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Alla Conca d’oro: una poesia inedita di Pitrè alla sua Palermo
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2016 @ 00:29 In Cultura,Società | No Comments
di Luigi Lombardo
Il 1916 fu un anno esiziale per la cultura siciliana. Tra il 17 marzo e il 16 aprile di quell’anno morivano in successione Salvatore Salomone Marino, Gioacchino Di Marzo e Giuseppe Pitrè. La scomparsa di questa gloriosa triade indusse negli animi degli intellettuali siciliani un senso di scoramento, che era vera angoscia se pensiamo che eravamo in piena Prima Guerra mondiale. Tale terribile coincidenza indusse il filosofo Giovanni Gentile a scrivere il Il tramonto della cultura siciliana. Morivano, ma non lasciavano quasi nulla, se non le loro preziose opere, ma, quanto ai contemporanei, sembravano ormai dei sopravvissuti. Scrive Gentile: «amati, venerati, come tutte le vecchie persone di famiglia, ancorché rimaste legate alle idee e ai sentimenti d’un tempo ormai oltrepassato; ma senza seguito, senza collaboratori, senza consensi».
Mezzo secolo dopo, nel 1966 il clima era cambiato. Gli studi di folklore erano ripresi nel dopoguerra. Si riscopriva in particolare il Pitrè, e nell’occasione del 50° anniversario della scomparsa si moltiplicarono le manifestazioni e i convegni. Nessuno volle perdere un’occasione così ghiotta quale quella di studiare Giuseppe Pitrè su basi nuove e inedite. Lo fece anche Antonino Uccello dalla lontana Palazzolo Acreide dove viveva con la famiglia, in attesa di fondare la Casa Museo. Lo fece da par suo, con originalità e sapienza: diede infatti notizia dell’esistenza di un epistolario tra lo studioso netino Mattia Di Martino e il folklorista palermitano, un denso carteggio conservato nella Biblioteca comunale di Noto.
In data 8 Aprile 1966 Uccello pubblicò sulle pagine de “L’Ora” di Palermo un articolo in cui non solo dava la notizia, ma pubblicava estratti di alcune lettere scritte dal Pitrè al Di Martino. Una in particolare colpiva per la durezza che Pitrè usava contro i suoi nemici palermitani: la lettera datata 22 novembre 1866 – la prima, forse, da lui scritta all’amico netino – contiene una poesia assolutamente inedita che lo studioso indirizzò a Di Martino con la consegna del silenzio.
La poesia si intitola “Conca d’oro”:
Perché tanta durezza? con chi l’aveva il grande studioso? nomi non ne fa, ma in una lettera del 1869 scrive all’amico Mattia:
Lettera davvero dura, che certamente poté avere diffusione solo in altro contesto ambientale, quale era la lontana Noto. Certo, siamo in un momento critico della storia dell’Isola appena “liberata”. Siamo nel 1866, l’anno della rivolta di Palermo, detta del “Sette e mezzo” (perché durò sette giorni e mezzo), scoppiata a settembre di quell’anno e che causò arresti e l’uccisione di 26 Carabinieri (non si conosce il numero di morti tra i rivoltosi). Il banditismo è all’apice e il governo mostra la incapacità tipica di chi guarda il mondo dall’alto del privilegio. Pitrè vedeva farsi strada individui mediocri, ruffiani, vecchi sostenitori del precedente regime. Aveva appena 24 anni e l’esuberanza e l’irruenza della sua giovane età trapelano nelle prime lettere all’amico. Uno sfogo continuo il suo, una valvola di scarico di tensioni accumulate, mentre cominciava a raccogliere freneticamente la voce del suo amato popolo siciliano.
Quando i rapporti col Di Martino da formali si faranno fraterni., i due si daranno del tu e il Pitrè chiamerà “carissimo e dolcissimo” l’amico, al quale fa arrivare consigli, spesso severi, quasi a farlo uscire da quello stato col quale egli stesso si ritrovava pesantemente a convivere. Straordinaria la lettera del 19 febbraio 1867 con cui, consolando Mattia, amareggiato per la fatica che fa ad insegnare a causa della burocrazia e dei programmi scolastici, scrive:
E ancora:
É un momentaccio nella vita del Pitrè: la frenesia della raccolta del materiale etnografico, la passione per gli studi e la cultura popolare siciliana, si scontrano col duro lavoro di medico, messo a dura prova dal colera scoppiato nel 1865 e che nel 1867 aveva ripreso vigore:
La pagina di sfogo sul colera e il modo di approcciarlo da parte delle autorità sembra scritta oggi:
Un fuoco sacro lo divora, in questo periodo, un senso di dovere civico lo spinge alla pubblicazione di un materiale immenso e sconosciuto, un fuoco che lo consuma e dal quale risorge come Fenice. L’amicizia con Mattia Di Martino è ormai forte e lo studioso si può permettere di redarguire l’amico netino che, preso da manie letterarie da perfetto provinciale, vuole pubblicare la versione di novelle popolari svedesi, e non sa cosa fare:
Concludiamo con le parole di Uccello, nel citato articolo del 1966:
Gli intellettuali, gli uomini di cultura siciliani cinquanta anni fa ricordarono Giuseppe Pitrè ciascuno a suo modo. Uccello lo fece così, quasi vedesse nel Maestro proiettata la sua stessa vita. Ma quell’anno gli intellettuali palermitani, e persino il compassato mondo accademico, non se ne stettero con le mani in mano. Proprio nel 1966 fu indetto il Simposio di Studio sulle figure e le opere di Salomone Marino e Giuseppe Pitrè, convegno indetto dall’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari, nata l’anno prima: nessuna celebrazione, ma studi seri che produrranno i loro frutti negli anni successivi. Dal centro alla periferia l’opera di Pitrè fu consultata e utilizzata da una schiera di valenti ricercatori, che in solitario o organicamente legati al mondo universitario rilessero (e continuano a rileggere) la Biblioteca delle tradizioni popolari, come si fa con un testo sacro, la cui sola presenza in uno scaffale di libreria infonde certezze e sicurezza, come un talismano magico. A fronte di quell’anniversario di cinquant’anni fa, stride e si fa ancora più amaro il silenzio in cui sta passando il centenario della morte del grande maestro palermitano, padre dell’antropologia italiana.
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