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Appunti su un percorso analitico del presente: discutere la globalizzazione a scuola
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2020 @ 01:43 In Cultura,Società | No Comments
«Può essere che i cambiamenti stiano avvenendo troppo velocemente [...]. O, forse, gli effetti collaterali del progresso sono semplicemente diventati troppo evidenti. Abbiamo a nostra disposizione storie chiare e didatticamente cristalline della nostra transizione da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori, così come della rivoluzione industriale. [...] Non esiste, invece, alcuna storia simile che riguardi la società dell’informazione globale e dove si sta dirigendo» (Eriksen, 2017: 18).
La velocità del presente, quella fluidità che più volte è stata descritta e sondata dall’acuto sociologo della contemporaneità Zygmunt Bauman, la natura liquida con la quale mutano, si mescolano e scorrono tutti i fenomeni che definiscono l’uomo contemporaneo, dalle forme di socialità alle pratiche produttive, dagli spostamenti alle comunicazioni, li rende di difficile lettura, di ardua comprensione, sfuggenti a un’analisi che necessita di essere compiuta in itinere, giorno per giorno, di riformulazione in riformulazione.
La realtà attuale, per il mondo occidentale e non solo, scorre attraverso un fitto sistema di interconnessioni nazionali e internazionali, di scambi, di omologazioni vere o tentate, di comunicazioni continue e immediate, del tutto e irrevocabilmente slegate dai tradizionali concetti di distanza e di tempo. È un sistema, quello in cui ci muoviamo, di incastri simbiotici e osmotici che riguarda ogni aspetto del vivere, un processo che muove dal mondo economico del mercato e della produzione per tradursi poi in una dimensione socioculturale totalizzante e pervasiva: si tratta della globalizzazione che, a partire dagli anni ’80 e sotto la spinta della terza rivoluzione industriale, ha accelerato le sue evoluzioni trascinando con sé anche quella riformulazione sociale che riguarda le esperienze dei singoli ancor prima che le leggi di mercato.
Con il termine globalizzazione, sempre più legato all’immagine del contemporaneo tanto da essere divenuto uno specchio riassuntivo del tutto che ci circonda, si indica a partire dagli anni ’80 un complesso di manifestazioni, più precisamente dal 1983 quando in un articolo intitolato Globalization of Markets, pubblicato sull’ Harvard Business Review l’affermato economista Theodore Levitt, utilizza questa parola, già diffusa nel settore, per definire un insieme ampio e diversificato di fenomeni correlati all’incremento economico, alla crescita sociale e all’amplificazione culturale che intercorre e connette in una rete di reciproche dipendenze le diverse realtà geopolitiche mondiali. La globalizzazione è dunque l’espressione, il processo in continua evoluzione, di omologazione e di interdipendenza, dei mercati nazionali e internazionali e delle singole economie statali, che si srotola su scala planetaria, uniformando, o tentando di uniformare, le esigenze e le differenti modalità produttive che connotano le specifiche realtà geo-culturali, senza tenere conto, il più delle volte, degli effetti negativi dell’innaturale appiattimento provocato dalle teorie economiche e dalle politiche più forti su scala mondiale.
Sotto il profilo sociologico sono invece Martina Albrow e Elizabeth King (1990) tra le prime a dare una definizione della globalizzazione, indicandola come il complesso dei molteplici processi che inducono le persone di tutto il mondo a essere incorporate, inglobate, entro una complessiva società globale. Anthony Giddens, sociologo e esperto di politica, sostiene che la globalizzazione può essere definita come l’intensificazione delle relazioni sociali globali, relazioni capaci di collegare tra loro località distanti, strette in un rapporto di reciprocità tanto che i fatti locali si modellino sulla base di eventi verificatisi in luoghi anche molto lontani, e viceversa. La globalizzazione viene delineata da Giddens non come un processo innescatosi in tempi recenti e presto dilagato, ma come la radicalizzazione di uno stile di vita già presente ma sopito nelle sue espressioni e temperato nelle sue possibilità.
Muovendoci lungo i margini del profilo strettamente storico, la globalizzazione, oltre a portare in sé tutto il bagaglio del colonialismo, dall’imposizione di un potere esterno fino all’usurpazione delle risorse e del capitale umano, è l’esito di un percorso che possiamo iniziare a seguire a partire dalla prima Rivoluzione industriale con la massificazione produttiva e dei lavoratori, passando poi per la seconda, caratterizzata da un marcato sviluppo tecnologico, dalla corsa alle fonti energetiche e dal diffondersi di mezzi di comunicazione e di trasporto, forieri dello sviluppo del commercio globale, degli spostamenti più rapidi e frequenti, delle migrazioni economico-lavorative per giungere infine alla terza Rivoluzione industriale che dall’innovazione tecnologica conosce in fretta l’irruzione dei mezzi informatici non più confinati al mero ambito finanziario e commerciale, ma precipitati nel vissuto personale e quotidiano di milioni di utenti su scala planetaria, entrando con i computer, internet e tutti i dispositivi di continua creazione ed evoluzione che occupano le nostre giornate. Così, anche al di fuori della dimensione lavorativa, l’individuo è trascinato e coinvolto nella rete globale per la totalità del suo tempo, investito e travolto da un’overdose di informazioni, indistintamente vere o false, come illustra lo storico Tom Nichols (2018), frastornato ed illuso con la promessa di una fittizia, universale, parità che si traduce troppo volte in una chimera da inseguire tra un incantesimo e una frustrazione.
Quel che concerne l’uomo riguarda però, in un continuo gioco di rappresentazioni, la dimensione comunitaria più estesa. «La nostra ragione, infatti, non è una facoltà trascendente, fa parte del mondo e, di conseguenza, subisce la legge del mondo», come ha insegnato Durkheim (2008:562). All’interno della complessa e incorporea sfera della globalizzazione si attuano non solo processi che attraversano e condizionano la vita quotidiana dei singoli individui, ma s’inverano soprattutto dinamiche di interdipendenza tra Paesi e mercati basati sullo scambio di beni e servizi e sul movimento di persone, beni, capitali, culture e conoscenze tecnologiche, un coinvolgimento dunque ben più pervasivo di quanto non possa esserlo quello strettamente individuale e percettivo.
Pur connesso principalmente ai rapporti finanziari, il complesso della globalizzazione, in realtà, interessa ogni aspetto e ogni spazio del vivere e del pensare contemporaneo comportando l’acuirsi dei dislivelli internazionali relativi all’economia e alla qualità della vita.
Così il sociologo Bauman (2014: 83-84) spiegava i meccanismi che alimentano la globalizzazione, nata in seno al modello di sviluppo occidentale e alla radici delle mobilità che le nuove tecnologie hanno attivato e favorito. Così questo modello, relativo al rapporto tra l’uomo e il lavoro o tra l’individuo e ciò che valuta come personale traguardo al quale ambire, si diffonde a livello internazionale, indifferente alle specificità sociali, culturali, economiche e ambientali che hanno caratterizzato il mondo prima della spinta omologatrice della globalizzazione.
Il potere economico detenuto dalle principali multinazionali mondiali ha fatto sì che nelle mani di questi colossi finisse la possibilità di influenzare, attraverso le proprie decisioni e i propri investimenti, le sorti sociali di intere regioni del globo, spesso ricche di risorse da sfruttare e sempre più impoverite e deprivati sul piano dei diritti umani. «Benchè siano soprattutto i conflitti politici, vecchi o nuovi, a ingrossare le file degli sfollati, stanno anche aumentando coloro che sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa di disastri ambientali» sottolinea la sociologa e economista Saskia Sassen (2018: 71). Si delinea così, come nel gioco di sfruttamento delle risorse naturali su cui la globalizzazione poggia uno dei suoi pilastri portanti, coloro che occupano i territori maggiormente erosi dagli interessi dell’economia mondiale si trasformino in esuli espulsi dalle proprie terre, scagliati tra gli ingranaggi del mondo più ricco che troppo spesso li relega al ruolo di emarginati sociali, di indesiderati sfruttabili, di nuovi proletari dell’esercito di riserva del nuovo millennio.
Eppure, come continua a spiegare l’economista statunitense, la realtà è ancora più complessa degli effetti che vediamo srotolarsi giorno per giorno sotto il nostro sguardo e ogni manifestazione attuale affonda le sue radici ben più in là di ciò che può essere temporalmente circoscritto. Come sempre avviene nella storia, il tentativo di risoluzione del debito, spesso maturato per cercare di stare al passo con le infrastrutture e le attività estere, si è tradotto per molti governi in un capovolgimento delle proprie sorti economiche e sociali:
L’attenta analisi della studiosa Saskia Sassen sintetizza così quanto avvinti siano i rapporti tra l’economia statale, quella internazionale e le sorti dei singoli individui che occupano questo o quel posto lungo i confini monetari del mondo globalizzato.
Il Mondo dell’epoca della globalizzazione si presenta in maniera sempre più evidente come spaccato in poli economici, di traino e di rincorsa. «I dualismi sono reali e non immaginari; non sono semplici effetti di una scorciatoia “ideologica”, ma il risultato di un funzionamento o di uno stato specifico della macchina astratta, della segmentazione rigida e surcodificante» (Viveiros de Castro, 2017: 100). Le due realtà, plurali e frastagliate al loro interno, esistono e si affermano l’un l’altra sulla base di una costante reciprocità relazionale. «La loro relazione è propriamente concettualizzata come rapporto di “presupposizione reciproca”» sottolinea Viveiros de Castro (idem:101), spiegando come all’interno dei processi umani e sociali la reciprocità dei ruoli giochi una parte fondamentale nel mantenimento e nella costruzione e definizione dei rapporti che intercorrono tra i diversi attori sociali coinvolti, sul piano delle relazioni prossime così come su quello apparentemente più astratto delle relazioni tra macro-entità umane e sociali, sommariamente sintetizzabili nelle definizioni geopolitiche e statali.
Alla base del potere attrattivo dei Paesi trainanti vi è infatti la capacità, e la possibilità mediatica, di proporre i propri modelli di vita come i soli auspicabili, edulcorando gli aspetti negativi e esaltando le facilità del vivere occidentale.
All’interno dello spazio globalizzato un ruolo di spicco è assunto dalle nuove tecnologie divulgative e comunicative, dai media, quelli tradizionali sempre più in disuso e quelli emergenti, in continua evoluzione e riformulazione. In questo contesto se la rapidità di comunicazione è fattore strutturale e fondamentale nei rapporti economici e commerciali, si è invece trasformato in una necessità collettivamente avvertita di immediatezza, di efficace risoluzione di problemi e di pronto seppure effimero annullamento delle distanze. Il risultato di questo pressare spasmodico dell’immediatezza comunicativa è l’assottigliarsi dello spazio privato, del margine tra l’individuo e la collettività, non solo quella a lui prossima ma globalmente estesa.
Seguendo quella che Foucault (2010) descrive come una griglia permanente, all’interno della quale ogni individuo deve agire entro uno spazio gerarchico affinché la produttività venga mantenuta ai livelli di efficienza ottimale, il sistema economico, che sorregge il complesso meccanismo della globalizzazione, incasella Stati e popolazioni, li incastra in una rete di sfruttamento e di controllo, un rigido reticolato disciplinato dai vertici del potere internazionale, gestito da quei Paesi trainanti che ne governano le funzioni e ne assicurano la vita. «L’incertezza e la vulnerabilità umane sono alla base di ogni potere politico» sostiene Bauman (2014: 55). Occorre dunque indagare la natura e le forme attraverso le quali questo potere si afferma:
Seguendo l’analisi della sociologa Giuliana Sorci, possiamo cogliere il peso effettivo che la realtà informatica riveste sul piano governativo internazionale, e ci si svela così, in tutta la sua imponenza, uno dei canali attraverso il quale il neocolonialismo si è rinnovato e riformulato, assumendo le sembianze odierne, tra vecchi media e nuovi mezzi informatici, fino a determinare i giochi di potere attraverso le immagini offerte e veicolate dai Paesi economicamente più forti, controllando e imponendo in maniera assidua e costante la propria presenza vigile e occhiuta sulla totalità degli utenti mondiali. Le nuove tecnologie promosse dalla globalizzazione danno l’illusione di potere estendere le proprie reti, siano queste relazionali, affettive, lavorative o di rappresentazione, ma permettono anche il dilagare di disfunzioni sociali, di deprivazioni esperienziali e di informazioni fallaci e di raffigurazioni distorte di un mondo che appare raggiungibile e desiderabile poiché ne restituisce una immagine virtuale, falsata e frammentaria.
La globalizzazione, coi suoi sistemi economici avviluppati e piramidali e con la massificazione socio-culturale incentivata dal dilagare mediatico, si rende causa e veicolo di un altro fenomeno che permea il presente:
La globalizzazione esplica i suoi effetti e la sua stessa natura non solo attraverso le più rigide espressioni commerciali, ma anche attraverso quell’insieme di manifestazioni umane che spingono al nomadismo e alle migrazioni, fenomeni che s’impongono nello scenario dell’attualità politica e che sono indubbiamente tra i più incisivi del nostro tempo, sul piano emotivo, relazionale e culturale.
Questi “altri” sono tutti coloro che spinti da guerre, economie devastate, territori dilaniati da quei disastri ambientali di cui troppe volte la parte ricca del mondo si è resa colpevole attraverso lo sfruttamento intensivo e irrispettoso dei territori del Terzo Mondo, si sono trovati a incarnare in sé il concetto di frontiera, di varco, di limite, tutte immagini molto distanti dalla libertà di spostamento di chi è nato nel più ricco Occidente, di chi vede ogni giorno riconosciuti i propri diritti e la propria libertà, a discapito di tutti coloro che invece, incastrati tra le macine dello sfruttamento globalizzato si sono trasformati in “nude esistenze” depauperate del loro valore, della loro dignità e dei loro diritti, gli stessi diritti umani di cui proprio la macchina della globalizzazione si fa promotrice ufficiale su scala internazionale.
A guardar bene, la realtà delle migrazioni contemporanee differisce dalla storica consuetudine umana dello spostarsi, e si è trasformata in una maglia di attraversamenti disperati, imposti dalle innumeri avversità che affliggono i Paesi più sfruttati. «Le migrazioni internazionali di massa sono una reazione all’estrema disuguaglianza mondiale», precisa Paul Collier (2016: 269), uno dei maggiori esperti al mondo di economia e politiche pubbliche, traendo le conclusioni del suo studio che sonda il presente globalizzato.
«Mai come oggi i giovani dei Paesi più poveri sono consapevoli delle opportunità che esistono altrove. [...] La migrazione di massa [...] è una reazione temporanea a una fase difficile, in cui la ricchezza non è ancora globalizzata» (Collier, 2016: 270). I fenomeni migratori contemporanei sono, dunque, lo specchio delle contraddizioni del presente, rappresentano la risposta fisica e sofferta alla disuguaglianza globale. Ma la soluzione a questa diffusa e disperata necessità di spostarsi non risiede, purtroppo, nel buon esito del percorso migratorio, ma nella convergenza economica che può essere costruita attraverso la riformulazione dei modelli societari ancor prima che attraverso le varie forme di distribuzione monetaria, che si traducono in accordi di vassallaggio internazionale a discapito delle popolazioni coinvolte.
Quanto esposto fin qui non intende negare i tanti e importanti aspetti positivi che la globalizzazione ha promosso e continua a profondere. La possibilità di accedere a servizi prima inesistenti usufruendo di progetti internazionali e operazioni di trasversale politica assistenziale, un più facile accesso al mondo dell’informazione e dell’istruzione, una maggiore facilità negli spostamenti e nelle migrazioni più fortunate, e soprattutto la possibilità di affacciarsi su un panorama umano sempre più vasto, sperimentando il contatto, la conoscenza, la scoperta e la condivisione non solo tra individui, ma tra sistemi culturali e sociali, tra saperi e stili di vita che si arricchiscono l’un l’altro in quell’incontro ravvicinato che fa sempre più parte della dimensione urbana contemporanea: sono alcune delle principali fortune che questo fenomeno, tanto controverso quanto prorompente e invasivo, è in grado di alimentare con la velocità che gli appartiene.
Pur sotto il continuo assalto di politiche esclusiviste e di stampo nazionalista, lo stretto contatto tra culture differenti, ormai inscindibile nello spazio metropolitano, dal mondo della scuola a quello del lavoro, da quello della condivisione dei luoghi dello svago a quelli del vivere domestico, permette giorno per giorno di dare vita a una collettività che più facilmente riesce a vedere nell’altro non più una umanità distante dalla propria, ma una compresenza con la quale è possibile, e necessario, interagire e convivere. Tanto più che dando modo a tutti gli attori coinvolti di far proprio quanto di più utile e interessante ogni cultura può offrirci, ci permette di sperimentare cucine diverse e imparare nuove lingue, ci dona la possibilità di essere curiosi e cedere a questa innata dote umana attraverso la conoscenza diretta.
Nel tessuto sociale e urbano rimane alto il rischio di cadere nella gabbia della mera assimilazione culturale, avvilente e portatrice di un impoverimento e di uno spreco ingente del potenziale creativo e innovativo che la globalizzazione ci offre. Ma se si sfugge alle costrizioni impositive di appiattimento collettivo è possibile godere complessivamente di un più largo spettro visivo sui tanti aspetti del vivere, una consapevolezza critica generata dallo scambio dell’integrazione diffusa.
Occorre però sottolineare quanto ancora sia abbastanza facile per i ceti più agiati concedersi la possibilità dei benefici attinti da effettive esperienze interculturali, e quanto sia difficile, invece, per coloro che affrontano la marginalità economica e sociale e si trovano ancora oggi relegati in bolle di sospensione, schizofreniche separazioni interne, ghettizzazioni ed esclusioni. Aumenta così anche la spaccatura tra chi ha la disponibilità economica necessaria a accedere a servizi, istruzione e sanità, chi può vivere in un contesto che lascia spazio all’espansione culturale e alla crescita personale, e coloro che invece, per le ristrette condizioni materiali sono costretti a occupare i bordi della società, a raccogliere le briciole dei servizi e delle infrastrutture, a guardare lo spettacolo della vita degli altri.
È però un processo che può essere corretto attraverso l’istruzione, attraverso la conoscenza e l’educazione alla scoperta, allo scambio, all’apprendimento reciproco, indispensabili e imprescindibili per le generazioni future che entro l’amplissima latitudine della globalizzazione vedranno accorciarsi sempre più gli spazi interculturali e dovranno essere pronte e abituate a cogliere il meglio da questo incontro.
Per comprendere a fondo gli accadimenti del presente, quegli eventi che nel continuum quotidiano prendono le mosse sul piano locale e su quello internazionale per riversarsi nell’esperienza di ciascuno, si impone la necessità non solo della conoscenza degli accadimenti odierni, ma anche di una profonda consapevolezza di quei percorsi storici che hanno condotto la realtà umana attuale, sociale e internazionale, fino a oggi. La storia non può che essere vista come un filo continuo che attraversa popoli, epoche, territori, Stati, uno spago agitato dalle scosse delle esperienze antropiche attraverso il tempo.
I successi dell’umanità, così come le più atroci disfatte delle convivenze umane, affondano nella storia le loro radici e diventa dunque un dovere imprescindibile della scuola fornire agli allievi, di ogni ordine e grado, quelle conoscenze e quegli strumenti di basilare importanza non solo per conoscere il passato, ma soprattutto per comprendere il presente in cui la loro vita si sviluppa e si svilupperà una volta lasciati i banchi delle aule. Educare a interrogarsi sul passato per insegnare una sana e matura consapevolezza di fronte al presente, alla realtà sociale, agli avvenimenti politico-culturali che permeano la vita di ciascuno di noi, è un dovere di fronte al quale non può sottrarsi chi fa del lavoro dell’istruzione la propria vita, e non solo la propria carriera professionale.
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