (Colombatto, Paffi, Andrea Rossi) davvero interessanti per dimensioni, orizzonti e prospettive. E segnalo infine due testi su realtà locali e comunità assai diverse (Malgeri, Bertinotti).   L’uno descrive una esperienza di costruzione di comunità in Calabria, raccontata tramite una intervista, l’altro un tentativo di fare il punto, oggi, davanti alla pandemia, su uno dei più longevi insediamenti comunitari centrati sulla critica della civiltà dei consumi, quello degli Elfi del Gran Burrone. E infine un contributo su un film dedicato ai paesi e al Sud, Il bene mio di Mazzapesa, in cui Vita Santoro riprende il filo del cinema e dei documentari che pongono il Centro in periferia. Ringrazio tutti della straordinaria collaborazione e dei testi inviati che per me saranno ancora a lungo una compagnia e una fucina di riflessione. Mi girano tra gli occhi e la mente parole lanciate che cambiano valore e senso: silenzio-rumore; tempo sospeso – tempo lungo – tempo convulso; spazio ampio-spazio-stretto, alterazione tempo spazio-ripensarsi o rifugiarsi, perdersi o ritrovarsi. Luoghi, orti, boschi, cibi. Modifica dello spazio-tempo quotidiano. Confine. E la domanda più inquieta di tutte: che sarà domani?

Chissà se ci possono soccorrere le parole di Giulio Giorello del 4 giugno, per la newsletter de La Lettura, quando, tornato a casa il 17 maggio, credeva di avere vinto la sua battaglia. Penso che nelle parole ultime ci sia sempre un messaggio più forte per senso, per visione. Il senso di essere un reduce, protagonista di una resistenza. Il timore di uno ‘Stato medico’ che, al di là delle intenzioni, possa andare oltre il rispetto del paziente e del cittadino. L’idea che la guerra sia una metafora e che deve essere presa sul serio per aprire nuove frontiere contro i mali che affliggono i vari popoli del mondo. Prendiamone almeno un messaggio, facciamolo nostro, perché anche la sua resistenza continui, attraverso di noi.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note

[1] E. De Martino, Mito scienze religiose e civiltà moderna, in Id., Furore simbolo e valore, Milano, Feltrinelli, 1962
[2] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-03/papa-francesco-omelia-testo-integrale-preghiera-pandemia.html
[3] In E. De Martino, Furore simbolo valore, Milano, Feltrinelli, 1962,
[4] Donzelli editore, Saggine, dal 2 luglio 2020
[5] Risultavano invitati oltre a Boeri, Baricco, Fucsas, Tornatore, A.M.Ricci per la Fondazione Sommelier, Stefano Massini scrittore, Elisa cantautrice, e Monica Guerritore
[6] Su Ag/cult 5 giugno 2020
 [7] È  anche il titolo, non lontano nello spirito da questo uso, di un libro di Antonino Cusumano sul ritorno degli arabi in Sicilia nella modalità di migranti (Sellerio, 1976)
[8] Il Corriere della Sera supplemento titolato Speciale coronavirus. In memoria, 8 giugno: 23
[9]  Bologna, Il Mulino, 2009

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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