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2023: nel buio, delle luci
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2023 @ 00:35 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Pietro Clemente
Buona fine e miglior principio
Questo numero di Dialoghi Mediterranei, redatto come ultimo del 2022, è anche il numero uno del 2023: chiude un anno e ne apre un altro. È un ponte, una soglia, un confine traversato. Contiene il Natale e il fine anno che si trasforma in Capodanno. Tutti grandi temi della ritualità, della vita collettiva da secoli.
Non ho mai avuto grande simpatia per il Natale. Da laico e non credente non lo festeggiavo. Da bambino il Natale significava la presenza a casa di mio padre, presenza rara durante tutto l’anno. Lui preparava il presepio con il muschio, usava la carta argentata per il ruscello. Gesù bambino arrivava la notte del 24 dicembre e i Magi comparivano la notte del 5 gennaio. Poi con le figlie e i nipoti abbiamo vissuto tutti i cambiamenti: abbiamo fatto l’albero, il primo nipote si chiedeva dove Babbo Natale parcheggiasse la sua slitta, e poi via via la scoperta da parte prima delle figlie e poi dei nipoti del mistero di Babbo Natale e dei suoi doni.
Progressivamente sono passato dalla indifferenza rituale per le feste di questa fase dell’anno al rileggerle in una chiave diversa. Familiare soprattutto, ma legata al mondo degli antenati, come è nella prima fase del lungo ciclo invernale che si apre con la commemorazione dei defunti e arriva fino alla fine del Carnevale. Pieno di possibili doni, di questue, di fuochi accesi nella notte, in passato come ora. Dopo la lettura del Babbo Natale giustiziato [1] di Claude Lèvi Strauss, il Natale mi sembra una sorta di alleanza tra gli antichi e i nuovi esseri umani. E anche tra i morti e i nuovi nati. Come dice l’antropologo francese: tra i non più iniziati (decaduti socialmente o per morte o per età) e gli ancora non iniziati. Molte volte durante la pandemia ma ancora oggi questa espressione di ‘non più membri’ della società mi torna in mente perché sento che la mia classe d’età è considerata decaduta da governanti vecchi e nuovi.
Vivere il Natale come festa comune è il vero rito sociale, cui nemmeno il laico si sottrae, il senso sacro di queste scadenze sta nel tempo della vita, nel racconto, nella memoria. Nella presenza degli antenati. Portatori di doni e riconosciuti come fondatori di storie. La dimensione dei piccoli paesi è congeniale a questa visione ‘elementarmente umana’ della nascita e della fine. Buona fine e miglior principio. Questi riti mostrano l’essenziale: sono ben lontani dalla ripetizione primitivistica dei ‘riti agrari precristiani che affondano le radici nella notte dei tempi’ (Frazer). Per ricordare il Natale dei piccoli paesi ho scelto due testi poetici di due uomini nati alla fine dell’Ottocento perché ne mostrano il nucleo più forte e significativo [2].
Quando Maria Lai nel suo libro di disegni e di pensieri sul Natale [5] mostra i tratti profondi e comuni di quella nascita e la legge laicamente come parte del sacro della vita, mi tornano alla mente alcuni passi di quella Glossa sulla Resistenza che ormai più di trenta anni fa mi aiutò a capire [6] i nessi tra il potere e gli individui, i nodi non rinunciabili per la dignità della vita umana, la possibilità dell’evento, le ferite nella sensibilità. Un piccolo vocabolario che mi è rimasto sottopelle, come un tatuaggio [7].
Fuochi nella notte
Affidare speranze per il futuro al linguaggio antico delle feste del ciclo dell’anno può darci qualcosa di nuovo e una idea del possibile. Nel ciclo delle feste invernali i fuochi erano e sono un linguaggio importante, sono grandi pratiche rituali e sociali e al tempo stesso sono grandi metafore. Mi piace citare a questo proposito l’espressione di Mahler ripresa da un amico dell’ANPI Toscana: «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri». Forse dobbiamo dare risalto al fuoco reale e metaforico, dentro di noi e nel rapporto con la vita (Il cristallo e la fiamma fu anche un tema dell’epistemologia letteraria di Italo Calvino nelle Lezioni Americane [8]). Forse c’è un nesso tra la nozione di ’infanzia dell’evento’ [9] e il fuoco, i fuochi da accendere. Si possono trovare i fuochi in Val Pellice nella notte del 16 febbraio per celebrare la concessione della libertà di culto alla Chiesa valdese. I fuochi della ’focarazza’ nella notte del 23 novembre a Santa Caterina di Roccalbegna, le ‘fiaccule’ del Monte Amiata a Natale, i fuochi del 16 gennaio per Sant’Antonio, le ‘fracchie’ e le ‘farchie’ che hanno spesso un valore e una memoria di libertà nella storia del luogo. Occorre trovare un nuovo senso all’evento di accendere un fuoco. O rinnovare quello già in uso.
Ho trovato in una intervista a Zero Calcare su Robinson (10.12.22: 6-9) una traccia in questo senso. Il dialogo tra Luca Valtorta e Zero Calcare trova intorno alla fiamma un nodo che ha a che fare con la libertà, con la liberazione. Zero Calcare descrive l’organizzazione dello spazio della sua mostra a Milano [10] come un camminare in una situazione post-apocalittica in cui i sopravvissuti alle distruzioni cercano di ritrovarsi a distanza
Fuochi reali intesi come eventi, fuochi metaforici intesi come eventi della nostra sensibilità collettiva, fuochi dentro di noi e fuochi fuori di noi, buoni per ritrovarci insieme e fare luce. Fuochi contro la guerra, contro l’incombere della morte, contro tutte quelle morti che fanno dei nostri cuori dei giganteschi cimiteri [11]. E quindi da scoprire, da seguire, da rilanciare. In un anno nuovo nel quale buttare dalla finestra incertezze, paure, rassegnazioni, disperazioni, droni e polizia religiosa iraniani, per trovare inventandola in casa e con i materiali del bricolage pratico e immaginativo domestico qualcosa che dia l’avvio a un possibile fuoco che ci raccolga intorno insieme come quelli di Joe Strummer, e che abbia anche l’effetto delle tende ricovero che vanno moltiplicandosi in Ucraina per cercare legna per accendere il fuoco della resistenza fisica e di quella morale [12].
Il centro in periferia
I paesi sono i luoghi giusti dove accendere fuochi reali e metaforici, luoghi dove i fuochi vengono accesi o tornano ad essere accesi sempre più spesso, anche se – diversamente dal passato – con l’autorizzazione e la presenza dei pompieri. Dal 2008 il Museo del Costume di Nuoro, con l’aiuto dei pompieri, introdusse l’uso di fare il falò di Sant’Antonio e il rito di questua nel cortile del Museo. Anche il nostro Centro in Periferia (CIP) è a suo modo una piccola fiamma o forse una scintilla per ‘invertire lo sguardo’, ri-orientare lo sviluppo verso i luoghi e riabitare le zone interne. In questo numero 59 ne ritroviamo le ragioni più profonde in una serie di testi ‘basilari’ per comprendere i grandi temi dell’Italia periferica.
In effetti, quasi per caso, i dieci testi che abbiamo raccolto si sono disposti a indicare i temi e le forme che più caratterizzano dall’inizio il progetto di questa rubrica. Ci sono tre saggi metodologici che lavorano criticamente su concetti cardine, norme, leggi, linguaggi (Ciuffetti, Lupatelli, Teneggi). due testi di dibattito e riflessione legati a specifici luoghi (Meloni, Tarpino), due etnografie locali che mettono alla prova strumenti e questioni (Tucci, Rossi), un testo sul PNRR nel paese di Cavriglia in Toscana (Bertoncini) che descrive storia, patrimonio, scenario del luogo, e inoltre due contributi di aggiornamento della rubrica legati alla continuazione di resoconti in atto, anche essi problematici e ricchi di suggestioni. È come se spontaneamente mi avessero dettato la struttura più efficace del CIP. Ne sono soddisfatto, anche perché come ho già precedentemente segnalato, avevo l’impressione che questo progetto di informazione, dialogo e riflessione si fosse un po’ impoverito negli ultimi numeri.
I primi tre scritti hanno un altro comune denominatore: l’Appennino come ‘cuore’ delle aree interne, dell’Italia montana. Di quella Italia che ha dimenticato di essere un paese di montagna. La storia del territorio è un nodo presentato più radicalmente che altrove, perché le vocazioni e le potenzialità dei territori stessi vanno misurate non solo e non tanto con i mondi contadini che li hanno abbandonati ma con i mondi precedenti che ne hanno definito la storia e la civiltà. Si dà risposta così anche al senso comune che vede nel passato preindustriale solo povertà e chiusura sociale, secondo una costruzione del moderno che denigra le fasi precedenti per autodefinirsi come nuova e migliore.
A guardare nei tempi lunghi, nella storia particolare, nelle storie plurali, si aggiungono nuovi orizzonti di possibilità alla memoria e all’esperienza. Voglio segnalare lo scritto di Ciuffetti che tratta il tema dell’accoglienza. Non quella del turismo nelle varie forme, che pure è importante e domina il dibattito, ma quella dei nuovi migranti del mondo, che sono la risorsa principale per contrastare uno spopolamento che è anche denatalità radicale. Un tema questo ancora ostico nelle proposte e nelle discussioni. Lupatelli mette in campo la sua idea guida che vede le green communities come forma di governo del territorio, legate a iniziative dei comuni, a dispositivi della politica e della legislazione, che si intrecciano con la nuova configurazione e natura delle comunità nelle aree interne. Qui ecologia, energie pulite, solidarietà, critica del centralismo energetico si connettono, e di fatto si apre un chiarimento, per chi legge il CIP, che sarà potenziato nei prossimi numeri con altri interventi su specifici temi concettuali e politici del ‘riabitare l’Italia’. Teneggi pone al centro della nuova domanda di vita dei paesi le cooperative di comunità come risposta a punti di vista esterni versus interni, tra comunità immaginate per altri, e decise da residenti vecchi o nuovi ma in un disegno comune. Il tema della comunità connette i tre testi, ma leggendoli si capisce bene che la comunità è proprio ciò che non c’è e che non nasce per definizione ma per pratica. Teneggi la definisce proprio per la sua natura di progetto che sottolinea la sua assenza: comunità che non c’è. La comunità è quel che manca. Nei tre testi è interessante il linguaggio, non solo riflessivo e critico ma anche auto interrogante, come se volesse evitare l’idea che basta enunciare delle idee per risolvere i problemi.
Con la costante presenza in iniziative formative, in consulenze, in progetti locali la Scuola di sviluppo locale che ha sede a Seneghe si propone come un nodo territoriale che mette insieme l’intervento di Baldino, Meloni, Uleri, con i temi trattati da Teneggi che proprio a Seneghe mise a punto il suo ‘manifesto’. La Scuola di Seneghe opera da tempo sul turismo rurale: la crescita della «domanda turistica esperienziale all’interno delle economie rurali nelle aree interne diventa dimensione chiave per il ripensamento e la progettazione dello sviluppo locale di questi territori in connessione a una nuova centralità dell’agricoltura che con esso si articola e si connette, determinandone la specificità e la qualità dell’offerta». Che è anche per gli antropologi un modo ulteriore di parlare di patrimonio senza ridurlo a pura storia incorporata e monumentale.
Tarpino propone il duro confronto tra «i tratti paradossali di un Italia stretta fra i “Troppo vuoti” delle montagne povere, delle terre alte in genere e delle aree interne e i “Troppo pieni” delle metropoli, delle coste e dei paradisi turistici». Il suo intervento inizia con una drammatica memoria fondativa del filosofo Benedetto Croce, coinvolto giovanissimo nel grande terremoto di Ischia. È il fronte dell’Italia delle zone devastate in cui si misura la volontà della politica di investire nei luoghi e non nel definitivo abbandono. Si ha spesso l’impressione che l’abbandono sia visto come un fenomeno ineluttabile da assecondare, una idea che misura soprattutto la cecità della politica.
Nelle nostre riflessioni si incontrano, si alternano e si oppongono il livello della lenta costruzione con quello della improvvisa distruzione, della permanenza delle rovine prodotte da una guerra che la violenza dello sviluppo sregolato e privatistico impone al mondo storico e naturale dei territori. Difficili scenari per la nostra immaginazione: il pianeta e l’antropocene, il rischio ecologico finale, le guerre e le superpotenze cariche di armi, i conflitti religiosi e il mondo dei diritti. Quando pensiamo alla crescita delle nuove comunità nei piccoli paesi oscilliamo tra il desiderio di arricchire il mondo complesso di modalità più adeguate di vita e la sensazione di un mondo nel quale occorrerà ricominciare da capo l’impresa elementare del vivere sociale, forse in una terra distrutta.
Antropologie dei luoghi e musei
I testi di Tucci e Rossi ci portano nei luoghi con sguardi etnografici attenti a strumenti e pratiche. Insieme al testo di Bertoncini ridanno rilievo al dibattito sul ruolo dei musei e degli ecomusei nello sviluppo locale, e nella coscienza di luogo. L’ecomuseo delle acque di Gemona ci offre una esperienza che è al tempo stesso l’indicazione di uno strumento a favore delle comunità locali:
Un suggerimento di metodo utilissimo anche per la nascita delle comunità e di una memoria storica più ricca e dettagliata che si connette allo scritto sugli ecomusei dei dintorni urbani ex industrializzati (Agulli, Sasanelli), ecomusei i cui spazi sono quelli più trasformati e con forte perdita di memoria. Ricordo il lavoro dell’Ecomuseo urbano di Milano Niguarda (EUMMEcomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord – EUMM (eumm-nord.it)) dove la forza della mappa di comunità è riuscita a fare riapparire una spazialità completamente perduta.
Rossi si interroga sulla nascita di un Museo come risposta all’interruzione, prodotta dal Covid, della rievocazione storica del Carnevale di Casciano Val di Pesa. Sul museo come strumento riconosciuto da una comunità che si fa ‘comunità patrimoniale’ e che costruisce mezzi di potenziamento di sé stessa usando a questo scopo uno strumento altrimenti in crisi come il museo.
Un museo sta anche nel cuore del PNRR (Bertoncini) che il Comune di Cavriglia (Arezzo) ha vinto per la ricostruzione della frazione di Castelnuovo di Avane o dei Sabbioni. Il Museo Mine – che ho visto nascere, legato a un progetto di Gianfranco Molteni – connette la storia mineraria, quella medievale e quella del passato vicino tra mondo rurale in crisi e passaggio del fronte con la strage nazista [13]. Una sfida straordinaria che ci piacerà seguire insieme alle altre sfide legate ai PNRR. In Sardegna il PNRR è andato a Ulassai, il paese noto per il lavoro artistico di Maria Lai, mentre investimenti minori ma significativi sono andati a centri come Seneghe e Armungia, quasi un riconoscimento del lavoro locale sulle aree interne fatto dalla scuola di Seneghe e dall’Associazione Casa Lussu insieme con i musei comunali.
Osservare il PNRR nell’applicazione a queste realtà sarà forse il nodo principale del prossimo anno per chi si occupa del riabitare l’Italia. Nonostante tutte le giuste critiche sulle forme di erogazione, sui criteri ministeriali, sulla mancanza di coordinamento e programmazione, il PNRR è forse la forma più clamorosa e unica di investimento finalizzato ai luoghi che ci sia dato vedere.
Storie di storie
A volte il tema dello sviluppo di una pratica di Public History si connette con i temi della memoria dei luoghi. Il racconto degli ecomusei di aree ex industriali (Agulli, Sasanelli) mostra la varietà delle temporalità, degli strati del passato, contrasta le semplificazioni, mostra l’industria nelle sue generazioni e dismissioni, morti e rinascite nelle sue diverse tipologie. Apre dialoghi tra città e territorio:
«Partendo proprio dallo studio e il recupero della memoria di siti industriali in dismissione agli inizi degli anni duemila, con il progetto “Ecotempo” le ricerche ecomuseali sono evolute studiando, sotto vari punti di vista, i mulini industriali del capitalismo agrario coevi al mulino settimese e le fabbriche di stampo novecentesco».
Così come sono storie di storie, accumulo prezioso di memorie, le note di storia associativa legate alla nascita della Pro Loco di Fiamignano: il rito dei 50 anni di storia dell’associazione viene dilazionato ai 52 anni a causa del Covid e pone al centro la realizzazione di un murale nel quale viene fissato nella memoria visiva ‘l’evento della nascita’. Nel murale ci sono le donne che 50 anni fa facevano la cernita delle lenticchie di Rascino, nodo della ripresa della comunità e del lavoro della pro-loco.
La notte di Natale è morto Giancorrado Barozzi, studioso di tradizioni popolari e di storia orale. La sua ricerca sulla narrativa di tradizione orale, sul folklore, sulla storia del mantovano, sul carnevale, sui musei è ben documentata sul web. In particolare il suo Atlante demologico lombardo. Nel numero 72 de La ricerca folklorica, si trova il suo ironico racconto autobiografico di studioso impegnato e appassionato. Tutti lo ricordano come persona gentile e colta, studioso dalle grandi e molteplici risorse intellettuali. Era del 1950 ed ha affrontato con coraggio e consapevolezza un tumore che ha combattuto per diversi anni.
Buon 2023.
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