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Delusione del sogno: decadenza dell’italiano. Dalla lingua franca nel Mediterraneo medievale al tradimento di Bruxelles

Posted By Comitato di Redazione On 2 aprile 2013 @ 10:40 In Cultura | 2 Comments

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di Giuseppe Inzerillo

In questi giorni il nuovo Tribunale europeo dei brevetti ha stabilito che si parleranno solo inglese, francese e tedesco, ossia le lingue nazionali delle tre sedi in cui si articola: Londra, Parigi e Monaco di Baviera. Decisione che ancora una volta mina il prestigio culturale dell’Italia e determina nello stesso tempo aggravi economici ed organizzativi alle nostre aziende che, se citate in giudizio da un concorrente straniero per contraffazione, ad esempio, nella sede di Monaco di Baviera, dovranno sostenere un costoso processo in lingua tedesca (peraltro gli effetti della sentenza avranno valore per tutti i Paesi della Comunità).

Sembrerebbe un decisione di portata limitata, e ristretta ad un solo segmento dell’apparato produttivo e del personale dotato di fantasia inventiva. Ma sul piano storico, culturale e perfino economico essa oggi assume una pregnanza alquanto punitiva per l’Italia di Galileo, Spallanzani e Marconi. Tra l’altro ci riporta il pensiero al tempo in cui la lingua italiana godeva di ben altro riconoscimento diffuso nel bacino del Mediterraneo, tanto da costituire di fatto una lingua franca da Cordova ad Alessandria, da Tunisi a Istambul, cioè nell’ambito di un immenso spontaneo Mercato Comune commerciale che inevitabili interessi politici e diplomatici sostenevano e incoraggiavano.

Due, come si ricorderà, furono i fattori decisivi che consentirono di veicolare tanti vocali e modi di dire, anche di conio recente: da una parte la lingua divina del Corano, per evitare manipolazioni, non poteva essere riprodotta e stampata in Occidente (i caratteri di stampa arabi furono utilizzati a Lipsia soltanto nell’Ottocento); dall’altra il reciproco rifiuto, da parte di chi esercitava l’egemonia economica e culturale nell’ambito della propria sfera politica, di accostarsi alla lingua (ma anche pittura, architettura, musica, ecc.) ritenuta “barbara”.

Le informazioni di natura economica però furono affidate a traduttori riconosciuti ed autorizzati, a poco a poco diventati, come si direbbe oggi, una casta privilegiata: costituivano collettivamente la dinastia dei dragomanni (turjeman: traduttori). Erano cristiani convertiti all’Islam ed ebrei, che con sapienza opportunistica, preferirono adottare, essendo l’Italia di allora del tutto ininfluente politicamente, proprio l’italiano. Abili poi come erano, riuscirono ad ottenere dal Sultano, nel 1661, l’istituzione di una nuova figura giuridica: il “Grande Dragomanno”.

In seguito, per una sorta di eterogenesi dei fini, esercitarono funzioni di collegamento tra i popoli e perfino l’acculturazione dei propri rampolli nelle città italiane. A riprova del prestigio raggiunto dalla lingua italiana qualcuno mi parlava, nel corso di un recente viaggio nell’Usbekistan, di un trattato di pace che pose fine alla guerra tra Russi e turchi: era scritto in due versioni (italiano e turco; italiano e russo) ma il riferimento ufficiale restava soltanto alla versione italiana!

A questo punto appare utile aggiungere che la credibilità dell’italiano è stata minata da una devastante neo-lingua inventata dalla partitocrazia bugiarda e dalla burocrazia delle tante caste immortali. Basta fare riferimento a quanto scritto da Domenico Novacco e Leonardo Sciascia, Il primo, per lungo tempo mazarese, nel suo splendido volume “L’officina della Costituzione italiana”, ricorda che nel timore di insufficienti garanzie di limpidezza costituzionale nel testo che nel 1947 sarebbe stato quasi subito approvato, furono incaricati Concetto Marchesi, Pietro Pancrazi e Antonio Baldini di rileggere la bozza di Costituzione in modo da suggerire un testo stilisticamente decente. Il lavoro fu diligentemente svolto, vennero avanzate proposte plausibili ma non se ne fece niente perché c’era il rischio di mettere in discussione i risultati acquisiti e i “laboriosi accordi politici”.

Il secondo, Leonardo Sciascia, nella sua ultima opera (“Una storia semplice”, ma in realtà assai controversa), fa incontrare e parlare un sagace professore e un suo lontano studente, diventato inopinatamente tronfio esponente della Magistratura, che nei compiti di italiano riportava una bassissima votazione (tre normalmente e una volta cinque). Il che non gli aveva impedito di diventare Procuratore della Repubblica. La risposta dell’antico professore fu implacabile per l’interlocutore e per il sistema scolastico degradato: “L’italiano non è l’italiano, è il ragionare. Con meno italiano lei forse sarebbe ancora più in alto”.

Invero, a suo modo, aveva ragione Giacomo Leopardi: “Dei nostri vanti s’intravvede la coscienza della nostra inferiorità”. Travolti dalle alluvioni dei commi legislativi confusi e sconfitti dalla de meritocrazia, accettiamo la novella decisione di Bruxelles, consolandoci con il ricordo del tempo in cui il tarì siciliano sovrastava il solidus bizantino e il dinaro islamico.

Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
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