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Appunti sulla storia linguistica dei Siciliani di Tunisia
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:39 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Luca D’Anna
Cenni storici e sociali
La storia sociale e linguistica dei cosiddetti Siciliani di Tunisia si iscrive in quella complessa rete di relazioni fra la sponda Nord e quella Sud del Mediterraneo che sfugge ad ogni tentativo riduzionista di catalogazione in paradigmi binari. I rapporti di forza tra le due sponde, infatti, sono stati caratterizzati da una sorta di moto ondivago che, nel lungo corso dei secoli, ha portato ciascuna delle due sponde a guardare verso l’altra talora con timore, talaltra con ambizione, più spesso con un misto di entrambe.
La storia dei Siciliani di Tunisia rappresenta, in questo contesto, una curiosa piega degli eventi che portarono, nella prima metà del XIX secolo, le maggiori potenze europee (alle quali si accodò, da Cenerentola, l’Italia) ad assoggettare i Paesi che si affacciavano sulla sponda del Mediterraneo (e non solo), in una corsa all’accaparramento di risorse che il cosiddetto fardello dell’uomo bianco, ossia la supposta missione civilizzatrice occidentale, rivestì di una tenue patina ideologica.
Proprio negli anni in cui in Europa prendevano forma i progetti di espansionismo militare che avrebbero trovato sfogo nel periodo coloniale, dunque, gruppi sparuti di privati cittadini siciliani maturarono la decisione di cercare miglior fortuna su quella stessa sponda sud, ma in maniera del tutto pacifica, da immigrati. La storia di questo fenomeno è stata oggetto di numerosi saggi, ai quali in questa sede ci limiteremo ad accennare, date le ristrette competenze storiografiche di chi scrive.
Una prima presenza italiana in Tunisia è già ravvisabile nel XVIII e XIV secolo, durante l’ultimo periodo della guerra di corsa. Molti schiavi liberati, convertitisi già da tempo alla religione islamica, decisero infatti di rimanere nel Paese nordafricano, spesso mettendo le proprie competenze al servizio del Bey. Questa prima comunità, la cui presenza non fu all’inizio volontaria, fu affiancata da una cospicua emigrazione di ebrei livornesi, i cosiddetti Gurnia (forma plurale dell’etnonimo gurni, a sua volta derivabile da Livorno a seguito di un processo noto come deglutinazione della prima sillaba, erroneamente percepita come un articolo determinativo a causa della sua somiglianza con l’articolo əl- / lə-[1] dell’arabo tunisino).
A questi due gruppi se ne affianca, durante il Risorgimento, un terzo composto principalmente da esuli politici. Nonostante quest’ultimo gruppo non sia numericamente paragonabile ai primi due, esso riveste una importanza fondamentale, a ragione del suo spiccato attivismo politico e culturale, del quale l’intero Paese trasse notevole giovamento. Il rappresentante più illustre di quest’ultimo gruppo fu forse Giulio Finzi, il cui negozio di cartoleria si sarebbe poi trasformato in una casa editrice tuttora attiva, responsabile della pubblicazione di alcune delle opere citate in questo breve saggio (Gianturco & Zaccai 2004: 29-33).
La presenza italiana continuò a prosperare anche dopo l’unificazione del Paese e la nascita del Regno d’Italia, grazie ad una serie di trattati firmati tra i due Paesi, in particolare da parte del Bey Muḥammad aṣ-ṣādiq. Erano gli anni in cui si vociferava di una possibile espansione coloniale italiana in Tunisia, prima della doccia gelata costituita dall’occupazione francese del Paese nel 1881. È questo il momento in cui inizia il lento ma inesorabile declino della comunità italiana, a quel punto costituita da mercanti, agricoltori, liberi professionisti e proprietari terrieri (Salmieri 2003).
I primi cinquant’anni dell’occupazione coloniale francese non influirono negativamente sul trend demografico della comunità italiana, che continuò a crescere fino a raggiungere oltre 90 mila unità nel 1931. Le misure sempre più discriminatorie dell’amministrazione coloniale francese, continuate poi da quella tunisina nel periodo successivo all’indipendenza, convinsero però gli italiani della necessità di un rientro in Italia. Negli anni Ottanta, ormai solo poche migliaia di italiani continuavano a vivere in Tunisia, numero che si è progressivamente assottigliato, mettendo di fatto fine ad una esperienza di coesistenza pacifica e feconda durata due secoli (Gianturco & Zaccai 2004: 63).
Da un punto di vista sociale, la posizione dei siciliani (e degli italiani tutti) di Tunisia era alquanto peculiare, magistralmente descritta dallo storico tunisino Memmi:
Gli italiani di Tunisia non furono, dunque, colonizzatori né colonizzati, ma una insolita via di mezzo che stabilì contatti molto stretti con i tunisini, testimoniati dai rapporti di amicizia e dai matrimoni misti che, seppure non frequentissimi, non furono neppure rarissimi. Tale vicinanza è testimoniata inoltre dal ricchissimo repertorio linguistico della comunità italiana di Tunisia, che sarà oggetto della prossima sezione.
Il repertorio linguistico degli italiani di Tunisia
Secondo Salmieri (1986: 41-42), il repertorio standard della comunità italiana in Tunisia comprendeva addirittura 6 varietà linguistiche, ossia italiano, siciliano, arabo, francese, maltese e giudeo-arabo. Sebbene l’effettiva consapevolezza di una distinzione fra arabo musulmano e giudeo-arabo sia alquanto dubbia [2], la presenza di tutte le altre varietà è stata confermata, a più di cinquant’anni di distanza dal rientro in Italia, dalle interviste condotte nel 2019 presso i membri della comunità che oggi vivono prevalentemente nelle aree del litorale laziale.
La cosiddetta “lingua” dei siciliani (o degli italiani) di Tunisia è stata spesso oggetto, specialmente da parte di non specialisti del settore, di teorizzazioni alquanto azzardate. Si trattava, in realtà, di una situazione di polylanguaging abbastanza marcato, che variava a seconda del contesto sociale in cui l’interazione linguistica avveniva e che ha inoltre seguito una ben precisa traiettoria nel tempo.
In un primo momento, siciliano e italiano furono senza alcun dubbio le uniche varietà parlate all’interno della comunità, la quale si trovò tuttavia esposta ad un crescente influsso del francese. Durante molte delle interviste condotte, membri della comunità che vivevano in Italia ormai da diversi decenni continuavano a conversare tra loro in francese, con fenomeni di commutazione di codice frequenti in diverse direzioni. L’arabo entrò lentamente a far parte di questo repertorio in virtù degli stretti rapporti sociali esistenti fra membri della comunità e nativi tunisini. Si trattava, è giusto sottolineare, dell’arabo dialettale tunisino. L’arabo classico e standard, studiato a scuola da alcuni non ebbe mai una presenza reale all’interno del repertorio linguistico, ma servì ad alcuni a maturare competenze linguistiche di lettura e scrittura, in certi casi tuttora preservate nonostante la massiccia erosione linguistica.
In questa varietà linguistica composita, frutto della mescolanza di diversi codici, furono redatti giornali, opere comiche teatrali e altri generi di documenti scritti, i quali sono stati oggetto di studi approfonditi (Zlitni 2015a; Zlitni 2015b). Sarebbe tuttavia errato, nell’opinione di chi scrive, utilizzare tali documenti per la ricostruzione della varietà originariamente parlata dalla comunità. Si tratta, in molti casi, di testi dall’intenzione volutamente comica, nei quali la figura del contadinotto siciliano ignorante che biascica frasi in arabo sconnesso è specificamente costruita per suscitare il riso. L’utilizzo di tali fonti per ricostruire la varietà parlata dalla comunità è ancor più ingiustificabile nel momento in cui parlanti appartenenti a tale comunità sono tuttora in vita e desiderosi che la propria esperienza storica, linguistica e sociale venga documentata e strappata all’oblio. Si veda, ad esempio, la distanza che intercorre fra questi due brevi testi:
Il primo caso rappresenta la varietà sgrammaticata, fortemente comica, ritratta sui giornali satirici dell’epoca e possibilmente utilizzata dai membri della comunità con competenze linguistiche limitate. Il secondo, al contrario, rappresenta la produzione orale di un parlante ultraottantenne da me intervistato nel 2019, il quale, nonostante il mezzo secolo trascorso, era ancora perfettamente in grado di esprimersi in un dialetto arabo tunisino corretto e sostanzialmente assimilabile a quello di un parlante madrelingua.
La varietà sgrammaticata era, del resto, conosciuta anche dagli stessi parlanti intervistati, i quali se ne servivano anch’essi a scopo satirico, come in questa barzelletta che sfrutta la somiglianza tra il verbo siciliano sciaurari “odorare” e il tunisino išāwər “chiedere consiglio”:
Questa barzelletta, che mostra una conversazione surreale tra un contadino tunisino e il suo vicino siciliano dalle limitate competenze linguistiche, è stata raccontata da un parlante che si esprimeva, per il resto, in un dialetto tunisino assolutamente corretto.
L’espressione tunisina probabilmente più usata dai membri della comunità che ho avuto modo di intervistare era yā ḥasra “peccato!”, testimonianza di una nostalgia incancellabile per la Tunisia. La stessa espressione potrebbe essere usata in riferimento all’occasione scientifica mancata negli anni 60 e 70, quando le interviste ai membri più vecchi della comunità avrebbero potuto svelarci tutta la ricchezza storica, sociale e linguistica della comunità appena espulsa (o rientrata). Di quella straordinaria ricchezza, oggi, rimangono solo pochi scampoli, che è dovere del ricercatore salvare dall’oblio incipiente con disciplina e rigore scientifico, rifuggendo dalle tentazioni folkloristiche e banalizzanti che spesso hanno caratterizzato gli studi linguistici sul repertorio della comunità italiana di Tunisia.
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