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Antonino Mancuso Fuoco. Poetiche naïf e pratiche della memoria nel cuore dei Nebrodi

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2019 @ 00:19 In Cultura,Immagini | No Comments

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Mietitori siciliani ringraziano il sacramento

di Sergio Todesco

Antonino Mancuso Fuoco (13 giugno 1921- 30 giugno 1996) pittore naïf di Capizzi (Me), è l’unico siciliano presente al Museo Internazionale d’Arte Naïve Charlotte Zander di Bönnigheim (Germania) e al Musée International d’Art Naïf Anatole Jakovsky di Nizza (Francia).

Nato da famiglia contadina, a Capizzi egli trascorse l’infanzia insieme ai suoi cinque fratelli. Dopo le scuole elementari, iniziò a lavorare nei campi con il padre, dilettandosi tra una pausa e l’altra a scolpire il legno, a disegnare con un pezzo di carbone su qualche pietra o ad incidere col coltellino delle figure sulle pale dei fichidindia. In effetti è verso la pittura che il giovane volse ben presto i propri interessi.

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Tosatura delle pecore

La chiamata alle armi nel 1942 lo portò dapprima a Novara e, l’anno successivo, a Bari. Finita la guerra, egli riprese le attività di un tempo, ma la scomparsa dei genitori segnò una svolta nella sua vita. Nel 1947 contrasse un primo matrimonio, di breve durata, con una ragazza del luogo morta prematuramente. L’anno successivo ne sposò la sorella, Maria, dalla quale ebbe tre figli. Alla fine degli anni Cinquanta entrò come socio in un’impresa edile locale che fallì, e nel 1964 si vide costretto a emigrare in cerca di lavoro a Ulm Donau (Germania) per far fronte alla situazione fallimentare dell’impresa e onorare gli impegni assunti. Qui egli rimase poco meno di un anno.

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La mietitura ai tempi di Mussolini

Rientrato per breve tempo a Capizzi, svolse diverse attività per mantenere la famiglia, ma la crisi economica e la precarietà del lavoro lo indussero a raggiungere Torino dove iniziò a lavorare presso la Società Ippica di Nichelino. Vivere in quella città comportava certamente per l’ormai maturo Mancuso Fuoco sperimentare in sommo grado la nostalgia, il doloroso desiderio di ritorno, e fu forse per lenire tale sofferenza che egli riprese i pennelli, usati in passato per riempire le pause nelle attività campestri, e iniziare a rappresentare – a se stesso prima ancora che ad altri – quell’universo domestico tanto lontano e tanto agognato. Presero così forma e colori le figure, i contesti sociali e gli ambienti naturali della sua infanzia.

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L’urdunara accompagnano la bandiera

L’impulso a dipingere di Mancuso Fuoco appare singolarmente analogo a quello che spinse, nell’esilio di Cantù, Antonino Uccello alla pratica etnografica. Quest’ultimo aveva sperimentato la ricerca sul campo e l’elaborazione sistematica dei dati raccolti come strumenti privilegiati per un impegno personale prima ancora che civile, poetico ancor prima che scientifico, di ricostruzione, conservazione e restituzione di un mondo e di una memoria storica dai quali non si sentiva avulso, che coincideva tout court con la sua vicenda esistenziale di intellettuale costretto ad allontanarsi dalla propria cultura, ancorché solo in senso spaziale, alla stregua di uno dei tanti contadini emigrati da Canicattini Bagni negli anni ‘50.

Alla stessa stregua un decennio più tardi Mancuso Fuoco intese ricreare a proprio esclusivo beneficio i paesaggi, la varia umanità e le pratiche lavorative della sua giovinezza per sottrarsi allo spaesamento che la sua condizione di migrante gli procurava. Qualunque spostamento forzoso nello spazio provoca sempre in chi lo compie quello che de Martino chiamava oltraggio delle memorie, e fu certamente per fronteggiare tale crisi che il pittore capitino decise di presentificare a se stesso, attraverso coloratissimi tableaux, le scene di vita e di lavoro cui da giovane aveva assistito o nelle quali aveva ricoperto un ruolo.

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Armentisti siciliani

A cinquant’anni, colpito da paresi facciale, il pittore fu costretto a rientrare in paese. Avvilito dalla nuova condizione fisica, l’entusiasmo e la vena artistica parvero dapprima smorzarsi, ma uno spazio dedicatogli nel febbraio 1973 sul “Bolaffiarte” (Tra le caciotte dipingeva i suoi sogni) stimolò in lui un nuovo impulso alla produzione pittorica. Iniziò così un periodo assai felice di dipinti, progressivamente sempre più maturi e consapevoli della propria vocazione. Tutte le esperienze, i ricordi e le sensazioni dell’infanzia si traducevano in splendidi scorci pittorici la cui cifra peculiare era offerta dall’utilizzo straordinario dei colori. I verdi, i gialli, i bianchi, i rossi vennero da Mancuso Fuoco impiegati per raffigurare boschi frondosi e prati sterminati, aie assolate, campi innevati, tramonti infuocati.

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Cavalcata capitina in onore di S. Antonio forma più antica

Mancuso Fuoco trascorse il tempo restante nel suo paese natale, a volte spostandosi nel più vasto comprensorio nebroideo per trovare ispirazione alle proprie opere. Sulle sue tele divennero predominanti i paesaggi peculiari di tale straordinario ecosistema. Numerose sono le mostre collettive e personali a cui partecipò, sempre meravigliato della celebrità che lo aveva raggiunto e mantenendo la semplicità e la modestia di umile illustratore della propria cultura, quale egli sempre rimase.

Forse per mantenere ancora più forte il legame con le proprie radici egli, nell’ultimo scorcio della sua esistenza decise di ritornare alla vita dei campi; acquistò un gregge e ritornò alle attività della giovinezza portando con sé tele e pennelli, ormai ineliminabile suo corredo, fino alla morte che lo raggiunse il 30 giugno 1996.

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Come conservavano la neve i capitini negli anni 30

Analizzando alcuni dipinti della sua prolifica e non banale produzione è possibile scorgere – nell’ispirazione e, in parte, anche nella cifra complessiva del segno pittorico – caratteristiche che lo differenziano notevolmente dalla maggior parte delle opere naïve a lui coeve. L’opera di Mancuso Fuoco si caratterizza per la sua capacità di documentare il territorio siciliano e le tradizioni silvo-pastorali e contadine, consegnandoci le forme di cultura connesse alle tecniche di utilizzo dei suoli, ai saperi dell’artigianato locale, agli usi tradizionali della terra e del bosco, consegnandoci le effigi di agricoltori, contadini, pastori, allevatori, carbonai etc., rese attraverso una tecnica pittorica e delle soluzioni compositive di grande freschezza e vivacità: una descrizione del mondo agro-pastorale quale esso si è mantenuto per diecimila anni fino alla pasoliniana “scomparsa delle lucciole”.

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Tipica piggiatura capitina

Senonché, in tale attività di rappresentazione egli si tiene lontano dalla cifra sognante, fantastica, in breve metastorica che contraddistingue altri artisti naïf, anche quelli la cui produzione ha sortito grandi esiti.

Mancuso Fuoco si propone sempre come testimone oculare. Nei suoi quadri riferisce di cose viste, e non immaginate o inventate. E seppure questo mondo arcaico e silenzioso venga da lui trasfigurato in un universo esemplare al cui interno ognuna delle figure umane e animali gioca un ruolo insostituibile, esso tuttavia non è mai sottratto alla storia e immerso in un contesto mitico o arcadico.

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Come si costruisce il legno per fare il carbone

Il pittore non perde di vista il flusso temporale che declina il corso delle vicende umane al di là della persistenza più o meno duratura di modelli culturali che continuano a segnare le strutture profonde dei territori e delle comunità.

Già da alcuni titoli dei suoi dipinti emerge tale volontà di ricordare storie anziché proporre facili evasioni in mondi immaginarî: Carbonai sorpresi dalla neve (1990); Come conservavano la neve i capitini negli anni ‘30 (1995); Come gli agricoltori manganavano il lino (1996); L’antica fiera capitina (1993); L’antica trebbiatura (1991); Sciopero contadino negli anni ‘50 (1992) etc.

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Tre contadini che giocano

E anche quando egli vuole offrire un tableau di vita vissuta estrapolata dal flusso temporale, i personaggi sono sempre lì a rivendicare la propria dolorosa storicità (La passeggiata sul carro agricolo, s.d.; Fine di tosare, 1992; Transumanza nella tarda serata, 1990 etc.).

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Donne siciliane manganano il lino

Del mondo pastorale e contadino vengono in genere evidenziati i faticosi regimi esistenziali, il “mestiere di vivere” che ne contrassegna le giornate storiche, e tuttavia il mondo del lavoro e della fatica si afferma al contempo come luogo dell’operosità, delle transazioni comunitarie, della solidarietà, del senso di appartenenza. Anche la descrizione di esistenze provate dalla subalternità è resa con tocco lieve e poetico, come se da essa non fosse mai del tutto espunta la speranza millenaristica di un futuro riscatto, di una futura definitiva liberazione. Ciò viene forse mostrato esemplarmente da un dipinto del 1971, Il bacio propizio, che può esser letto come efficace, seppur inconsapevole, manifesto programmatico della poetica che il pittore capitino avrebbe dispiegato nei decenni successivi.

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La trebbiatura con i cavalli

Ancorché considerato un pittore naif, Mancuso Fuoco adotta piuttosto, in gran parte della sua produzione, stilemi propri dell’arte popolare. Le campiture e l’organizzazione iconografica delle scene riprodotte rinviano non già a un’arte senza tempo bensì a quella forma di “straordinario quotidiano” peculiare delle tavolette votive. I personaggi non sono quasi mai definiti nella loro fisionomia, all’artista preme piuttosto rendere di essi la postura in relazione all’attività svolta e la posizione nello spazio in rapporto agli altri soggetti.

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La vendemmia

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L’albero della cuccagna

La pittura di Mancuso Fuoco non è quasi mai ritrattistica, se si eccettuano alcuni ritratti di personaggi storici o biblici da lui realizzati, nei quali emergono singolari analogie con le messe in forma dei pittori di carri, essendo essa incentrata piuttosto su un’esigenza “prossemica” di resa dei contesti, volta a conferire coralità e senso comunitario alle attività lavorative e rituali riportate sulla tela.

In più, nonostante il forte richiamo a un passato scomparso o in via di sparizione che occorre documentare, attitudine che fa assumere alla sua produzione un carattere di urgent anthropology, Mancuso Fuoco non è mai idilliaco, nei suoi quadri non si respira mai l’aura fiabesca “da Mulino Bianco”. Le raffigurazioni dei momenti di vita che si dipanano nella storia delle sue comunità (non di comunità idealtipiche, indifferenziate, ma di comunità storicamente determinate dall’habitat agro-silvo-pastorale e dal contesto territoriale loro proprio) sono scarne e puntuali, del tutto scevre da qualunque idealizzazione. La storia si fa a tratti mito unicamente per segnare la distanza – tutta storica e antropologicamente fondata – dal presente.

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L’antica fiera capitina

In sintesi, la produzione di questo artista non appare mai consolatoria, patetica, trattandosi piuttosto della ricostruzione “ad occhi asciutti” di un mondo e di una cultura dei quali egli avverte la pregnanza in ordine alla condivisione di forme di vita chiamate a fornire risposte elementari a elementari bisogni. Forse proprio dalla sua non facile esperienza migratoria, e dalla conseguente condizione di spaesamento, egli trasse il convincimento che la cultura da lui sperimentata nelle alture e nei boschi tra Caronia e Capizzi fosse una cultura genuina, e non spuria (E. Sapir, Antologia delle Scienze Sociali, Il Mulino, Bologna 1960) come quella che le circostanze della vita gli avevano fatto incontrare.

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L’antico telaio

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Per fare ricordare ai miei figli gli anni della mia gioventù, avevo 24 anni

In definitiva, Mancuso Fuoco ci offre una descrizione dell’universo agro-pastorale al contempo lucida e appassionata, affatto retorica, priva come essa è di languori nostalgici e, viceversa, disincantata, “positiva” e sottilmente ironica, ancorché partecipe e commossa.

Gli eredi dell’artista capitino, detentori del patrimonio pittorico paterno ammontante a circa duecento opere [1], hanno manifestato il proprio interesse per la realizzazione – proposta da chi scrive – di un ecomuseo a Capizzi, con l’obiettivo di contribuire a perpetuare la specificità di tale produzione artistica, che ha come soggetti gli ambiti culturali, le forme del lavoro e i contesti territoriali proprî dell’areale nebroideo, ritenendo che attraverso questa iniziativa si possano in futuro  innescare processi di sviluppo a livello territoriale, valorizzando e rendendo maggiormente fruibile una produzione artistica di grande pregnanza, già presente nel Primo Catalogo Bolaffi dei Naїfs Italiani (Torino 1973), evitando inoltre che le memorie storiche della cultura tradizionale in quest’angolo di mondo possano andare incontro all’oblio ed estinguano la propria capacità testimoniale, rendendo tutti – gli attuali abitanti delle plaghe nebroidee e noi che appena oggi iniziamo a cogliere la ricchezza di quella loro antica cultura – più poveri, omologati da una globalizzazione tanto anodina quanto avara di reale progresso.

Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
Nota
[1] La bibliografia di Mancuso Fuoco conta ormai decine di titoli. Si indicano qui di seguito alcune tra le più significative pubblicazioni: Catalogo Bolaffi dei Naïfs Italiani, Giulio Bolaffi Editore, 1973, Torino: 94-95; Antonio Guerci, Tra le caciotte dipingeva i suoi sogni, Bolaffiarte, Rivista mensile di informazione, Anno 4° n° 27, Torino, 1973; Catalogo Nazionale Bolaffi dei Naïfs n° 2, Giulio Bolaffi Editore, 1974, Torino: 107; Wloskie Malarstwo Naiwne, Kwiecien, Maj, 1975; Catalogo Nazionale Bolaffi dei Naïfs n°3, Giulio Bolaffi Editore, Torino, 1977: 58; Catalogo Nazionale Bolaffi d’Arte Moderna n.14, Vol. 1°, Giulio Bolaffi Editore, Torino, 1976: 171; Dizionario Degli Artisti Italiani del XX Secolo, Giulio Bolaffi Editore, Torino, 1979: 206; Sicilia, n. 85, Azienda Autonoma di Turismo di Palermo e Monreale, Editore Flaccovio, Palermo, 1979: 13-17; Antologia dei Naïfs Italiani, a cura di Renzo Margonari, Casalino Editore, Como, 1979; Maria Consoli Sardo, Il Pittore mandriano, Sicilia, n. 85, Flaccovio, Palermo, 1979: 13-17; Alberto Bolaffi jr, Natale in Sicilia. Il naïf Mancuso lo vede così, Arte, Mensile di Arte, Cultura, Informazione, n° 147, Giorgio Mondatori & Associati, Milano, dicembre 1984: 56-61; Antonino Mancuso Fuoco di Capizzi, pittore primitivo, Grafo Editor, Messina, 1989; Pepé Spatari, Il Natale di Mancuso Fuoco, Il Menabò, mensile di cultura, arte e spettacolo, Anno IX, n° 3, Grafo Editor, Messina, dicembre 1989: 10; Laura Rizzo, Antonino Mancuso Fuoco, pittore naive, Sicilia Illustrata, Mensile di dubbi e ironie in abito di lavoro quasi letterario, Anno II, n° 4, novembre 1992: 3; Patrizia Larcan, Mancuso Fuoco pittore naif, Prospettive, 07.11.1993, Anno IX, n° 40: 8; Mancuso Fuoco (1921-1996), L’arte Naïve, semestrale, Anno XXIII, n. 57, Age Grafico Editoriale, Reggio Emilia, dicembre 1996: 31-33; Silvana Mancuso Fuoco, Un pennello naïf, Nebrodi, supplemento di Ambiente duemila, Palermo, Anno X, n° 55, settembre-ottobre 2000: 8-9; Parco dei Nebrodi, Antonino Mancuso Fuoco, pittore dei Nebrodi, novembre 2001, Sant’ Agata Militello (Me); Sergio Todesco, Due Progetti per il Museo Cocchiara, Il Centro Storico, ottobre-novembre 2008, n° 10-11 Anno X, Mistretta: 1, 8-9; Felice Dell’Utri, Cento pittori siciliani del passato, Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2009: 73; Michele Mancuso, Antonino Mancuso Fuoco e il suo mondo a colori, Sentieri di Caccia, Mensile, febbraio 2012, Anno XVIII n° 2, C.A.F.F. Editrice, Milano: 50-51.
Dell’artista sono state promosse numerose mostre, tra le quali, negli ultimi anni, a Mistretta (2014, La vita dipinta, Museo Regionale delle Tradizioni Silvo-pastorali “Giuseppe Cocchiara”), a Gangi (2015, Nei campi del ‘900 tra Madonie e Nebrodi, Palazzo Sgadari) e a Messina (2018, La nostra vita, Provincia Regionale, Galleria Lucio Barbera).
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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