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Antropologia dei media e diritti umani
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2019 @ 01:59 In Cultura,Società | No Comments
Era il 1914 l’anno in cui Marc Bloch andò in guerra, lasciando, insieme ai suoi amici, il bisbiglio dei corridoi dell’École Normale di Parigi per unirsi al fiume di umanità stipato nelle trincee. Sergente di fanteria, dopo quattro anni memorabili e tremendi, uscì col petto arricchito di cicatrici, di stellette e di decorazioni, ma anche con una più ricca consapevolezza del proprio mestiere di storico e soprattutto con un’insolita curiosità di analisi della costruzione e della diffusione delle notizie.
Le importanti riflessioni di Bloch su questo tema, furono senza dubbio determinate dalla sua particolare posizione di testimone durante gli anni della guerra, in cui lo storico si vide negata la possibilità di verifica esterna e di allargamento del suo campo di visione. Affermò infatti lo stesso Bloch che, durante la battaglia di Marna, si ritrovò nella stessa situazione di Fabrice del Dongo a Waterloo nella Certosa di Parma: «non si sapeva niente né delle dimensioni della battaglia, né della realtà della vittoria al di fuori dei comunicati ufficiali» (Bloch, 1995: XIV). Isolato nella trincea, la sua conoscenza diretta si limitava a qualche centinaio di metri dal fronte. Ma proprio questa limitazione, che avrebbe potuto costituire una debolezza fondamentale, divenne per Bloch lo strumento in cui dare forza alla propria testimonianza e soprattutto per porre le basi per successive interpretazioni non tanto sulla veridicità delle notizie, quanto piuttosto sulla loro falsità, sui meccanismi in cui una falsa notizia attecchisce in una società e in generale sulla costruzione e sul funzionamento delle notizie. Affermava Bloch che:
Veniva così a crearsi per Bloch un programma di lavoro in cui le “false notizie” (o “credenze popolari” come le chiamava lui) erano proposte come oggetto di studio in quanto testimonianze implicite di visioni del mondo. Affermava infatti lo storico che:
È spesso infatti accaduto che falsi racconti abbiano sollevato le folle e che le false notizie, in tutta la loro molteplicità di forme, dalle semplici dicerie alle imposture e alle leggende, abbiano riempito la vita delle persone.
Prendendo spunto dalle riflessioni di Bloch, ma allontanandosi da lui per l’esclusiva analisi delle false notizie, lo scopo di questo contributo è quello di tentare di fornire un quadro teorico entro il quale poter analizzare il motivo per cui alcune notizie, in particolare quelle legate ai diritti umani, riescono a fare presa nella nostra società contemporanea. Per abbozzare un tentativo di analisi, in questo articolo metterò in luce alcuni tra più importanti dibattiti di studio relativi a come le notizie prendono forma. Per fare ciò, prenderò in considerazione alcune delle principali riflessioni che tentano di comprendere e ricostruire possibili strutture comunicative che, a loro volta, consentono il modellamento e la diffusione delle notizie sui diritti umani. A questo scopo mi rifarò, in primo luogo, ad alcuni interessanti ragionamenti di Matthew Powers (2016) in cui delinea i punti di forza e di debolezza dell’attuale paradigma della costruzione delle notizie elaborato in ambito accademico. La finalità generale di questo contributo è però anche quella di tentare di comprendere come stanno cambiando oggi i modi di comunicazione, oltre che individuare chi sono e che cosa fanno gli attori responsabili della creazione e della divulgazione delle notizie anche a livello internazionale.
È noto che oggi le notizie giornalistiche sono solo una delle tante modalità di informazione presenti all’interno di una molteplicità di tipologie comunicative. Inoltre, c’è da dire che ciascuna di queste modalità mediatiche sono interconnesse le une con le altre, oltre che con contesti socio-culturali anche molto lontani geograficamente. L’insieme di queste diverse modalità comunicative danno vita a ciò che Appadurai ha chiamato mediascape (1996), concetto che si riferisce sia al crescente utilizzo di strumenti elettronici e di informazione (come giornali, riviste, stazioni televisive e studi di produzione cinematografica), sia alle immagini raccolte da diversi attori e diffuse tramite l’utilizzo di tali mezzi.
Molti autori (es. Pedelty, 2010; Waisbord, 2011) sostengono che attualmente stiamo assistendo alla convergenza tra due diversi processi: il primo comprende la riconfigurazione del giornalismo “tradizionale”, che in seguito alle crisi economiche degli ultimi anni ha assistito ad una diminuzione delle risorse destinate alla copertura delle notizie estere, alla progressiva eliminazione della figura del corrispondente straniero, alla precarizzazione dei giornalisti e ad un maggiore utilizzo delle fonti online. Il secondo vede un’ampia diffusione delle tecnologie digitali e la nascita di una molteplicità di nuove esperienze comunicative, assenti fino a qualche decennio fa, come blog, giornali online, Youtube, Facebook, Twitter.
Il giornalismo professionale è attualmente sempre più affiancato da altre forme comunicative ibride, prive di una definita dimensione normativa, nelle quali giocano un ruolo importante i corrispondenti stranieri, i giornalisti locali, i blogger diasporici, gli aspiranti scrittori, i fotografi, i viaggiatori e gli attivisti. Insomma è oggi estremamente frequente trovare televisioni e giornali mainstream che utilizzano contenuti video o testuali realizzati da giornalisti non professionisti, creando così uno scenario mediatico complesso, la cui comprensione e descrizione impone, anche all’interno di riflessioni antropologiche, l’utilizzo di nuovi costrutti teorici e di nuovi strumenti interpretativi.
Dal punto di vista delle riflessioni antropologiche, ciò che può essere chiamata “antropologia dei media” è attualmente ancora poco conosciuta sia in Italia che all’estero. In generale però, sin dai primi contributi scientifici a partire dai primi anni Ottanta del Novecento, l’antropologia dei media ha privilegiato uno studio delle forme comunicative di entertainment rispetto ad altre tipologie di prodotti mediatici. La maggior parte di questi studi hanno infatti posto attenzione soprattutto alla televisione, ai film, alla musica e alla radio, e solo marginalmente a temi legati al mondo del giornalismo. Questa mancanza può essere in parte spiegata prendendo in considerazione l’influenza esercitata dai cultural studies, da sempre interessati alle forme mediatiche di intrattenimento piuttosto che al giornalismo (Bird 2010; Hasty, 2010).
Jennifer Hasty (2010), nell’articolo “Journalism as Fieldwork”, cerca di fornire una spiegazione di tale lacuna sostenendo per esempio che, alla luce della somiglianza fra la professione giornalistica e quella antropologica, lo studio delle dinamiche di potere che coinvolgono il giornalismo, avrebbe inevitabilmente portato gli antropologi a doversi confrontare con scomode forme di autorità politico-economiche che tradizionalmente essi tendono a rifiutare quando conducono le loro ricerche etnografiche. Sostiene però Hasty che, al di là delle denunce che hanno animato la disciplina antropologica fin dai suoi inizi (rivolte per esempio al colonialismo, all’autoritarismo, alla burocrazia etc.), gli antropologi sono comunque immersi nelle oscurità del potere in maniera, per certi versi, simile ai colleghi giornalisti (Hasty, 2010: 133).
Nonostante la marginalità del giornalismo come argomento di studio all’interno dell’antropologia dei media, sono state condotte, nel corso dell’ultimo ventennio, alcune interessanti ricerche. I lavori più importanti realizzati fino ad oggi sono per esempio quelli sugli inviati esteri durante la guerra in Salvador di Mark Pedelty (1995), lo studio sui corrispondenti stranieri di Ulf Hannerz (2004), la ricerca sulla stampa in Ghana di Jennifer Hasty (2010) e quella sull’audience di Elizabeth Bird (1998; 2003; 2010). Eccetto i lavori di quest’ultima che si sono focalizzati sui processi di ricezione e circolazione delle notizie, l’oggetto di ricerca privilegiato degli studi di antropologia dei media è soprattutto l’analisi della produzione delle notizie.
Nel 2004, un gruppo di leader Inuit misero in circolazione una petizione in cui delineavano dettagliatamente i problemi ambientali causati dai cambiamenti climatici (Callison, 2014: 23). Essi affermavano che, l’innalzamento delle temperature minacciava la continuazione delle loro tradizionali attività di sussistenza, mettendo contemporaneamente a rischio la loro salute e la loro capacità di vivere nelle regioni artiche. Cercando di porre, in quale modo, rimedio a tale situazione essi stilarono ed inviarono, all’Inter-American Commission on Human Rights, un documento formale di protesta in cui dichiaravano che il governo degli Stati Uniti era colpevole della violazione della Dichiarazione dei Diritti e dei Doveri dell’Uomo del 1948. Per divulgare il più possibile la loro causa e per fare presa dal punto di vista sociale, i leader Inuit parteciparono sia alla produzione di un documentario, sia alla stesura di articoli online in cui spiegavano il loro problema. L’attenzione nei loro confronti crebbe nel giro di pochi mesi. Già alla fine del 2004 le loro proteste fecero eco sia negli articoli online che nei quotidiani, come per esempio nel “New York Times” (Revkin, 2004), e tale diffusione consentì alle comunità native dell’Artico di esporre i loro dissensi nei confronti dei cambiamenti climatici e rendere noti gli impatti che tali cambiamenti avevano nelle loro comunità.
Quello appena descritto è un chiaro esempio di produzione e di divulgazione di una notizia sia sulla sensibilizzazione verso i problemi ambientali, sia sui diritti umani. Gli sforzi dei leader Inuit di costruire un contesto di sensibilizzazione all’interno del quale legare la questione dei cambiamenti climatici a quella dei diritti umani, rientra in ciò che Matthew Powers sostiene essere il nuovo «paradigma delle notizie sui diritti umani» (Powers, 2016: 314).
È facile comprendere immediatamente che l’attuale processo di costruzione e di diffusione di determinate notizie in grado di fare presa dal punto di vista sociale, è certamente diverso rispetto al sistema di costruzione e di diffusione di notizie (di qualsiasi natura esse siano) su cui, come si è detto sopra, Bloch rifletteva. Se quest’ultimo sosteneva la necessità di un mediatore capace di elaborare e di diffondere le notizie, per Powers il nuovo paradigma implica che i sostenitori di una causa e i mediatori che la diffondono possono oggi coincidere. Powers afferma infatti che, nella protesta dei leader Inuit, i tradizionali promotori e distributori di “discorsi sui diritti umani”, ossia le organizzazioni non governative e le agenzie di informazione, non furono in quel caso necessari né all’origine della promozione della questione climatica e delle conseguenti proteste in difesa delle tradizionali attività di sussistenza, né per la loro diffusione. Gli attivisti locali si servirono infatti di semplici tecnologie digitali per diffondere le loro notizie ed aumentare la consapevolezza sociale, anche a livello internazionale, sui loro problemi ambientali. Afferma Powers che, affinché una notizia sui diritti umani possa funzionare, essa deve possedere determinate caratteristiche:
Fornendo una nuova definizione relativa al modo attuale di costruire le notizie sui diritti umani, Powers ragiona anche su come i dibattiti scientifici contemporanei concepiscono rispettivamente i concetti di “diritti umani” e di “notizia”. Riprendendo Foucault (1977), Powers sostiene che le notizie sui “diritti umani” siano costituite da una sorta di “ragionamenti sconnessi” che, a loro volta, prendono le mosse dall’attuale stile narrativo semi-giornalistico che tende a mettere assieme, all’interno di una stessa notizia, diversi argomenti che sono invece propri di contesti differenti:
Secondo Powers le “notizie” possiedono invece altre caratteristiche:
La maggior parte degli attuali dibattiti accademici che analizzano il rapporto tra media e “narrazioni sui diritti umani”, concordano sull’implicazione di un paradigma di costruzione delle notizie caratterizzato dal coinvolgimento di alcuni principali attori: da un lato le agenzie di informazione, che rappresentano il primo veicolo per la stesura e per la divulgazione delle notizie ad un vasto pubblico (Keck, Sikkink, 1998); dall’altro le ONG che, strettamente connesse alle prime, hanno il ruolo di aumentare la sensibilizzazione verso le notizie sui diritti umani (Bob, 2005; Hopgood, 2006). Numerosi sono gli articoli pubblicati (Clarck, 2001; Winston 2001) che tentano di ragionare sulla struttura che tali notizie possiedono, i quali concordano sulla peculiarità di presentare le questioni relative ai diritti umani strettamente connesse alla violazione dei diritti politici (come la tortura e le detenzioni illegali) che si dispiegano al di fuori dei confini europei e degli Stati Uniti. Inoltre, in base a questo paradigma sostenuto da molti studiosi (Gans, 1979), le agenzie di informazione costituiscono le principali istituzioni che stabiliscono le norme e la struttura che tali notizie devono possedere.
Esaminando più approfonditamente ciò che sostiene tale paradigma, non si può fare a meno di notare sia alcuni punti di forza che dei punti di debolezza. Da un lato, l’ampia diffusione di queste notizie può contribuire a sollecitare spinte sociali per la soluzione di determinate questioni legate ai diritti umani; dall’altro tali notizie spesso ricalcano rappresentazioni culturali, soprattutto verso i Paesi extra occidentali, che il target, a cui le notizie si rivolgono, si aspetta di avere (Bob, 2005: 124). In particolare – sostengono Keck e Sikking (1998) – in questa categoria di notizie possono rientrare le cosiddette “informazioni politiche”, le cui caratteristiche principali sembrano essere, secondo gli studiosi, quelle di supportare gruppi strategicamente schierati che sostengono fatti e narrazioni su determinati temi al fine di catturare l’attenzione dei giornalisti prima e del largo pubblico poi. All’interno di questo flusso comunicativo inoltre, secondo Keck e Sikking, le ONG forniscono un assemblaggio di notizie con credibili informazioni capaci di aderire ai valori culturali e alle aspettative del target a cui tali notizie si rivolgono. Come Keck e Sikking annotano: «Both credibility and drama seem to be essential components of a strategy aimed at persuading public and policymaker to change their minds» (Keck e Sikking, 1998: 19).
Altri studiosi si sono invece concentrati sia sui metodi utilizzati dalle agenzie di informazione per raccogliere dati credibili (Clark, 2001; Hopgood, 2006), sia su come le ONG traducono tali notizie al fine di renderle accattivanti (Cottle, Nolan, 2007; Waisbord, 2011), sia sulle conseguenze sociali prodotte dalla diffusione delle notizie stesse (Powers, 2015). Tutti questi dibattiti sembrano mettere al centro della loro attenzione il ruolo giocato dalle ONG e dai news media nel dare forma e sostanza alle informazioni sui diritti umani. Silvio Waisbord specifica come:
Considerando il fatto che le ONG sono state al centro di molta attenzione nei dibattiti accademici soprattutto dell’ultimo decennio (Keck, Sikkink, 1998), il modo in cui gestiscono le notizie sui diritti umani è ancora poco studiato nelle scienze della comunicazione e pressoché inesplorato nelle ricerche antropologiche (a parte qualche eccezione come: Anthropology and Mass Communication di Mark Allen Peterson, 2003). Questa generale lacuna è sorprendente se si considera il crescente numero e la popolarità delle ONG soprattutto negli ultimi anni (Salamon, Haddock, Sokolowski, Tice, 2007), oltre che il progressivo interesse da parte di studiosi verso la comprensione dell’articolato rapporto tra media, società ed attivisti.
Gli studi sulla struttura e sul funzionamento comunicativo delle ONG, hanno messo in luce anche una professionalizzazione degli attivisti sociali. Alcuni studiosi (Alvarez, 2009; Lebon, 1996) hanno infatti valutato criticamente come la diffusione sempre più crescente delle ONG strettamente legate a movimenti sociali e a particolari individui della società, hanno via via incrementato vere e proprie occupazioni stipendiate all’interno di organizzazioni non-profit che lavorano appositamente per costruire e diffondere notizie, prime fra tutti sui diritti umani, che facciano socialmente presa. Inoltre, studi di questo genere hanno argomentato come la stampa sia permeabile ai tentativi della società nell’influenzare il contenuto di molte notizie. Afferma ancora Waisbord che, all’interno di questi spazi:
Questo tipo di notizie determina inoltre il coinvolgimento dei soggetti a farsi promotori, in prima persona, di determinate istanze sociali che essi stessi sostengono e diffondono. Powers infatti ritiene che:
Diversi esempi possono essere forniti a tal proposito. Un caso particolare è rappresentato da Papo Reto, un gruppo brasiliano che utilizza il cellulare per documentare le violenze sociali e politiche nelle favelas a Rio de Janeiro. Questo gruppo è costituito da diversi attivisti, molti dei quali abitanti delle favelas, che non hanno però esperienza né in campo giornalistico, né come reporter né nella realizzazione di documentari. Solitamente, dopo essere venuti a conoscenza di eventi violenti (molti dei quali vedono coinvolte anche le forze dell’ordine), i membri di questo gruppo si recano sul posto in cui avviene il fatto, registrano gli eventi e li diffondono nei social media, in chat private e scrivono testi in cui raccontano gli avvenimenti accaduti. Inizialmente Papo Reto era nato, nel 2014, come gruppo di persone riunite per tentare di assicurare un minimo di sicurezza all’interno delle favelas della città; circa un anno dopo la sua fondazione però alcune ONG, come gli attivisti della Witness con sede a New York, si dimostrarono via via interessati ai contenuti delle testimonianze diffuse da Papo Reto tanto da diventare partner del gruppo.
L’esempio riportato è uno dei tanti casi in cui le ONG si uniscono a gruppi locali che catturano eventi relativi alla violazione dei diritti umani in contesti in cui i media e le ONG hanno difficoltà a raggiungere. Attraverso le collaborazioni tra amatori e professionisti è quindi possibile garantire una documentazione sulla violazione dei diritti umani, catturata in loco e in tempo reale, pronta per essere ampiamente diffusa. Gli sforzi delle ONG consentono anche, come afferma Waisbord, di attirare l’attenzione mediatica rinforzando il contenuto di particolari notizie già create e diffuse precedentemente in cui le documentazioni locali sui diritti umani si inseriscono. Numerose ricerche attestano infatti casi in cui, attraverso tale meccanismo, le notizie sui diritti umani fanno irruzione all’interno di notizie già costruite dalle agenzie di informazione con lo scopo di creare un’ampia eco sociale su determinati fatti. Powers espone, a tal proposito, un esempio:
L’attuale documentazione delle violazioni dei diritti umani
Riprendendo ancora gli interessanti spunti forniti da Powers, un’altra importante caratteristica delle notizie sui diritti umani non è semplicemente quella di persuadere, ma anche quella di documentare le attuali violazioni dei diritti umani. L’analisi del processo di costruzione delle notizie sui diritti umani soprattutto degli ultimi anni, potrebbe aiutare a riformulare delle ipotesi di studio sia in relazione ai contenuti delle notizie, sia in riferimento alle caratteristiche emotive che esse suscitano, sia in rapporto alle evidenze empiriche delle violazioni dei diritti umani. In questo quadro i media sono indispensabili per suscitare vergogna da parte dei violatori, per aumentare la sensibilizzazione del pubblico a cui si rivolgono e per avviare infine ciò che Powers chiama «organizational branding». Le caratteristiche elencate, afferma lo studioso, funzionano simultaneamente come informazione, provocazione e come documentazione di abusi dei diritti umani. Afferma infatti Powers che:
Oggi, sempre più, stanno aumentando gli sforzi affinché le notizie sui diritti umani possano essere utilizzate non semplicemente per catturare l’attenzione verso scenari drammatici, ma anche per mettere in luce problematiche di carattere legale. Le organizzazioni umanitarie dedicano risorse economiche e di tempo per formare attivisti locali preparati a girare documentari. Gli attivisti sono anche istruiti a prediligere particolari luoghi geografici in cui indirizzare la loro attenzione (come per esempio le miniere, le foreste disboscate etc.). Essi sono inoltre preparati a catturare informazioni che non solo massimizzino l’impatto emotivo, ma che forniscano anche informazioni che possano essere utilizzate da gruppi eterogenei composti per esempio da studiosi, da altri attivisti e da altre ONG al fine di incrementare la metodologia di acquisizione e di analisi di informazioni sui diritti umani:
Un’altra caratteristica importante delle attuali notizie sui diritti umani è la diversificazione dei metodi di raccolta dei dati. Dai primi anni Duemila, molte ONG iniziarono ad utilizzare immagini fotografate da satellite. Diversamente dai report di testimoni visivi, tali immagini forniscono una rappresentazione a “volo d’uccello” degli eventi che accadono in quel momento. In questi casi il reporter può quindi avere accesso ad un’ampia panoramica del contesto in cui egli si focalizza. Tale metodologia è inoltre utile per altri scopi, come per esempio nel campo degli interventi militari e dei soccorsi medici per comprendere la peculiarità dei danni causati da disastri umani o ambientali e per stabilire i necessari interventi successivi.
Implicazioni di ricerca
Per concludere vorrei mettere in luce alcune questioni che spero possano suggerire delle riflessioni interessanti. Una prima questione è empirica. Tenendo presente le caratteristiche principali che strutturano le notizie sui diritti umani delineate sopra, alcuni orientamenti di studio possono essere indirizzati verso l’analisi dell’interazione tra le attuali notizie sui diritti umani e i comuni paradigmi sostenuti, fino ad oggi, dagli studiosi. Inoltre, in relazione all’uso dei media digitali, sarebbe interessante approfondire come e attraverso quali canali online circolano le notizie sui diritti umani. Infine, dato che i ricercatori hanno sviluppato analisi solo embrionali su come vengono selezionate ed utilizzate le strategie pubblicitarie per aumentare l’attenzione del pubblico verso determinate notizie sui diritti umani, sarebbe indispensabile comprendere meglio il funzionamento di tali strategie comunicative.
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