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Al concittadino Pietro Consagra, a cento anni dalla nascita

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:19 In Città,Cultura | No Comments

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Pietro Consagra nel suo studio (Archivio Pietro Consagra)

per Consagra

di Giuseppe Modica

Concittadino di Consagra, anch’io autore prestato alla pittura, di una generazione molto più giovane, essendo nato nel 1953, per età avrei potuto essere un suo allievo. Non lo sono stato anche perché mi sono mosso su un altro versante dell’arte, ma sono stato attento osservatore ed estimatore del suo lavoro, delle sue scelte critiche e del suo pensiero. In quegli anni, dopo il 1940, c’è, soprattutto in Italia, nella vita e nel dibattito culturale una spaccatura netta che divide in maniera inequivocabile il Gruppo Corrente, fondato nel 1938 con Guttuso, Birolli, Sassu, Cassinari, Treccani, Migneco, Morlotti, Manzù, Mafai e Pirandello, da quello astratto di Forma 1 con Consagra, Attardi, Dorazio, Accardi, Perilli, Guerrini, San Filippo e Turcato, nato nel 1947. Consagra, con il suo pensiero critico polemico e pugnace, è un assertore radicale del gruppo astratto entrato in feroce polemica con Guttuso, Togliatti e la linea del Partito Comunista, fedeli al realismo socialista di derivazione zdanoviana.

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Mazara, con la madre e la sorella, 1926

Per buona parte dei mazaresi, Pietro Consagra è stato, e forse continuerà ad essere, una figura mitica. Ed in effetti ci sono tutti gli elementi del romanzo mitografico che Consagra racconta nella sua autobiografia Vita mia. Nasce in una famiglia povera, al limite dell’indigenza, nella punta estrema sudoccidentale della Sicilia; il padre è un venditore ambulante che muore giovane. Pietro è un ragazzino inquieto ed introverso, che a scuola non sembra eccellere in nessuna materia, ma ha particolari doti fuori dal comune per il disegno, doti che si svilupperanno presto in un notevole talento per la scultura: rimarchevole per capacità plastica e mimetica è il busto di un notabile mazarese, eseguito alla fine degli anni trenta.

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Studente a Palermo, 1940

Con l’aiuto economico di alcune persone sensibili va a studiare al liceo artistico di Palermo e poi successivamente, con una borsa di studio, può frequentare l’Accademia di Belle Arti. Completati gli studi nel 1944, sempre in uno stato di abissale indigenza, dopo un lungo viaggio a tappe, con una sosta a Napoli, arriva a Roma. Qui incontra e diventa amico di un altro artista destinato a diventare un grande protagonista della cultura artistica europea: Renato Guttuso, di alcuni anni più grande. Erano gli anni immediatamente dopo la fine della guerra, l’Italia in macerie ed in una povertà profonda e dolente. Ma nei giovani talenti ed intellettuali c’era coscienza e dignità di classe strutturata sul pensiero gramsciano: c’era la fierezza della rinascita e della proiezione nel futuro.

Pietro Consagra, maestro e pioniere della cultura astratta internazionale, viene ospitato da Renato Guttuso che sarà, all’opposto, il protagonista della cultura figurativa italiana del secondo dopoguerra. Erano su due posizioni antitetiche dal punto di vista del linguaggio artistico, ma sussisteva ugualmente la stima e l’amicizia reciproca, anche se c’erano divergenze di scelte espressive e culturali che diverranno presto rigide al punto da causare fratture insanabili. Saranno poi anche il mercato e gli interessi economici delle “scuderie” e delle cosiddette cordate di potere ideologico a creare incomprensione e conflittualità fra le parti.

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Consagra, Opere giovanili, 1946-47

Certo, è vero che entrambi i gruppi (astratti e figurativi) avevano un comune denominatore ideologico, quello di matrice marxista, ma all’interno c’erano puntuali differenze di orientamento di pensiero che poi, negli anni a venire, hanno creato divergenze vere e proprie, soprattutto quando si sono delineati attorno ai due gruppi precisi interessi economici guidati non solo da sistemi di potere economico nazionali, ma anche internazionali. Da un lato, Guttuso e Togliatti rappresentavano la linea ortodossa della politica culturale del Partito Comunista, con uno schieramento ideologico che aveva precise indicazioni linguistiche che sconfinavano, in alcuni casi, in una posizione “agiografica”. Dall’altro lato, il Gruppo Forma 1 e Turcato, in diretto collegamento e continuità con le avanguardie storiche e l’astrazione di inizio secolo, rivendicavano libertà spirituale ed autonomia dall’ideologia. È una spaccatura che si protrarrà negli anni e, paradossalmente, con riproposizioni diverse, ha le sue ripercussioni anche nella nostra contemporaneità.

L’artista ideologicamente impegnato ma trasversale, che coniuga e attraversa indenne le due posizioni, sarà Picasso: Guernica (1937) – è noto – è un grande quadro di denuncia politica di una tragedia in atto senza che i contenuti ideologici e politici dell’opera condizionino l’intrinseca autonomia del linguaggio pittorico del maestro spagnolo. Il mio punto di vista personale, che sconta gli esiti della distanza temporale e generazionale, coincide più con la visione di Picasso, nel senso che figurazione e astrazione vivono insieme e in simbiosi, e che in ogni figurazione che merita rispetto e attenzione c’è un’astrazione e in ogni astrazione interessante c’è ineludibilmente l’eco e la memoria delle cose della vita.

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Roma,1947, Gruppo Forma 1, con Pietro Consagra, Ugo Attardi, Carla Accardi, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Piero Dorazio

La mia generazione ha avuto la possibilità di vedere quella diatriba con una certa distanza critica e, come si suol dire, con “il senno di poi”. È vero, e legittimo, che il Gruppo Forma 1 vedeva nell’astrazione – che aveva le sue radici nell’avanguardia storica di artisti come Balla e Mondrian, Magnelli e Manessier ed il gruppo del Milione di Milano – una via nuova dell’arte, libera dai condizionamenti formali, eredità di molti secoli di storia. Per il Gruppo Forma 1 l’arte voltava pagina e compiva una svolta epocale, in maniera definitiva: ormai non è più possibile fare figurazione.

Oggi con uno sguardo “da lontano” e con una certa distanza critica data dal tempo, possiamo dire che non tutto quello che era legato alla figurazione, anche nello stesso Guttuso, era riconducibile al realismo socialista, sotto la cappa ideologica del partito. C’era inoltre una linea di ricerca indipendente da ogni ideologia che, forse, il Partito Comunista di allora e l’altro gruppo di Astratti prendevano poco in considerazione: era quella linea, che in sintonia con de Chirico e Savinio, si muoveva sul versante nuovo della Metafisica e della sospensione magica, che vedeva coinvolti grandi Maestri del Novecento come Morandi, Casorati, Donghi, Trombadori e che aveva un riscontro internazionale con le oggettività europee e americane, fino allo sconfinamento con il Surrealismo in Francia e in Belgio.

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Roma, via della Croce, davanti al Re degli Amici, con Monachesi, Turcato e Corpora (ph. Ione Robinson)

Pietro Consagra è, dunque, nella cultura artistica del secondo Novecento, figura centrale del dibattito culturale che con il Gruppo Forma 1 ha costituito un’area di ricerca estetica di grande rilevanza legata alla nuova astrazione del dopoguerra. Nel contrapporsi all’area figurativa del Partito Comunista dominata da Guttuso e da Roderigo di Castiglia, pseudonimo sotto il quale si celava Togliatti, gli artisti del Gruppo amavano dichiarare: «Siamo formalisti ma anche comunisti», uno slogan che si accompagnava ai cinque significativi punti del “Manifesto” di Forma 1:

«1- In arte esiste soltanto la realtà tradizionale e inventiva della forma pura; 2- riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sottrarci ad influenze decadenti, psicologiche, espressionistiche; 3- il quadro, la scultura, presentano come mezzi di espressione: il colore, il disegno, le masse plastiche, e come fine un’armonia di forme pure; 4- la forma è mezzo e fine; il quadro deve poter servire anche come complemento decorativo di una parete nuda, la scultura anche come arredamento di una stanza; il fine dell’opera d’arte è l’utilità, la bellezza armoniosa, la non pesantezza; 5- nel nostro lavoro adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, ci interessa la forma del limone, e non il limone»  [1].

È un viaggio a Parigi, nel 1946, che rappresenta per loro una folgorazione. Il contatto con il Cubismo e con l’Astrazione storica della capitale francese di Mondrian e Alberto Magnelli, di Brancusi e Kandinsky, di Klee e Leger sarà determinante per far esplodere le loro scelte. Consagra e Turcato visitano lo studio di Giacometti e incontrano Hans Hartung. Il gruppo conosce le gallerie di Place Vendome e del Faubourg Saint-Honorè, la Denise Renè e Pier Loeb. Scrive Consagra nella sua autobiografia Vita mia: «Tornammo a Roma gonfi di gioia. Eravamo la generazione aperta all’Europa. I problemi di Guttuso non erano più nostri. A Parigi era tutto esaltante e sconvolgente, si aprivano le porte travolti dal nostro entusiasmo. Eravamo i giovani più interessati del mondo» [2].

È vero anche che in Italia erano fondamentali le presenze futuriste di Balla e Boccioni e le ricerche astratte del Gruppo del Milione: Soldati, Rho, Radice, Reggiani, Bogliardi, Veronesi e Ghiringhelli.

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Parigi, mostra alla Galerie de France (Archivio Pietro Consagra)

Consagra capisce subito che il suo terreno d’indagine è quello della pura forma e abbandona le esperienze scolastiche della ritrattistica e della scultura di impianto ottocentesco, appresa dal suo maestro d’Accademia Archimede Campini, per intraprendere un’avventura aniconica, dove è fondamentale l’organizzazione bidimensionale dello spazio. Una scultura a due dimensioni fuori dalla monumentalità a tutto tondo della scultura classica. E se c’è un legame con la tradizione, è da ritrovare in quegli esempi plastici in cui essa si dipana lungo una scansione ritmica e temporale sulla superficie con andamento orizzontale: fregi, metope e motivi decorativi della tradizione classica della Magna Grecia.

Arturo Martini aveva scritto il celebre libretto «Scultura lingua morta», con chiaro riferimento e presa di distanza nei confronti di un linguaggio che nel Novecento era diventato oggetto di una retorica celebrativa, perdendo vitalità e verità poetica. Anche Consagra rigetta la dimensione celebrativa della scultura, per individuarne una vitalità che riscontra nella forma pura, scevra da riferimenti naturalistici e rappresentativi, ma prende anche le distanze da quello che lui definisce «dolorismo espressionista», per entrare in merito ad una strutturazione formale, gioiosa e felice, che non disdegna la decorazione nella sua accezione più alta, come poteva accadere in Matisse, artista del versante figurativo.

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Mazara, la Fontana, 1964 (ph. U. Mulas)

Ricordo da bambino, avevo poco più di dieci anni e abitavo in Corso Umberto a 150 metri da Piazza Mokarta, quando vi venne collocata la fontana di Pietro Consagra, con quelle quattro presenze di bronzo, figure mitiche che sembrano emergere dal mare. Figure arcaiche, totemiche ed enigmatiche che si stagliano, nella loro successione e scansione verticale, sull’orizzonte del lungomare che si vede dalla piazza. Figure incrostate e primigenie, ma anche modulate e rese vibranti dal ritmo dell’acqua che spruzzava e vi scivolava sopra.

Su questa fontana Pietro Consagra ha scritto, nel 1965 in un articolo su La Sicilia, alcune riflessioni molto acute e pertinenti che aiutano a comprenderne meglio il senso. L’acqua che diventa materia e si coniuga col bronzo non ha funzione decorativa come accadeva nelle tante fontane che nei secoli passati hanno avuto ruolo di ornamento urbano. L’acqua è qui elemento strutturale importante che con la sua fluida articolazione e variegazione dinamica e vaporizzazione in spruzzi diventa alfabeto linguistico che interagisce e dialoga col bronzo.

«… L’acqua smitizza la scultura. Una cosa che butta acqua, voglio dire qualunque cosa per fontana, suscita minore diffidenza della stessa cosa che non butta acqua. Se viene fuori acqua da una scultura si ritirano dalla gente le suscettibilità culturali, le pretese estetiche, perché sembra che ci si trovi difronte a qualcosa che non vuole assumere impegni. L’acqua disarma, questo è il senso comune» [3].

Dall’incontro di questi due elementi costruttivi di base, acqua e bronzo, Consagra si propone di cogliere la dialettica tra terra e acqua, tra immanenza fisica e tattile della materia e mobilità dinamica, variabile e imprevedibile del tempo. E appunto questi quattro “personaggi” di bronzo sono proiettati sull’orizzonte del mare aperto in uno dei punti più belli di Mazara: sulla Piazza Mokarta, a lato dei resti del castello normanno. Questa fontana ha qualcosa di mitico e magico e credo sarà anche per la sua felice collocazione che vede librati in aria sopra l’orizzonte questi “personaggi” usciti dal mare.

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Mazara, la Fontana, 1962 (ph. Ugo Mulas)

Ricordo la suggestione di quella scultura-fontana, che spesso animava peripatetiche discussioni di cittadini, dal matto visionario al professore umanista, e di visitatori, che cercavano di decifrarne il senso e il significato, anche con digressioni fantastiche e concettosi scervellamenti. C’era chi entrava in sintonia e si metteva in ascolto con l’opera, ma non mancavano, come accade spesso per l’arte – che è interrogazione irrisolta – episodi di quella ottusità che si rifiuta deliberatamente di comprendere: Ma chi voli diri cu sti quattru zabbari!! (Ma che vuol dire con questi quattro pali di agave!!) oppure … chi sù sti quattru di vastuni! (con riferimento alle carte da gioco).

Ho conosciuto Pietro Consagra all’inizio degli anni ‘80 a Gibellina da Ludovico Corrao e poi l’ho incontrato un altro paio di volte a Roma, nella sua galleria di riferimento, l’Edieuropa, e nella galleria Incontro d’Arte dove avevo inaugurato una personale. Ho un certo rammarico di non averlo frequentato abitando e vivendo a Roma: una forma di timidezza da parte mia nei confronti di un artista di fama internazionale o forse una sua spigolosa radicalità che viveva ancora la diatriba tra figurazione e astrazione. Per età avrei potuto essere suo allievo, ma forse perché appartenente ad una generazione un po’ troppo lontana dalla sua, sentivo che era finito il tempo di quella radicalità assoluta che aveva diviso da un lato gli artisti astratti e dall’altro gli artisti iconici. Era finito il tempo dogmatico dell’ormai e si entrava nel tempo relativo dell’anche. La realtà dei fatti e gli accadimenti della storia successiva ci hanno dimostrato che i linguaggi della ricerca artistica contemporanea non possono essere irretiti in uno schema rigido ed ideologico che divide da un lato la verità e dall’altro la menzogna. È invece nella contaminazione e circolarità poliedrica che vivono e coesistono contemporaneamente posizioni apparentemente lontane e inconciliabili.

Sarà poi, all’inizio degli anni Sessanta, l’irruzione della Pop Art nella scena artistica a creare un cambiamento ed una svolta di portata internazionale che rimetterà in circolazione tutti i linguaggi, compresi quelli legati all’immagine, all’interno di una mappa composita, articolata e variegata. Non più la certezza storica di avere voltato definitivamente pagina, ma la presa di coscienza della nascita di altre realtà espressive, di altri linguaggi che entravano simultaneamente in alternanza dialogica e dialettica.

Scrive a tale proposito Consagra:

«… Di lì a poco le orde della Pop Art, rotto il cordone in USA, si sarebbero riversate in Europa creando lo scompiglio [...] Ora esisteva solamente l’America. La Pop Art fece un macero di tutto. Si ripartiva con una violenza inaudita e il suo fascino portava strage di consensi […]. Grandi dimensioni, gigantografie colorate di oggetti che dal banale uso venivano portati alla sfera dell’arte. Un thrilling terribile. Tutto si rompeva le ossa a confronto della volgarità diventata arte. Dentro il mio cuore entrava un mattone. In America non mi sentivo più di andare. Tutta l’attenzione ottenuta prima mi pesava sulla testa come un elmo di piombo. Avevo fatto mostre personali a New York e a Boston, più di dieci musei degli USA possedevano mie sculture e quasi rutto ciò che ero andato realizzando era stato venduto al collezionismo privato americano. Sognavo un crescendo continuo di opere sempre più chiare e ricche di esperienza e di conferme. Avevo sognato di essere indistruttibile, che le mie sculture stessero nella strada maestra per essere sempre meglio accolte, comprate, cercate. […] Quel trionfo travolgente dell’arte americana mi stordiva. […]. Ero diventato come uno spettatore. Si parlava sempre di altro e di altri: di Pop Art, di astri sorgenti con velocità esplosiva e si valorizzavano tutte le correnti di varia tipologia purché arte americana. […] L’Europa decaduta nel ruolo accademico […] Si voleva ora l’America dominante» [4].
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Progetto di facciata per il Municipio di Mazara, 2002 (Archivio Pietro Consagra)

Come si comprende dalla testimonianza, Consagra rimane sconcertato e spiazzato nei confronti dello spostamento di interessi provocati dalla presenza fragorosa ed invasiva della Pop Art. Rispetto alla nuova politica artistica e culturale egli si trova in una posizione laterale e tale perdita di centro lo indurrà a riflettere e reagire per trovare all’interno della scultura stessa le risorse che potessero, nella nuova realtà, ridarle energia e nuova significanza. È in questo contesto di crisi che matura la sua idea di Città frontale, in cui la scultura interagisce e si coniuga con l’architettura e l’ambiente e conquista una sua valenza ottica e visiva attraverso l’esplosione sonora del colore. Ed è all’interno di questo nuovo pensiero che si inserisce la proposta, negli anni Settanta, di una facciata da sovrapporre a quella del municipio di Mazara del Vallo, da alcuni ritenuta stridente rispetto alle architetture barocche della piazza in cui si trova.

Per Consagra la scultura ha una progettualità di tipo architettonico, ma rispetto all’architettura, la cui forma è soggetta alla funzione secondo i dettami di Le Corbusier, rivendica e riscatta una libertà di materiali, di forme, ritmi e colori usati in modo fantastico, cosa che l’architettura non può fare. Una libertà e leggerezza tutta frontale che si snoda sulla superficie con una scansione di linee, a tratti scattante e dinamico e a tratti armonico e musicale, dove anche il colore, nella sua gioiosa evidenza e forza timbrica, ha la sua importanza. Dicevamo, nessun dato espressionista, nessuna interiorizzazione esistenziale, come accadeva per Giacometti, ma una limpida visione mentale, un’avventura di pure forme in sé, che reclamano la loro identità nella loro pura autoreferenzialità.

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Gibellina, La Stella di Consagra, 1981

Nei nostri brevi incontri la memoria andava sempre a Mazara con una certa nostalgia, ma anche con una punta di delusione per l’indifferenza di una cittadinanza che lui avrebbe voluto vedere invece più reattiva e attenta riguardo all’arte. Gli stava a cuore Mazara ed ha donato tanti altri lavori che sono rimasti custoditi in una sala a lui dedicata presso il Centro Polivalente nel Palazzo dei Gesuiti. Suo rammarico e profonda amarezza è stato l’ostacolo posto dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Trapani per la realizzazione della quinta da sovrapporre alla facciata del ex palazzo del Comune, approvata e finanziata dalla Regione nel 2003. L’artista ritenne che l’amministrazione comunale, pur avendo reso esecutivo il progetto, non si sia prodigata per far rimuovere il veto opposto dalla Soprintendenza. Consagra ha vissuto la questione come un tradimento da parte della cittadinanza ed ha disposto di non essere sepolto a Mazara, ma nella vicina Gibellina dove aveva avuto grande accoglienza e onori. È proprio a Gibellina, con la grande amicizia con Ludovico Corrao, che si creò un polo museale e culturale di portata europea. Ciò avvenne anche tramite Consagra che mise a disposizione, oltre alle sue opere, i suoi contatti e collegamenti internazionali. La città distrutta dal terremoto del 1968 rinasce grazie a Corrao e Consagra all’insegna dell’utopia e della bellezza: l’arte diventa motivo fondante di crescita e riscatto dalla tragedia. Artisti di valore e statura internazionale mettono nei loro circuiti preferenziali Gibellina, che da piccolo borgo sperduto nelle campagne della valle del Belice, diventa tappa importante del loro percorso espositivo. Grandi architetti come Ludovico Quaroni, Francesco Venezia, scultori come Arnaldo Pomodoro, Nino Franchina, Fausto Melotti, oltre allo stesso Consagra, e pittori come Piero Dorazio, Achille Perilli, Carla Accardi diventano frequentatori abituali della cittadina, animandone il dibattito e la visibilità culturale in uno scenario internazionale, ed intervengono gratuitamente con le loro opere nella complessiva ricostruzione urbana. All’interno della città, in mezzo alle architetture di Quaroni, Mendini, Nanda Vigo, Franco Purini, Gregotti, Samonà si collocano le sculture di Staccioli, Pomodoro, Uncini, Spagnulo, Melotti, Colla e Andrea Cascella.

Sui resti dell’antica Gibellina, in collina, si adagia il grande Cretto di Burri mentre sull’ingresso alla città nuova, ricostruita in pianura, svetta la grande stella di Consagra, come un arco trionfale e porta rinascimentale della nuova città. Pietro Consagra muore a Milano il 16 luglio 2005. È sepolto nel cimitero di Gibellina il cui ingresso è segnato dalle magnifiche porte in bronzo da lui realizzate.

 Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note
 [1]    http://www.arte-argomenti.org/manifesti/forma.htm MANIFESTO FORMA 1 anno 1947
[2]    Pietro Consagra, Vita mia, Skira, Milano,2017: 48.
[3]    Pietro Consagra, La fontana, in “Sicilia”, Flaccovio, 1965, n. 48
[4]    Pietro Consagra, Vita mia, cit.: 110-114.

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Giuseppe Modica, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, nel 1986 si è trasferito a Roma, dove attualmente vive e lavora ed è titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti. Autore “metafisicamente nuovo”, occupa un posto ben preciso e di primo piano nella cultura pittorica contemporanea. Ha esposto in Italia e all’estero in prestigiose retrospettive e rassegne museali, apprezzato da critici come Fagiolo, Strinati, Janus, Giuffrè, Sgarbi e da letterati come Sciascia, Tabucchi, Soavi, Onofri, Calasso. Si segnalano le mostre: nel 2004 “Riflessione” come metafora della pittura a cura di Claudio Strinati; nel 2008 Roma e la città riflessa a cura dello stesso Strinati; nel 2015 Luce di Roma, a cura di Roberto Gramiccia, e nello stesso anno una personale sul tema della mediterraneità alla Galleria Sifrein di Parigi: La melancolie onirique de Giuseppe Modica; nel 2016 a cura di Donatella Cannova e Sasha Grishin una mostra a Melbourne, in Australia, promossa dall’Istituto di cultura di Sidney. Sue opere sono state recentemente esposte in una mostra personale Phoenix Art Exhibitionhe a Fenghuang, nel sud-est della Cina, e a Pechino, Light of memory, organizzata a cura di Giorgio Agamben e Zhang Xiaoling, con il patrocinio dell’Accademia Nazionale Cinese di Pittura.

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