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Accogliere uomini, accogliere parole. Lampedusa: una storia esemplare
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:27 In Cultura,Società | No Comments
di Giovanni Ruffino
Per chi proviene dall’Africa, Lampedusa è la porta d’ingresso in Europa. Situata a 200 km dalla Sicilia e ancor meno dalla Tunisia, oggi è nota nel mondo per la generosità della sua gente nell’accogliere moltitudini di migranti provenienti dall’Africa in condizioni drammatiche. Io credo che questa disposizione all’accoglienza possa anche spiegarsi con la piccola storia di questo piccolo lembo di terra del Canale di Sicilia.
Se guardiamo al Mediterraneo con occhi da linguista, ci accorgiamo ben presto che le piccole isole meritano un discorso a parte: penso alle piccole isole della Sardegna − S. Antioco e S. Pietro −, alle isole della Campania, della Toscana, alle stesse Baleari e, infine, alle isole che circondano la Sicilia: le Eolie con Lipari, Ustica di fronte a Palermo, le Egadi con Favignana, e poi Pantelleria, Malta, le Pelagie con Lampedusa e Linosa.
Non si può parlare di Lampedusa senza parlare della Sicilia, e non si può parlare della Sicilia senza parlare del Mediterraneo. Come ben si sa, la Sicilia è stata sin dall’antichità attraversata da correnti di lingua e cultura provenienti ora dal Nord (Normandia, Francia angioina), ora da ovest (Catalogna e Spagna), ora da Est (correnti bizantine e asiatiche), ora da Sud (Africa arabo-berbera). Lampedusa ne è partecipe di riflesso, ma la sua posizione linguistica ha una sua precisa fisionomia.
Se ci riferiamo alle correnti provenienti dall’Africa arabo-magrebina, Lampedusa e la Sicilia presentano condizioni analoghe. Mostrerò pochi esempi [1] rappresentativi di assetti e di corrispondenze areali risalenti all’epoca medievale.
Ci sono casi in cui il dialetto lampedusano concorda con la sola Sicilia. Ciò avviene per i corrispondenti dialettali di ‘scaldare il forno’ (carta n. 1), che in Sicilia, così come nelle isole minori, si presentano nella forma camiari (con alcune varianti, tra le quali hamiari, con persistenza della aspirata araba), forma che continua l’ar. ḥamma ‘riscaldare’.
La carta n. 2 mostra, invece, una penetrazione nelle regioni meridionali della Penisola dell’arabismo siciliano nziru ‘recipiente di terracotta per conservare acqua e altri liquidi’. È ancor più estesa l’area di penetrazione dell’ar. qubbayta (carta n. 3), presente a partire dalla Sicilia con Lampedusa e le altre piccole isole siciliane.
La diffusione raggiunge l’intero Settentrione attraverso numerose varianti regionali e locali riferite a diverse tipologie di torrone. Risultano poi assai interessanti le aree mediterranee occidentali, in particolare con la Penisola iberica, ma anche con l’area francese come nel caso di ğulğulān ‘semi di sesamo’ (sic. giuggiulena, spagn. aljonjolì, fran. jugioline) o di fustuq ‘pistacchio’, sic. fastuca, catal. festuq, franc. festuce; o ancora di sic. burnìa ‘recipiente di terracotta invetriata per alimenti’, con corrispondenti (oltre che a Lampedusa e nelle altre isole siciliane) anche nello spagn. albornìa da dove si è irradiato nel ligure-piemontese e nel sardo.
Un percorso analogo è riscontrabile in taliari ‘guardare’ che in Sicilia può essere considerato un catalanismo (carta n. 4), diversamente da zotta ‘frusta’ che in Sicilia parrebbe un arabismo diretto, a differenza dell’ant. sic. azzottu che, assieme al termine sardo, può considerarsi un catalanismo (carta n.5).
Ma al di là di queste corrispondenze areali, la situazione di Lampedusa ha una sua specificità, una singolare condizione determinata da ragioni storiche con conseguenze linguistiche.
Lampedusa è uno di quei luoghi in cui si arriva convinti di saperne abbastanza e da cui ci si allontana carichi di dubbi. Lampedusa è, in un certo modo, lo specchio in cui si riflettono contraddizioni e conflitti di questo nostro tempo, ma anche sintesi sorprendenti.
Nel passato, Lampedusa fu soprattutto un luogo di transito, privo di presenze abitative stabili, come rivelano i versi di Ludovico Ariosto (canto XL dell’Orlando Furioso), che fa di Lampedusa (Lipadusa) il teatro del decisivo duello tra Orlando, Oliviero e Brandimarte da un lato e Agramante, Sobrino e Gradasso dall’altro:
Terra di insediamenti più o meno effimeri (nordafricani, fenici, greci, romani, maltesi, siciliani e italiani del Sud). Terra di approdo e rifugio per cristiani in fuga dalle persecuzioni musulmane; per navi pirata, vascelli corsari, flotte crociate. Terra di eremiti di fedi diverse. Terra così remota da poterci impiantare una colonia penale dopo l’Unità d’Italia. Terra tanto vicina al continente africano da essere raggiunta da due missili libici al tempo di Gheddafi. Terra che alimenta ancora oggi due visioni contrapposte di una Lampedusa zona di frontiera da difendere e chiudere, e una Lampedusa, luogo in cui Europa e Africa s’incontrano, terra di confine da aprire a genti diverse, facendone laboratorio di cooperazione, di una visione mediterranea dell’Europa.
Ecco perchè la prima cosa che colpisce chi arriva a Lampedusa, purché sappia ascoltare, è un groviglio di voci che si intrecciano e si sovrappongono. In questo contesto sociale, i pescatori esercitano una speciale funzione etica per la solidità dei valori che incarnano. Valori che discendono dalla storia del popolamento dell’isola, fatta di convivenze sofferte eppure rapidamente assimilate, come dimostra il particolare dialetto lampedusano.
E a questo proposito devo ricordare lo speciale saluto, tipico dei lampedusani: o cià! ‘fiato mio!’, che in Sicilia i genitori rivolgono ai loro bambini, ma che i lampedusani estendono all’intera cerchia amicale, e oltre.
Ma ora vado molto indietro con i miei personali ricordi e la mia esperienza di dialettologo. Il mio primo viaggio a Lampedusa risale a oltre 40 anni fa, nell’imminenza di un congresso sulle condizioni linguistiche delle piccole isole del Mediterraneo [2]. Io − dialettologo alle prime armi − avevo programmato una relazione sul dialetto delle Pelagie, sicché volli esplorare la varietà lampedusana, allora del tutto sconosciuta. Sbarcando a Lampedusa avevo ben presente il quadro assai diversificato dei dialetti siciliani [3], e andavo chiedendomi in quale tipologia linguistica avrei potuto includere quel dialetto.
Ascoltando e interrogando i lampedusani emergevano caratteristiche di un dialetto non classificabile all’interno del quadro delle varietà siciliane. Quello lampedusano era un dialetto nel quale convivevano caratteristiche trapanesi, palermitane, agrigentine, messinesi, eoliane, campane, persino nord-africane [4]: un sincretismo linguistico non immaginabile, che aveva conquistato una sua stabilità [5].
Tra le varietà dialettali conviventi a Lampedusa, spiccano le affinità con i dialetti messinesi, riconducibili a Lipari, nelle isole Eolie. Si intravede, inoltre, l’affiorare di certe isoglosse (che chiamerei micro-insulari) che congiungono Lipari a Lampedusa attraverso l’isola di Ustica [6], le Egadi [7] e in qualche caso Pantelleria [8].
Ma a questo punto del nostro discorso occorre cercare di comprendere le speciali dinamiche che hanno determinato una situazione linguistica tanto singolare: occorre, cioè, risalire alle ragioni per le quali il dialetto di Lampedusa, nella sua struttura estremamente composita, si riconnette a quelli che furono i momenti salienti del popolamento delle Pelagie. Ed è anche singolare il fatto che un dialetto come quello lampedusano, che appare come il risultato dell’iniziale coesistenza di numerose varietà locali, si sia potuto stabilizzare in un tempo relativamente breve, come sistema comune di tutti i lampedusani. Ma bisogna pure dire che, ad accelerare tale processo di conguagliamento, avrà indubbiamente contribuito la grande coesione tra gli abitanti, in larga misura dediti ad una medesima attività lavorativa − la pesca − , tutti operanti entro gli stessi ristretti limiti spaziali, tutti solidali nella loro insularità.
Cos’era accaduto, dunque? Era accaduto che il 18 settembre del 1843 due piroscafi della Real Marina borbonica, il “Rondine” e “L’Antilope”, salparono dal porto di Palermo alla volta di Lampedusa. Su quei piroscafi viaggiavano 120 persone − uomini, donne, bambini − destinate a colonizzare l’isola. L’opera di colonizzazione ebbe subito inizio con la costruzione di alcune strade e di un caseggiato colonico. Negli anni successivi continuarono a giungere altri coloni allettati dal proclama reale che assicurava denaro, terra e casa. Fu anche impiantata una colonia di domiciliati coatti, provenienti da tutta la penisola italiana. Molti di costoro finirono con lo stabilirsi a Lampedusa dopo aver sposato ragazze del luogo: si devono ad essi anche alcuni tratti settentrionali assimilati dal dialetto, come palanca o fregna.
Ma il fatto più interessante e significativo è dato dai viaggi circumsiciliani che erano iniziati nella metà del XVIII secolo: eoliani che, nel 1759, viaggiavano su quattro barconi verso Ustica, allora disabitata. E poi, negli anni successivi, verso l’isola di Marettimo, nelle Egadi, e infine a Lampedusa e a Pantelleria (carta n. 6). Una circolazione determinata da pressione demografica, crisi economiche, epidemie, che escludeva l’isola maggiore, la Sicilia − che dovette essere percepita come uno sterminato continente − e si concentrava su percorsi microinsulari.
Ritorno − per concludere − sulle riflessioni che proposi in occasione di uno degli ultimi Convegni della Società di Linguistica Italiana [10]:
«Sono convinto che la vicenda – ardua, sofferente – del popolamento di Lampedusa possa contribuire a spiegare i tanti momenti di tolleranza e di apertura – di umanità – dei lampedusani in un oggi ancor più arduo e sofferente. I discendenti dei “fuggitivi” di ieri guardano ai “fuggitivi” di oggi con occhio diverso da quello dei “continentali”, impartendo lezioni memorabili anche alla “padania” opulenta.
Ancora una volta, le piccole isole si manifestano come luoghi aperti, nei quali il respiro ampio del mare prevale sulle angustie perimetrali, territoriali e anche mentali alimentate dal cinismo dei potenti, i quali pretenderebbero di farne ghetti orribili, prossimi – magari – alle ville sontuose il cui acquisto viene esibito alla stregua di miserabili slogan propagandistici. Angustie che non hanno però impedito nei secoli una sorta di migrazione microinsulare, che ha coinvolto Eolie e arcipelago campano, Ustica, Egadi, Pelagie, Pantelleria. E poi ancora le isole del medio e alto Tirreno. Migrazioni per mare, su affollati barconi, anche allora, che in qualche modo anticipano le drammatiche migrazioni intercontinentali di oggi».
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